24-10-08
Grande Seminario Diotima
Ordine
di servizio di
Giannina Longobardi Il
mio contributo al Grande Seminario di Diotima deve molto alla discussione con
amiche, insegnanti soprattutto della scuola superiore, con le quali abbiamo ragionato
a partire da un sentimento di disagio personale, che è andato progressivamente
crescendo nella scuola dell'autonomia. Il titolo Ordine di servizio allude
alla qualità della relazione tra dirigente e docenti, ma mi dicono e che
ordini di servizio siano oggi molto in voga anche in altri comparti della pubblica
amministrazione - ad esempio nelle ASL. Ordine di servizio è un rafforzativo
che viene apposto alle circolari e significa: se l'ordine verrà disatteso
ci sarà sanzione. Il dirigente, consapevole della scarsa autorità
della sua parola, sente il bisogno di invocare il potere disciplinare. Immagina
che alcuni/e riottose potrebbero voler fare a loro discrezione. Ordine di servizio
significa: ve lo impongo e non si discute. Il discorso avrà come oggetto
la scuola superiore e, in questa, la relazione che le insegnanti instaurano con
il potere in mancanza di un senso politico condiviso che orienti il fare scuola.
E' un discorso a metà perché esamina la situazione solo dal
lato delle docenti e non prende in considerazione gli effetti del potere esercitato
sugli studenti. Ma è l'amore per gli studenti, per le ragazze e i ragazzi,
che ha orientato il mio sguardo. Il
contesto: i governi nazionali non investono più sulla scuola e inventano
l'autonomia scolastica. Siamo in un tempo in cui la scuola non ha più
l'importanza strategica che ha avuto nel secolo scorso nella formazione dei cittadini
dello Stato nazionale. Ci sono mezzi di socializzazione, i media, più potenti
di quanto la scuola abbia mai potuto essere. La Tv offre formazione permanente
a grandi e piccini e l'istruzione deve entrare nel mercato: deve essere merce
che si paga. Gli stati nazionali sono stati invitati dalle autorità
monetarie che reggono il mondo a risparmiare sulla scuola. E gli stati nazionali,
qualunque sia la coalizione che li regge, hanno accettato le direttive. E' successo
in Europa, ma anche nei paesi del Sud del mondo che sono stati obbligati dalla
Banca Mondiale a investire in infrastrutture, autostrade ed aeroporti per merci
e a chiudere le scuole. Anche quando, come in questo momento, il liberismo
è in grave crisi e si riprendono politiche di intervento statale - e di
deficit - quelli che consideriamo beni comuni, continuano ad essere messi in vendita
e i soldi dei cittadini servono a salvare i finanzieri e manager. La ristrutturazione
del sistema scolastico italiano, come è già accaduto negli altri
paesi europei, ha preso il nome di autonomia scolastica. Disarticola il sistema
scolastico nazionale avviando il processo di aziendalizzazione dell'istruzione.
Per il momento il modellamento delle scuole secondo criteri aziendali è
appena agli inizi.. L'attuale governo intende accelerarne il processo: il prossimo
passo sarà la trasformazione delle scuole in fondazioni e si pensa di arrivare,
un po' alla volta, alla privatizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti.
Non sono trasformazioni indolori e ci sarà resistenza. Per questo i tagli
finanziari all'istruzione sono accompagnati da una vasta opera di discredito degli
insegnanti come in genere dei pubblici impiegati. Si riduce il personale - e i
servizi- ottenendo maggiore consenso se si convince l'opinione pubblica che questo
personale che pesa sulle casse dello Stato è superfluo e fannullone.
L'anno scolastico, primo collegio docenti, si è aperto in molte scuole
minacciosamente con la lettura delle circolari che prevedono disposizioni persecutorie
in caso di assenza di malattia.
Nel 2002, agli albori dell'autonomia in Italia, Norberto Bottani profondo conoscitore
del sistema scolastico dei paesi d'Europa e degli Stati Uniti, dichiarava, in
un libro ironicamente intitolato Insegnanti al timone?: con grande stupore sull'autonomia
in Italia ho riscontrato grande entusiasmo e pochi dubbi. Sull'autonomia nel nostro
paese, a suo parere, si è realizzata una convergenza di tutte le forze
politiche perché è una riforma alla cieca le cui ragioni effettive
non sono state esplicitate, né avrebbero potuto esserlo pena la perdita
di consenso. In effetti l'autonomia è stata sostenuta con diverse intonazioni
ideologiche dai governi di ogni parte: venne avviata da Berlinguer e non fu toccata
da Moratti che congelò le altre riforme del suo predecessore. Lo studio
di Bottani sulle forme e gli esiti dell'autonomia nel sistema istruzione in Europa
si conclude con un capitolo intitolato Uno specchio per le allodole? Ed elenca
gli effetti negativi che si sono riscontrati nei paesi che hanno progressivamente
smantellato il sistema scolastico nazionale: il ritorno della segregazione scolastica,
l'accentuazione delle disuguaglianze di fronte all'istruzione, l'accaparramento
della scuola da parte dei notabili locali, la diminuzione delle innovazioni e
delle sperimentazioni, l'aumento delle disuguaglianze, il conformismo nei programmi,
la stagnazione dei risultati, la costituzione di un sistema stratificato di scuole
che si ripartiscono gli studenti forti e deboli, il carico di lavoro per preside
e docenti. Il disinvestimento da parte dello stato nazionale lascia libero
il campo ai poteri locali e agli interessi privati. Al momento la ristrutturazione
viene preparata attraverso un'operazione di controllo sul personale scolastico,
il cui lavoro deve assumere carattere impiegatizio. In questa fase, paradossalmente
dato che si tratta di "autonomia scolastica" questo avviene rendendo
la scuola direttamente dipendente dal governo, che ne sottrae il controllo al
vecchio apparato ministeriale centrale che ne aveva assicurato la continuità
nei decenni passando indenne attraverso i cambiamenti di coalizioni. Che
l'autonomia scolastica dovesse produrre questa forma di controllo politico e disciplinare
, in una struttura organizzativa di rigidità crescente, non lo avevamo
immaginato. La parola autonomia era piena di suggestioni, evocava forme di autogoverno
e una stagione di sperimentazioni.
La piramide gerarchica di controllo. Descriverò ora la struttura gerarchica
piramidale che regge la scuola azienda, nella quale gli organi tradizionali della
partecipazione deperiscono fino ad estinguersi, mentre la figura del dirigente
acquisisce una centralità simbolica cui -almeno per il momento - corrisponde
un potere piuttosto limitato per quanto riguarda il rapporto di lavoro del personale.
Già però si prepara dell'altro. La via dell'aziendalizzazione sulla
quale si sta marciando a tappe forzate ci fa intravedere un futuro diverso: saranno
le scuole stesse a fare assunzioni, a stipulare contratti di collaborazione, a
licenziare. Al momento la base della piramide, il personale, è ancora
una massa disarticolata scarsamente controllabile: il controllo invece si opera
a partire dal vertice cui la scuola azienda risponde. Secondo il disegno di riordino
della pubblica amministrazione cui si è dato vita con la cosiddetta Bassanini,
(governo Prodi 1997, legge delega di applicazione alla scuola del 1999 ): gli
ordini partono dallo staff del ministro, passano ai responsabili regionali la
cui nomina dipende direttamente dal governo, di lì arrivano ai dirigenti
scolastici. Per i responsabili scolastici regionali si era detto che non
dovesse valere automaticamente lo spoil system, cioè la decadenza automatica
nel momento in cui cambia il governo, che vige, dopo la Bassanini, negli altri
settori della pubblica amministrazione. Ma nel Veneto, in quattro anni, il responsabile
scolastico è stato cambiato cinque volte. E all'inizio dell'anno abbiamo
sentito la Gelmini: delle teste salteranno! Per quanto riguarda i dirigenti
scolastici la loro fedeltà viene assicurata attraverso la durata triennale
dell'incarico che può essere riconfermato o meno e attraverso una parte
variabile di stipendio che si riferisce alle dimensioni della scuola e a criteri
di valutazione ancora piuttosto indeterminati.. (Negli anni scorsi ci sono
stati casi di dirigenti sanzionati, soprattutto per motivi politici: non avevano
obbedito alle direttive del ministro di turno.) Alcune-alcuni che avevano
vissuto, in alcuni istituti superiori la fase delle sperimentazioni che aveva
preceduto il Brocca speravano che l'autonomia sarebbe stata questo: la possibilità
di aprire le classi, di compresenze, di laboratori, di sperimentazioni didattiche,
di apertura alla comunità. Invece le possibilità di innovazione
didattica, ad esempio la possibilità di adottare moduli e di rompere la
rigidità del sistema orario, rimangono in molti casi sulla carta, perché
la dimensione della scuola rende la cosa impraticabile. Farò un esempio.
Molte scuole superiori hanno -in coerenza con la riforma amministrativa- assunto
dimensioni davvero aziendali: più di centoquaranta insegnanti, più
di millecinquecento studenti, a volte da ruotare tra più sedi. In queste
condizioni già fare un orario è cosa assai complessa come pensare
di sconvolgerlo modulandolo poi durante l'anno? La scuola aziendalizzata si
è adoperata a conquistare clienti per aumentare le iscrizioni: questo apparentemente
conviene a tutti: più la scuola è grande maggiori sono i finanziamenti,
maggiore è lo stipendio del dirigente e minore è il rischio per
gli insegnanti di dover trasferirsi perché hanno perso la cattedra.
Le grandi dimensioni però inducono cambiamenti notevoli nello stile di
governo, sempre più anonimo e burocratico ed imperioso, mentre divengono
sempre più superficiali le relazioni tra colleghi che si incrociano frettolosamente
mentre debbono correre da una sede all'altra. Gli organi collegiali sono stati
ulteriormente svuotati di contenuto. Il Consiglio di Istituto è divenuto
il Consiglio di Amministrazione della scuola azienda che deve competere per conquistare
iscrizioni con gli altri istituti superiori. I consigli di Classe, nei quali si
decide della sorte degli studenti, ratificano i voti trasmessi dai docenti al
sistema computerizzato. Quando si apre una discussione, in tutti gli organi chiamati
democratici, il dirigente tende ad imporre l'unanimità. Deve dimostrare
che è un leader efficiente e che non c'è alcun conflitto, o teme
che non restino a verbale considerazioni che potrebbero servire da appiglio in
caso di ricorsi. Sulle insegnanti che resistono in un atteggiamento di dissenso
vengono esercitate minacciose pressioni: ricordo una collega che persisteva e
con la quale il dirigente sbottò così: in questa scuola noi due
siamo incompatibili, e siccome non posso andarmene io, deve farlo lei! Questa
è la mia esperienza. Mi avvertono però amiche che hanno presenti
altri ordini di scuola o situazioni diverse, che in alcuni casi è stato
possibile usare gli strumenti dell'autonomia, ad esempio il Piano scolastico formativo
d'istituto, per opporsi ai provvedimenti Moratti di demolizione del tempo pieno.
Probabilmente gran parte di ciò che viene annualmente prodotto come cartaceo
formale e vuoto potrebbe anche diventare strumento di lotta se ce ne fosse la
volontà politica. Che emerge in alcuni occasioni, quando un bene conquistato
viene messo in pericolo. Governi,
sindacati e insegnanti donne Il modello aziendalistico e produttivistico è
stato calato su un ambiente di relazioni umane che si è sempre più
femminilizzato con l'intento di controllarlo meglio e di regolamentare l'anomalia
della soggettività. Ad un corpo insegnante femminile che predilige
la relazione personale e valorizza la soggettività e le differenze si è
cercato negli anni di imporre modalità standardizzate, valide per tutti
e per chiunque di insegnamento e di valutazione. Il tentativo è stato
vanificato dalle insegnanti o in modo aperto o nei fatti, attraverso comportamenti
che tendono ad eludere ogni forma di controllo effettivo. In molti casi dando
vita ad un regime di finzione per cui ciò che si fa non si dice e si dice
ciò che non si fa. La produzione di cartacei che ritma l'anno scolastico
è molto facilitata dalla memoria del computer. Ogni anno si ristampano
con piccole modifiche le programmazioni e le relazioni finali Una scuola di
donne è, da anni, pensata da uomini, ministri, esperti, pedagogisti, sindacalisti
che ritengono che l'organizzazione, la standardizzazione, l'incentivazione potranno
migliorare i risultati del sistema. Pensano di rimotivare gli insegnanti attraverso
l'introduzione di criteri meritocratici e la differenziazione delle carriere all'interno
del corpo docente. Ci sta pensando la Gelmini, ma è un'idea fissa: ci aveva
già provato Berlinguer, e aveva perso il ministero: lo sciopero contro
il Concorsone, lo aveva costretto a cedere il posto a De Mauro. Si pensa che
differenziare gli stipendi sia rimotivante. Nelle aziende infatti pare che l'incentivazione
abbia successo. Quel po' di incentivazione che è stata introdotta nella
scuola azienda ha prodotto invece strani effetti. Il governo della scuola e la
macchina dei progetti che servono a dare lustro al POF (piano dell'offerta formativa)
è stato assunto da un gruppo, più di uomini che di donne, tra il
disinteresse generale di quelle e quelli che preferiscono la relazione con la
classe e dedicano le loro energie all'insegnamento. L'incentivazione ha avuto
però delle conseguenze: chi non si è messo in corsa per avere i
fondi si è trovato chiuso nelle proprie classi, impossibilitato, per mancanza
di soldi, a fare quello che anni prima aveva fatto gratuitamente: gruppi di studio,
un cineforum, un'uscita a teatro, ad una mostra. Tutto ciò che esula dall'attività
ordinaria oggi deve essere programmato da settembre e remunerato se va oltre l'orario
normale. Alcuni piaceri che ci prendevamo gratis con le nostre alunne sono diventati
impossibili. L'incentivazione si è di fatto accompagnata ad un irrigidimento
della struttura: lei non può fare questo perché io non posso pagarla
e non è nella programmazione. Una appassionata collega di storia dell'arte
dava quindi alle studenti delle sue classi un appuntamento privato per il sabato:
vado a vedere la Biennale chi vuole venire sia in stazione alle 8. Quanto
alla possibile meritocrazia:finora le insegnanti hanno rifiutato di sottoporsi
ad una valutazione mirata ad introdurre differenziazioni tra chi svolge lo stesso
compito. Ogni forma di valutazione proposta è apparsa inoltre come inaffidabile.
Penso che questa esigenza di equità abbia a che fare con il rifiuto femminile
della competitività, che viene sentita pericolosa per la relazione e per
la serenità del clima di collaborazione. Si tratta di una forma di difesa
dall'invidia. Questa scelta appare però alla mentalità maschile
- che prevale nei governi e nei sindacati -al di là del sesso delle ministre-
come una forma di appiattimento verso il basso che penalizza la categoria.
Da sinistra, con l'appoggio dei sindacati, e poi da destra, i governi hanno pensato
alle insegnanti come a lavoratrici a tempo parziale che si accontentano di un
basso salario perché è salario aggiuntivo ad altro reddito familiare
e che trovano il mestiere comodo per poter fare fronte a doppia presenza. Questa
convinzione stereotipica non è stata scalfita neppure quando calava la
natalità, molte insegnanti erano single o senza figli. Ancora capita di
sentire qualche uomo - recentemente anche il ministro Brunetta - affermare che
la scuola migliorerebbe se le donne venissero obbligate a passare più ore
a scuola, a correggere e a preparare lì le lezioni. Il fatto è,
come è risultato nei dibattiti dell'autoriforma, che per le donne il bisogno
di soldi per vivere e il valore del lavoro non sono coincidenti. E' giusto essere
pagati, meglio più che meno, per il proprio lavoro, ma questo lavoro ha
una qualità così personale, così soggettiva, è anche
-quando tutto va come dovrebbe andare - così pieno di senso di per sé,
che in qualche modo si può dire che non ha misura. O meglio che la misura
di ciò che serve per vivere dignitosamente non è commensurabile
con il valore del lavoro. La provenienza delle donne dal mondo della cura,
mondo di relazioni personali e di scambi non monetari, segna la loro inadeguatezza
al mondo capitalistico del valore astratto del lavoro. E' una forma di resistenza
al mondo del mercato che cancella il carattere qualitativo personale del proprio
operare. Non credo affatto che questa posizione precapitalistica rappresenti
un disvalore e sia una posizione da abbandonare per adeguarsi alla logica competitiva
del mercato. Anche se è evidente che le donne ne risultano penalizzate
al confronto con gli uomini. ( Per meglio comprendere la logica del comportamento
femminile nei luoghi di lavoro mi è stata molto utile la lettura del libro
Il doppio sì del gruppo lavoro della Libreria delle donne e quella del
testo, da loro citato di Linda Babcock Sara Laschever Le donne non chiedono molto
interessante nella descrizione fenomenologia, anche se non condivido la posizione
delle autrici che sembrano auspicare che le donne adottino gli stili competitivi
maschili). Pur considerando quindi positivo il rifiuto della meritocrazia,
penso rimanga però un problema su cui tornerò più avanti:
quello dell'inevasa questione di una accettabile forma di valutazione del proprio
lavoro, senza la quale insegnanti e scuola sono destinati a perdere sempre più
di autorità.
Un conflitto muto che porta alla paralisi. Sintetizzando mi pare di poter
dire che la posizione delle insegnanti delle scuole superiori - di fronte alla
ristrutturazione del sistema scolastico che al momento ha preso una veste amministrativa
e gestionale - sia stata quella di una forma di resistenza conservatrice. Nella
difesa della propria libertà di insegnamento all'interno delle mura delle
proprie classi. La perdita però di momenti pubblici di discussione
che permettano una definizione plurale, anche conflittuale, del senso stesso dell'insegnare
ci ha lasciate sole ed indebolite. In mancanza di un conflitto aperto con la struttura
irrigidita e burocratica, la prassi collettiva dell'arrangiarsi, del fingere,
ci ha lasciato senza autorità di fronte a noi stesse prima che di fronte
agli studenti e all'opinione pubblica. E' la struttura stessa che isola ed
impedisce la creazione di relazioni dalle quali possa nascere un senso collettivo
del lavoro. L' isolamento, l'organizzazione ancora fordista a catena di montaggio
della produzione scolastica segmentata, costituisce la forma di controllo sugli
insegnanti e sugli studenti. Allo scrutinio il prodotto complessivo compare tradotto
in numeri, a volte sorprendente. Questa solitudine, il fatto di non lavorare
veramente insieme, ma di lavorare solo in una successione temporale: io entro,
lei esce.. intacca il senso del lavoro e ci rende deboli di fronte alle difficoltà
con una classe o nel conflitto con il dirigente. Ed è su questo che
mi voglio ora soffermare perché questa relazione ha preso spunto proprio
da una riflessione sulla relazione che si instaura nella scuola azienda con colui-colei
cui è stata data la qualifica di manager. Nel deserto di politica degli
ultimi anni, anni in cui gli insegnanti si sono mutati in risorse umane, la figura
del dirigente, la sua peculiare personalità, hanno assunto un peso importante
nel determinare il clima delle relazioni scolastiche. Così è successo,
a volte, che sotto i nostri occhi un preside inoffensivo si trasformasse in un
dirigente paranoide. Non tutte hanno dovuto confrontarsi con una simile metamorfosi.
I manager sono diversi tra di loro. Ci sono i paranoici, ma anche i partecipativi,
quelli autorevoli e non autoritari. A questo punto per aiutarci a capire di
più quello che viviamo è forse bene aggiornarsi e farsi aiutare
dagli studi sull'azienda . Ho dato un'occhiata a un testo classico quello di Kets
de Vries L'organizzazione irrazionale. La dimensione nascosta dei comportamenti
organizzativi. (R.Cortina Editore) uno psicanalista che studia appunto la gestione
delle risorse umane nei suoi aspetti emozionali ed affettivi. Con questo
aiuto mi sono fatta l'idea che il dirigente cui penso abbia assunto questa caratteristica
paranoide - che si è diffusa poi nell'ambiente come un virus - perché
il corpo docente -le sue risorse umane- gli dimostravano disistima e di tenerlo
in poco conto. Le sedute del collegio docenti erano strazianti: un incubo umiliante
per noi e per lui. La scena per la mia sensibilità aveva aspetti pornografici.
Il dirigente in cattedra con microfono, seduto accanto lui, un verbalizzatore,
maschio possibilmente giovane,. Prime file, compiacenti, collaboratori e collaboratrici,
figure obbiettivo o strumentali, membri RSU - spesso le stesse persone cumulanti
diversi ruoli. Nelle file dietro un centinaio di risorse umane, donne per lo più,
fanno cose utili: leggono libri, se li scambiano, correggono compiti o preparano
prove per il giorno dopo. Nessuno nasconde la sua occupazione. Il dirigente parla
per
quattro ore di seguito. Prima di tutto esterna: prediche, minacce, richiami, luoghi
comuni sugli studenti, esposizioni di circolari ministeriali, una serie di questioni
logistiche. Se c'è qualche questione interessante su cui il Collegio ha
potere di decidere viene messa ai voti alla fine, in modo che non ci sia discussione.
Il voto, per alzata di mano, si desidera sia unanime, chi non è d'accordo
viene redarguito. Cento persone manifestano la loro opposizione con una presenza
assente che scoraggia chiunque dal prendere la parola e dal mettersi a discutere
con il dirigente. Scena pornografica con posizioni complementari: esibizione
di volontà di potere, accompagnata da manifesta impotenza, e desiderio
di rispondere all'umiliazione propria umiliando l'insieme delle docenti- in grande
maggioranza donne, che finiscono per ridursi allo stato di alunne riottose e facinorose.
Uno spettacolo che manifesta perdita di dignità per tutti/e. Questa
opposizione sorda e muta si paga. Un orario di lavoro sfavorevole, un declassamento
(così insegnanti con una certa anzianità di servizio vivono l'assegnazione
improvvisa e immotivata da classi del triennio al biennio), la separazione da
un gruppo di colleghi con le quali si è raggiunta negli anni una buona
collaborazione e la sensazione assai spiacevole, mantenuta viva attraverso una
serie ripetuta di lettere personali raccomandate riservate di essere sotto tiro
e di poter essere trovati in fallo. Il potere, ancora piccolo, del dirigente
si espande per mancanza di reazione da parte degli, delle insegnanti che rifuggono
sia il dialogo che il conflitto. Il clima paranoico si diffonde: chi è
sotto tiro non lo dice, chi lo dice rischia di essere isolata, le docenti temono
di essere coinvolte in un conflitto personale, ciascuno si sente potenzialmente
sanzionabile.. C'è certamente un disagio maschile, quello del dirigente,
a dover governare un ambiente femminile del quale non condivide il sentimento
e lo stile. C'è d'altra parte un ostentato disinteresse della maggior parte
delle insegnanti per le questioni gestionali che coinvolgono poco l'insegnamento
e anche quando le ingiunzioni minacciose del dirigente sembrano intaccare la libertà
di insegnamento ( prescrizioni sulla valutazione, sul numero delle prove ) nessuno
ribatte, perché pensa che poi farà come sempre. Dove si pretende
che tutto sia trasparente, invece ci si arrangia per cercare di salvare il senso
del mestiere e i propri strumenti di lavoro costruiti artigianalmente attraverso
anni di esperienza. Dove non c'è espressione libera e plurale di dissenso
è possibile portare avanti una trattativa personale? Abbiamo preso atto
della nostra impossibilità a farlo: non siamo in grado di contrattare singolarmente
con un dirigente che ha del potere, ma non ha autorità su di noi perché
non lo stimiamo. Ci sono quelle che dicono bisogna saperlo prendere. Non confliggono
e lo sanno prendere. Ma non tutte desiderano prenderlo . Possiamo confliggere
per un voto ad uno scrutinio, ma non possiamo confliggere con lui per richiedere
il riconoscimento del valore del nostro lavoro, la nostra bravura, quando questo
riconoscimento viene negato apertamente o in modo sottinteso. Questo accade in
una situazione in cui il dirigente ha un potere è limitatissimo: siamo
ancora difese da un contratto di lavoro di pubblico impiego, praticamente illicenziabili,
con ampi margini di libertà d'autonomia garantiti dal principio costituzionale
della libertà di insegnamento. La difficoltà a chiedere riconoscimento
- che Luisa Muraro ha posto come questione che coinvolge la politica delle donne
nel suo articolo che apre l'ultimo numero di via Dogana - pare generalizzata tra
le donne secondo gli studi su donne e lavoro che vi ho citato prima. Le donne
si aspettano di essere riconosciute in modo spontaneo, se il riconoscimento non
arriva, se possono, cambiano azienda. Io credo che anche questo venga alle donne
dalla loro antica appartenenza ad un mondo di scambi personali affettivi, a quella
economia del dono in cui non si pretende equivalenza e dove la gratitudine e lo
scambio devono essere spontanei e non possono essere oggetto di rivendicazione.
Abbiamo anche fatto l'ipotesi che in questa difficoltà ad entrare in una
relazione personale con un uomo che ha potere, ma che non amiamo e non stimiamo,
ci sia un imbarazzo particolare legato alla differenza sessuale; con una dirigente
donna il conflitto e la trattativa avrebbero tonalità emotive differenti.
Quando è l'uomo in posizione di potere la relazione assume un carattere
ambiguo, è sentita carica di implicazioni pericolose. Forse c'è
un insegnamento antico delle madri a non chiedere agli uomini che non sono i propri
uomini. A non entrare con i maschi in relazione di scambio da una posizione di
inferiorità. Anche per il dirigente è imbarazzante avere da
governare una massa di donne di cui poco si fida e che poco capisce. Quello cui
penso non salutava, non guardava negli occhi chi gli sedeva davanti
Vengo
ad affrontare il problema inevaso della valutazione del proprio lavoro nelle scuole
superiori. La relazione necessariaLa competenza femminile nella scuola dell'infanzia
ed elementare è apertamente riconosciuta come dimostrano le manifestazioni
di questi mesi. I genitori hanno capito che questa scuola è un bene che
non gli deve venire tolto. Forti di questo appoggio maestre e dirigenti prendono
la parola, aprono e occupano le scuole, dimostrando di non farsi intimidire dalle
minacce repressive e dai ricatti. Nel 2001 il movimento di autoriforma organizzò
a Roma un convegno intitolato Le Maestre e il professore". Si suggeriva con
queste parole un rovesciamento simbolico in quella che normalmente viene pensata
come la piramide gerarchica delle competenze, invitando gli insegnanti dei gradi
cosiddetti più alti ad imparare dalle maestre. Così il bel film
L'amore che non scordo, alla cui realizzazione hanno partecipato anche Vita Cosentino
e Cristina Mecenero, mette sotto gli occhi di tutti la libertà e l'amore
con cui le maestre gestiscono la relazione con i bambini.. Impossibile dimenticare
quei bambini che scrivono i loro pensieri stesi per terra sotto i banchi, una
scena così diversa da quella del clima disciplinare che Chiara Zamboni,
riferendosi a Foucault, ci ha ricordato e al quale si vorrebbe ritornare con voti
di condotta e grembiulini. Questo film oggi mi pare sia diventato quasi il manifesto
della scuola elementare che vogliamo non ci venga tolta. Credo che l'eccellenza
della scuola elementare sia stata prodotta proprio da ciò che viene oggi
minacciato: il tempo pieno e l'insegnamento costruito in forma relazionale tra
colleghe. E' questo modo di lavorare che ha permesso la crescita del sapere delle
insegnanti e la conquista dell'autorità delle maestre nei confronti dei
genitori. Penso che quando venne introdotta nelle elementari la pluralità
di figure docenti al posto della maestra unica, per le maestre sia stato faticoso
condividere la classe con altre e venire a patti con persone con cui non si era
scelto di lavorare. La pazienza, l'umiltà, la capacità di trovare
mediazioni hanno prodotto buoni risultati. Le maestre si sono trovate a confrontarsi
con quella che chiamerei la relazione necessaria, per distinguerla dalle relazioni
per affinità che sono quelle che spontaneamente preferiamo e che ci danno
conforto. La relazione necessaria, non scelta, ci costringe a modificarci, ad
accettare una misura, ad apprendere dalle altre e anche a impegnarci a migliorarle..
Ci costringe ad una mediazione e fa maturare una maggiore consapevolezza di sé
e degli strumenti del mestiere. Lavorare insieme produce anche quella che penso
sia l'unica vera forma di valutazione: valutazione dei risultati, valutazione
dell'efficacia del proprio lavoro, all'interno di un processo continuo, collettivo
e in confronto con le famiglie. Che alcune maestre siano capaci di lavorare sotto
gli occhi di colleghe che le osservano e le giudicano viene raccontato da Cristina
Mecenero nel suo libro Voci Maestre e si può vedere anche nel film la naturalezza
con cui maestre e bambini si muovono sotto l'occhio pubblico della telecamera.Nella
scuola superiore invece il problema dell'autovalutazione del proprio lavoro è
rimasto inevaso. Così nonostante la maggior parte delle insegnanti faccia
il proprio mestiere con passione e dedizione, (solo un quarto degli insegnanti
delle superiori -e sono più uomini che donne, e più giovani che
vecchi, dice di insegnare senza piacere e senza impegno) nonostante questo la
scuola superiore non ha autorità. E non è difendibile così
com'è, né per ragioni di parte - nel gioco dell' opposizione al
governo -né per motivi sindacali e corporativi. Non solo non ha autorità
sociale, ma non ne ha neppure tra le insegnanti stesse. La disistima nei confronti
delle colleghe è diffusa, ma accompagnata da rassegnazione. Nessuno si
ritiene responsabile dei risultati complessivi degli studenti. Di fronte ai cattivi
risultati d'apprendimento in molte materie ci si continua a lamentare degli studenti
che non studiano, non sanno concentrarsi, hanno conoscenze di base scarse, ma
raramente ci si interroga sul modo in cui il fare scuola è strutturato.
Gli insegnanti come gli studenti subiscono la scuola. La chiave del cambiamento
non è stata messa nelle loro mani . E' logico quindi che non si ritengano
responsabili di un risultato apparentemente casuale, che certo non migliorerà
anche se alcuni avranno stipendi migliori e assumeranno funzioni di controllo
su altre. D'altra parte il godimento che viene da una relazione personale viva
con le allieve, dal piacere di trasmettere una materia che amiamo, ci salva solo
parzialmente dalla frustrazione e dalla fatica prodotta dal sistema complessivo.
Tuttavia, nonostante la debolezza politica che ho dipinto, si può dire
che in qualche modo per la componente femminile la scuola si regge ancora: la
passione e l'impegno delle insegnanti resistono, nonostante la fatica, e la maggior
parte delle ragazze dimostra di trovare ancora nella scuola il senso di guadagnare
qualche cosa di importante per sé. La questione della scuola oggi si pone
all'interno della differenza e del conflitto uomo-donna. Come ho già mostrato
sopra gli uomini pensano alla scuola come ad una macchina organizzativa, le donne
come ad un luogo relazionale. Su questo è necessario aprire un confronto
politico con gli uomini, tenendo anche conto del fatto che il più grave
problema della scuola oggi, in tutto il mondo occidentale, riguarda l'educazione
dei maschi. In Italia, i ragazzi, man mano che crescono, la scuola non la sopportano
più ed esprimono, a volte in modo clamoroso, la loro insofferenza. Il fatto
che non trovino insegnanti maschi capaci di porsi come riferimenti significativi
può spiegare, almeno in parte, questo disgusto, perchè in Italia,
ben più che in altri paesi europei, accade che gli uomini amino poco l'insegnamento
e la scuola preferiscono dirigerla o assumere compiti organizzativi, impegnandosi
in attività sussidiarie. Nella fine del patriarcato dobbiamo fare i conti
con una evidente difficoltà maschile ad assumere autorità simbolica
nei confronti del proprio genere. Per quanto riguarda noi, le donne insegnanti:
da dove ripartire? Ricreando nelle scuole spazi e tempi condivisi tra colleghe
e colleghi, anche al di fuori dei luoghi istituzionali della decisione. Si potrebbe
accogliere il suggerimento che viene dal Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne
e creare gruppi di parola anche nella scuola. Sarebbe il modo di far emergere
pubblicamente quello che ostacola, che affatica, che frustra, che genera sofferenza,
condividendolo, invece che tenerlo nascosto quasi fosse una debolezza personale,
un esaurimento delle forze proprie. Il senso di appagamento nel lavoro dipende
dalla sua qualità, dalla sua efficacia: pensare in quali condizioni l'insegnamento
diviene cosa ben fatta, permetterebbe di dar vita ad una scuola sensata. Ma, imparando
da Luisa Muraro che ha aperto il Grande Seminario di quest'anno rinviandoci alla
Lettera ai Romani di Paolo, si può dire che l'unica cosa che dobbiamo fare
è autorizzare l'amore. Nella scuola superiore questa autorizzazione non
circola affatto. L'amore per ragazze e ragazzi è clandestino, non previsto,
inconfessato, guardato con sospetto. Finito l'obbligo l'amore non ha legittimità,
deve prevalere la tecnica: il sentimento e la preoccupazione sono debolezze femminee.
Non sono vostri figli, non fate le chiocce, non fate le mamme, ci dicono. Possiamo
rispondere che sì, sono nostri figli.
Bibliografia L'amore
che non scordo Storie di comuni maestre Film di Daniela Ughetta e Manuela Vgorita
Libreria delle Donne di Milano Norberto
Bottani Insegnanti al timone? Fatti e parole dell'autonomia scolastica Il Mulino
2002 Libreria
delle Donne Il doppio sì- lavoro e maternità Quaderni di via dogana
2008 Linda
Babcock Sara Laschever Le donne non chiedono Il sole 24 ore 2004 Manfred
F.R. Kets de Vries L'organizzazione irrazionale Raffaello cortina 2001 Vittorio
Lodolo D'Oria Scuola di Follia Armando ed 2005
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