Il manifesto,
10 Giugno 2010
IN RISPOSTA A ROSSANA ROSSANDA L'altra
metà DEL LAVORO di Lia Cigarini, Giordana Masotto, Lorenza
Zanuso
La flessibilità imposta dall'economia neoliberista non rappresenta
un'opportunità per le donne. Ma il tempo pieno, sempre uguale per tutta
la vita, non può più essere considerato un modello a cui adeguare
lotte e obiettivi. In questo quadro, chiudersi nell'alternativa fra «più
stato» o «più mercato» impedisce di sperimentare nuovi
modi di accogliere il conflitto, che di per sé costituisce un passaggio
essenziale per cambiare l'organizzazione del lavoro L'articolo di Rossana Rossanda
(il manifesto, 30 maggio), a commento del nostro Sottosopra - Immagina che il
lavoro (testo scaricabile in www.libreriadelledonne.it/Stanze/Lavoro/stanzalavoro.htm),
merita alcune precisazioni e ci spinge a riflessioni più generali che ci
piacerebbe aprissero sul manifesto un confronto, secondo noi necessario e urgente.
Rossanda ci invita: «vogliamo discuterne?». È un invito che
abbiamo molto apprezzato e che facciamo nostro. Lei dice che noi vediamo nella
flessibilità una opportunità di conciliazione maternità/lavoro.
Questa obiezione gioca sull'ambiguità del termine flessibilità (delle
persone per il lavoro o del lavoro per le persone?). Certamente noi non abbiamo
mai sostenuto che la flessibilità imposta dal mercato del lavoro neoliberista
sia un'opportunità per le donne. Noi affermiamo - e con noi lo affermano
da tempo centinaia di economiste e studiose in tutto il mondo - che il modello
di lavoro full-time full-life ha una storia specifica, fondata su una specifica
divisione del lavoro tra i sessi: gli uomini al lavoro retribuito e le donne a
casa. Diciamo che, con la partecipazione femminile di massa al lavoro per il mercato
(unitamente al controllo della procreazione e alla più generale consapevolezza
nata con il movimento delle donne), questo modello non è più sostenibile;
e che va rimesso in discussione per tutti, uomini e donne. In altre parole: il
tempo pieno, sempre uguale, per tutta la vita, non può più essere
considerato il modello cui uniformare lotte e obiettivi. Non solo non è
perseguibile, ma neppure desiderabile. Così come non è né
perseguibile né desiderabile uno sviluppo basato sull'aumento infinito
dei consumi. Processi di adattamento sociale Siamo ben consapevoli che il
mercato del lavoro non è più quello degli anni Sessanta-Settanta.
Vediamo e ascoltiamo le condizioni di precarietà e ricatto cui sono costretti
in particolare i giovani nelle attuali condizioni del mercato del lavoro: donne
e uomini, perché questo cambiamento non riguarda specificamente le donne.
Eppure, riteniamo imprescindibile mantenere fermo quel punto di analisi, cioè
la radicale trasformazione dell'idea stessa di lavoro determinata dalla presenza
in massa delle donne anche nel lavoro retribuito. Perché vediamo che quel
punto di vista non solo fa chiarezza sulle trappole paritarie (come perfettamente
spiega Ida Dominijanni a proposito dell'età pensionabile, sul manifesto
del 5 giugno), ma apre a una diversa consapevolezza, diversa anche dalla solita
analisi sul lavoro postfordista. E crediamo che, se non ci sono impuntature ideologiche
e steccati identitari, questa consapevolezza dia forza alla soggettività
politica delle donne, e possa mettere in comunicazione anche donne e uomini che
usano chiavi di lettura diverse. A questo primo e fondamentale punto di analisi,
noi aggiungiamo un corollario: la completa socializzazione del lavoro di riproduzione
attraverso merci o servizi privati e pubblici, che viene proposta come «soluzione»
sia nelle impostazioni marxiste classiche sia dai teorici del pieno impiego del
capitale umano uomo-donna, non è né credibile né desiderabile.
E quindi va rimesso sul piatto della politica e dell'economia l'insieme del lavoro
necessario per vivere, il suo senso per i singoli e la collettività, e
la sua distribuzione per tutti. E ipotizziamo che in questa discussione le donne
possano portare conoscenza e esperienza, un sapere storico che non va buttato
via. Rossanda dice anche che non teniamo in sufficiente considerazione la cancellazione
dello stato sociale, i bassi salari delle migranti, e i differenziali salariali
uomo-donna. Concordiamo che siano temi di fondamentale importanza, ma riteniamo
imprescindibile discuterne a partire da una seria considerazione dell'insieme
del lavoro necessario per vivere. Senza poter entrare qui nel dettaglio, osserviamo
solo che nessuna di queste tre cose è direttamente correlata alla maggiore
o minore flessibilità dei tempi di lavoro. L'assetto attuale del mercato
del lavoro italiano, con i suoi squilibri generazionali e territoriali, etnici
e sessuali, si è realizzato all'ombra di un silenzioso intreccio di interdipendenze
tra lavoro di produzione e riproduzione, il cosiddetto familismo all'italiana. C'è
chi vede questi processi solo o prevalentemente come colpevole sfruttamento di
alcune donne su altre donne, o anche come pura e semplice mercificazione del lavoro
di cura. A noi questo pare miope. Si tratta piuttosto di un gigantesco processo
di adattamento sociale che non è possibile capire né smontare se
non si riparte proprio dal guardare agli andamenti e alla qualità del lavoro
retribuito di donne e uomini, migranti comprese, dal punto di vista del lavoro
di riproduzione dell'esistenza, e non viceversa. Quanto ai differenziali salariali
uomo-donna, oltre a essere di controversa misurazione, sono in Italia i più
bassi d'Europa (4,9%, vedi Mark Smith su www.ingenere.it) e più in generale
derivano sostanzialmente dal fatto che in tutto il mondo occidentale uomini e
donne che lavorano hanno caratteristiche personali diverse, e fanno lavori e occupano
posizioni differenti nel mercato del lavoro: un fenomeno per il quale si richiede
una spiegazione ben più complessa che non la «denuncia» della
flessibilità. Infine, nell'alternativa secca o «più stato»
o «più mercato», richiamata da Rossanda, di certo non è
venuta da parte femminista la richiesta di più mercato. Restare chiuse
in quell'alternativa, che è troppo rigida e troppo semplice, impedisce,
ad esempio, di ragionare su «un welfare a misura di relazioni» come
abbiamo fatto con Laura Pennacchi, oppure di cogliere dinamiche inedite tra locale
e globale e di sperimentare forse anche nuovi modi di agire il conflitto. Quando
poi parliamo di maternità è chiaro che non intendiamo solo maternità
biologica, né tanto meno destino identitario. Condividiamo le osservazioni
di Rossanda. Figurarsi se non sappiamo che esiste anche un lato oscuro della maternità.
Perfino nel nostro gruppo ci confrontiamo continuamente con tutto ciò:
delle otto autrici del Sottosopra, quattro sono convinte madri biologiche e quattro
convinte non-madri biologiche. Dice Rossanda: «È un fatto che un
senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati
dalla caduta del classico ruolo paterno». Ma è proprio per ricostruire
quel senso che dobbiamo rimettere al centro dell'analisi politica tutto il lavoro
necessario per vivere. Su questo tema, la nostra esperienza di confronto con
molte donne ci fa dire che l'affermazione del «doppio sì» -
cioè di due desideri per molte irrinunciabili, lavorare e stare con i figli
- lungi dall'essere percepita come elitaria, o dall'inchiodare ognuna al proprio
vissuto, fa tirare sospiri di sollievo, apre spazi importanti di libertà
personale e abbatte steccati. La fortuna che l'espressione «doppio sì»
- non è un obiettivo politico in senso classico - ha avuto, superiore alle
nostre aspettative e negli ambiti più diversi, ci dice che quelle parole
danno forza simbolica a ogni singola donna, madre o no, perché valorizzano
la sua differenza e le dicono che è possibile ripartire anche da lì.
Per fare cosa? Per narrarsi pubblicamente, per contrattare, per agire politicamente. Agire
il conflitto In conclusione: l'analisi di Rossanda, come altre che leggiamo,
ci appare ancorata a una specie di realismo depresso. Al contrario noi saremmo
caratterizzate dall'ottimismo elitario. Siamo invitate a scendere sulla terra
e a confrontarci con i duri fatti della realtà. A non prendere il desiderio
per sogno, a misurarci con la necessità del cambiamento e del conflitto.
Eppure nel nostro testo affermiamo con forza la necessità di agire la contrattazione
a tutti i livelli, tra sé e sé, con l'altra/o, in casa e nel lavoro.
Di riscoprire dal nostro punto di vista la conflittualità. Togliendo a
questa parola l'interdetto sociale che ormai si è imposto, che la associa
a negatività, debolezza e fallimento, schivando contemporaneamente la modalità
bellicosa che ha come misura il controllo del potere. Agire il conflitto, al contrario,
vuol dire riconoscere sé e l'altro nella loro differenza. Agire il conflitto
per evitare la guerra, che invece vuol dire definire l'altro «nemico»
per poterlo annientare. Contrattare per dare spazio pubblico alla differenza. Per
tutti questi motivi, ci viene il dubbio che una difficoltà a confrontarsi
tra chi ha a cuore donne-lavoro-politica, stia forse anche nel fatto per cui alcune
scommettono sulla forza della libera soggettività femminile di cambiare
il senso e l'organizzazione del lavoro, mentre altre non possono sottrarsi alla
sofferenza femminile, doppiamente segnata dalla globalizzazione e dal patriarcato,
un morto vivente che sa ancora colpire. Luoghi di parlanti Per essere più
chiare: il nostro testo non dice nulla di sostantivo su quello che le donne sono
o dovrebbero essere. Né propone un compiuto disegno di riforma del mercato
del lavoro e del welfare, del part-time o dei congedi parentali in un'ottica conciliativa.
Contro ogni neutro universale (maschile e femminile), afferma piuttosto la singolarità
di ognuna, e scommette sulla possibilità di ognuna di parlare di sé,
del mondo (e del lavoro), sia tra sé e sé che insieme ad altre/i.
È una possibilità eternamente contesa, e difficile da praticare,
ma è il sale della vita. È una realtà che già affiora
in quel mondo ricco e difficile da catalogare che è la rete. Quando diciamo
che ci vogliono, e ci sono, «luoghi di parlanti» parliamo di questa
possibilità, non di altro: creare luoghi in cui le donne possano conoscersi
e riconoscersi, scambiare valutazioni, dare parole alle difficoltà, mettere
sul piatto i propri bisogni, lasciar affiorare i desideri, attirare anche gli
uomini al confronto. Per incominciare a delineare la mappa dei desideri di
cui parla Rossanda, perché è vero che «neanche il desiderio
è così semplice». Creare realtà di donne e uomini che
si parlano, che trovano se stesse/i insieme ad altre e altri. Che per questa via
diventano singolarmente soggetti politici. O ci crediamo che le donne hanno questa
forza, o non ci crediamo. Vogliamo ripartire da qui? |