SIMILI A DONNE
di Luisa Muraro
in "Quaderni Piacentini", n. 60-61, ottobre 1976
Il fatto che la stragrande maggioranza delle donne passi
tutta la vita in una completa estraneità alla politica, lo si sa
come fatto ma non basta. Non c'è una spiegazione. In particolare,
non si spiega interamente come effetto d'una intenzionale esclusione da
parte della società maschile; le forze di sinistra, che ritengono
(giustamente) d'essere danneggiate dalla spoliticizzazione delle donne,
hanno cercato e cercano di combatterla. In passato, con risultati ritenuti
insoddisfacenti. Adesso, si dice, siamo ad una svolta: "grandi masse
femminili sono ormai giunte in forme anche autonome a un più avanzato
grado di consapevolezza politica".
Questa frase è stata scritta da due donne, con trasparente orgoglio
che io capisco e condivido anche. Perché anch'io mi sentivo umiliata
da un'interna inclinazione ad estraniarmi dal politico, inclinazione che
mi accomunava a tante mie simili ma che è in cosi aperto contrasto
con un modello di donna emancipata. Vorrei pensare che è cosa passata
e che ormai siamo avviate, in modo definitivo ed irreversibile, ad una
massiccia presa di coscienza politica.
Però non ne sono tanto sicura. Il fatto della spoliticizzazione
femminile non è chiaro in quello che significa e se anche fosse
cosa passata, niente gli impedisce di tornare, visto che non sappiamo
il perché e il percome. Temo addirittura che a sinistra si stia,
per frettoloso entusiasmo e certo contro ogni intenzione, risospingendo
le donne verso la loro enigmatica estraneità (per il fatto che
mi riguarda la cosa non mi è meno enigmatica).
A chi volesse riflettere su questo, propongo di partire da un libro (La
Resistenza taciuta - Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Anna
Maria Bruzzone e Rachele Farina, ed. La Pietra, Milano 1976, lire 4500)
che è bello per tanti aspetti e che uno può dunque leggersi
per tanti motivi. Anche per il piacere che dà.
Il libro mostra il contrario di quello che si diceva prima. "E' pieno
della passione, dell'intelligenza e del coraggio di donne che fanno politica.
Le quali, per giunta, raccontando la loro vita, non ci mettono un filo
di retorica e non usano quegli schemi ideologici che, per quanto giusti,
rendono un po' fastidiosa la letteratura resistenziale. Sono donne che
non hanno costruito una carriera politica sui meriti di partigiane e che,
in alcuni casi, non hanno nemmeno ricevuto riconoscimenti ufficiali.
Ma chiaramente di queste cose a loro non importa molto. Esprimono invece,
quasi all'unanimità, un altro rincrescimento ed una delusione più
sostanziale: con la Liberazione è finito il periodo più
bello della loro vita (cfr. pp. 44, 75, 85, 94, 156, 210...). "Poi,
dice Maria Rovano, mi è stato tutto più difficile: questi
trent'anni sono stati molto più duri, più nebulosi"
(p. 230). Una soltanto cerca di reagire, Lucia Canova, che dice: "Alcune
compagne rimpiangono quel periodo. Io no, no. Io sarei... son combattiva
ancora adesso" (p. 228), confermandoci così che si è
posto a loro questo problema di stabilire una continuità. Per quelle
che non ci sono riuscite il periodo della Resistenza rimane separato,
in una distanza che è all'inverso di quella temporale: questi trent'anni
sono nebulosi", distanti, confusi, mentre di allora raccontano come
se l'avessero davanti gli occhi. Tutte sono rimaste combattive, cioè
impegnate politicamente, ma avvertono che la distanza è enorme.
Lo stesso, o qualcosa d'analogo, si potrebbe dire delle molte donne per
le quali la Resistenza è stata l'unica stagione politica della
loro vita.
Nessuna medaglia, nessuna carriera politica avrebbe colmato questo scarto.
Oppure: dello scarto siamo informati perché queste dodici non hanno
avuto incentivi o non si sono ritrovata la disposizione per immaginare
che dopo si continuava la stessa lotta, anche se i modi e le circostanze
erano mutati.
Noi oggi, usando chiarezze guadagnate recentemente, leggiamo nelle loro
stesse parole che cosa c'è alla radice del sentimento d'una eccezionalità
seguita da una perdita irrimediabile: durante la lotta contro il nazifascismo
molte donne uscirono dal privato ed agirono senza subire la rigida struttura
familiare e l'inferiorità sociale in cui sono normalmente tenute.
Finita l'emergenza, non trovarono né in sé né fuori
di sé gli argomenti e le circostanze che avevano reso possibile
la loro decisione di libertà. Cosi pensano, giustamente, le curatrici
del libro. Le quali, a questo punto, si soffermano un po' troppo a lamentare
il fatto dei mancati riconoscimenti ed una certa prevaricazione maschile
che avrebbero risospinto nell'ombra donne come queste, capaci e disinteressate.
Se si decide d'ascoltare partigiane che "hanno subito forme di emarginazione
o di esclusione sociale" (questo è uno dei criteri per la
scelta del campione) non vale la pena poi sottolineare che non ci sono
state molte medaglie né grandi carriere: si sapeva da prima. Che
ci sia stato impedimento maschile, è facile da immaginare, ma si
potrebbe dimostrare anche il contrario, con un campione di donne che la
carriera l'hanno fatta e le medaglie le hanno prese. Bisognerebbe, per
uscirne fuori, dimostrare che nelle organizzazioni di sinistra c'era spazio
per poche donne e che tale spazio fu tutto riempito, mentre altre chiedevano
di poter entrare. Io non so se è capitato questo. Comunque queste
dodici, parlando di quello che è loro capitato dopo la Liberazione,
non dicono d'essere state impedite nella carriera politica. Dicono più
fortemente d'essere rimaste deluse, d'essersi tirate indietro, di non
aver sopportato il grigiore degli anni Cinquanta o il clima politico della
guerra fredda.
La rottura che esse segnalano dolorosamente non è determinata dal
fatto che la strada delle medaglie e della carriera era loro preclusa
(come notano anche le curatrici che ammirano il loro disinteresse). Semmai
è viceversa: non si fecero avanti perché colpite da una
discontinuità che parve loro irrimediabile. Quello che avevano
vissuto durante la Resistenza non si lasciava trasferire intatto nel presente.
Avevano conosciuto una grande libertà di movimento, avevano organizzato
deciso comandato o ubbidito secondo la necessità, avevano ascoltato,
erano state ascoltate, i figli c'erano e non c'erano, con gli uomini avevano
stabilito rapporti di parità, progettavano insieme una società
nuova, e giocavano anche (una in montagna con i compagni fa il gioco d'essere
violentata); se le prendevano i fascisti non era uno scherzo, però
non c'era vergogna, e se certi le consideravano puttane, non ci badavano.
E sgusciavano tra fascisti e tedeschi, fintamente incinte o innamorate
o prostitute o sposate, giocando cosi nell'azione clandestina tutte le
parti invece dell'unica che la società gli avrebbe imposto obbligatoriamente.
Sempre, nell'azione clandestina, le donne si trovano una grande abilità
mimetica (finora ha sempre funzionato, forse perché gli uomini
sono troppo fissati a identificare le donne con i loro ruoli obbligatori).
"Poi è crollato tutto. Terribile, terribile, terribile. Per
me la Liberazione è stato uno choc" (sono parole di Tersilla
Fenoglio Oppedisano, p. 159). Poi bisognava ricominciare: diminuire, ritagliare,
differire, mediare... e anche dimenticare.
Qui io vedo, nel suo senso più positivo. la parentela di queste
dodici (che non hanno dimenticato) con la massa delle donne spoliticizzate.
Le accomuna un problema d'intraducibilità. Che certo conoscono
anche alcuni uomini, quelli che, simili a donne, non sopportano la militanza
e preferiscono la partecipazione episodica. (1).
L'intraducibilità è di due tipi, una, per così dire,
assoluta ed una storica. Del primo tipo sono le esperienze (politiche,
ma non soltanto) che non possono essere prolungate perché hanno
una loro stagione. Sono i periodi rivoluzionari. I periodi rivoluzionari,
si dice, prefigurano ed anticipano cose che poi lentamente bisognerà
ecc., ma in realtà tante ne mostrano che poi si perderanno completamente.
E di questa perdita alcuni non si lasciano consolare. O forse ciò
che li affligge è di ritrovarsi vuoti, senza la straordinaria passione
che insieme teneva e muoveva tutto. Restano perciò molto attaccati
al ricordo.
Quelli che ci passano sopra e continuano la lotta, dispongono forse d'un
potente sistema di spostamenti e trascrizioni per cui queste cadute e
rotture non minacciano la loro integrità emotiva. Ma non tutti
ci riescono. In particolare a molte donne fare politica appare di scarso
interesse perché è un ritaglio molto parziale (nei contenuti
e nei modi) e non garantisce un'integrità emotiva cui sono molto
attaccate forse perché la sentono fragile (non è una questione
psicologica, devo soltanto avvertire non potendo qui andare al fondo dove
stanno fatti strutturali come la riproduzione e la sessualità).
Se a una donna non si presenta mai l'occasione d'uscire dai confini stretti
della sua esistenza trasferendosi altrove con il sapere e le emozioni
che aveva lì dentro, ci resterà dentro anche tutta la vita,
anche se la sentirà soffocante. Un uomo magari si agita, una donna
è capace di stare li ad aspettare, indifferente alle banali lusinghe.
Tra quelle che riescono a passare oltre e quelle che non ci riescono,
si apre allora una discriminante, che spartisce le emancipate e politicamente
impegnate da tutte le altre. Discriminante che comincio a pensare non
sia in realtà così rigida, perché queste dodici non
stanno né di qua né di là: sono sempre state impegnate
politicamente ma in modi e con problemi che sono delle altre, le spoliticizzate.
L'intraducibilità storica caratterizza quelle conquiste che, fatte
o sfiorate rapidamente, mancano d'alcune condizioni per durare; bisogna
allora ricominciare daccapo ma non è facile per chi c'era arrivato
d'un colpo solo. Nelle loro testimonianze, ad esempio, le dodici esprimono
il fastidio o l'indignazione che provarono quando, finito tutto, gli uomini
ripresero a trattarle con superiorità. Maria Martini Rustichelli
una sera se ne uscì furente dalla sezione dove, ad una sua proposta,
qualcuno aveva ribattuto: "Ma cosa vogliono dire le donne!"
(p. 210).
Il problema era per loro aggravato da una parziale inconsapevolezza: pur
attribuendo grande valore al rapporto paritario con gli uomini, non vogliono
fare di questo un obiettivo politico e soprattutto che si pensi che per
questo hanno fatto la Resistenza. Rosanna Rolando (nome di battaglia:
Alba Rossa) introduce la sua biografia con un'affermazione lapidaria:
"Ho sempre lottato per i diritti di tutti, non solo per la donna,
perché io ho lottato nel Partito comunista". (p. 18).
Di nuovo bisogna stare attenti a non forzare questa posizione dentro l'ottica
delle chiarezze recenti. Potremmo dire, senza sbagliare molto, che queste
donne s'erano formate quando la sinistra aveva sospeso ogni dibattito
sulla questione femminile, rimandandola a dopo la presa del potere; esse
mancano perciò d'una consapevolezza politica. Ma poiché,
per altri aspetti le stesse si scostano dalle posizioni ortodosse, possiamo
anche pensare che l'affermazione di Alba Rossa non sia soltanto effetto
ideologico. Sono propensa a pensarlo alla luce d'una considerazione storica:
le donne hanno dimostrato anche altre volte di voler conquistare la parità
con gli uomini come effetto laterale d'una lotta condotta per raggiungere
altri obiettivi. L'esempio maggiore ci è dato dalla mobilitazione
femminile per l'emancipazione dei negri negli USA.
Ed è abbastanza logico. Alba Rossa è una donna orgogliosa:
dopo la Liberazione ha rifiutato il diploma Alexander ("non voglio
cose da stranieri") e finisce il racconto della sua vita dicendo:
"Siamo stati dimenticati, ma non importa. Non mi sono mai lamentata".
(p. 31). Come si fa a volere esplicitamente e a dire di volere quello
che si continua a considerare naturale che sia? Come fa a dire 'che vuole
raggiungere la parità una che pensa d'essere uguale ed ha appena
dimostrato d'essere migliore di tanti altri?
La domanda finale allora è questa: se si supera l'orizzonte ristretto
d'una lotta per la parità con gli uomini, diventa possibile alle
donne superare la strana "struttura laterale" con cui in passato
hanno cercato di portare avanti i loro interessi?
Non è sicuro, perché la struttura laterale, oltre ad esprimere
che le donne si sentono uguali nonostante tutto, è servita anche
ad aggirare, tra gli altri, un grosso ostacolo: la non traducibilità
dei loro interessi fondamentali in obiettivi politici. C'è una
difficoltà per le donne ad immettersi nel regime politico ordinario,
dove per forza bisogna sapere quello che si vuole e dove bisogna accettare
di volere oggi quello che si può realizzare subito, e per il resto
aspettare. Non che ci manchi la pazienza ma quelle disposizioni tattiche
e strategiche della politica sembrano a tante di noi dei ritagli che lasciano
sempre fuori quello che c'interessa.
Ed è realmente cosi, lo suggeriscono anche i racconti delle dodici
partigiane. In questi racconti vediamo che intorno al filo principale,
la lotta antifascista, s'aggregano tanti fatti e situazioni che riguardano
la vita familiare, il lavoro, i rapporti sociali, il sesso; niente della
vita ordinaria d'una donna è tagliato fuori neanche nell'esperienza
di quelle ch'erano entrate nella clandestinità; tutto viene chiamato
dentro per una trasformazione radicale che non era stata programmata.
E' di questo tipo la pratica politica che piace alle donne. Naturalmente
non si può restare a quest'affermazione psicologica, ma volendo
raggiungere il più solido terreno dell'oggettività ce la
troviamo davanti ed è bene averla sempre davanti.
(1) Elvio Fachinelli, ad esempio, dopo un viaggio in Portogallo scrive
Uma tentativa de amor (Cooperativa scrittori, Roma 1976) invece di fare
una relazione politica.
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