SOTTOSOPRA
Gennaio 1983
PIÙ
DONNE CHE UOMINI
non
si tratta più di discriminazione - voglia
di vincere - estraneità -solitudine
dell'emancipata - sessualizzare i rapporti
sociali - la lotta per l'agio - contro
il separatismo statico - un mondo comune delle donne
- creare un precedente di forza
-
alla luce di un desiderio vivo
CONDIZIONI
DI LAVORO: IL MONDO COMUNE DELLE DONNE di Adrienne
Rich È
DIFFICILE RACCONTARE LO SCACCO di Evelyn
Fox Keller "VEDI
CHE VUOI VINCERE"
del gruppo 4 Un
gruppo di donne, tra loro in rapporto politico e affettivo, constata i guadagni
ottenuti con il movimento di lotta di questi anni e da lì misura quello
che manca. Abbiamo combattuto efficacemente contro la miseria sociale della condizione
femminile. Abbiamo scoperto l'originalità del fatto di essere donne. La
pratica politica dei rapporti tra donne, il frequentarci, l'amarci, ci ha dato
valore. Ma adesso ci manca il modo di tradurre in realtà sociale l'esperienza,
il sapere e il valore di essere donne. Nei rapporti sociali siamo in difficoltà,
come in un mondo dove il meglio di noi non si sa, non ha corso. Oggi questa cosa
ci pesa più che in passato, quando eravamo incerte circa quello che poteva
essere un nostro desiderio, una nostra volontà. Capita di sperimentare
questa inadeguatezza anche quando si è tra donne, nei nostri gruppi: forse
perché il disagio e lo scacco che conosciamo nel mondo si sono associati
ad ogni desiderio, ad ogni voglia di agire. I nostri più forti e profondi
desideri, per non restare muti, rischiano di diventare fonte di fantasie paralizzanti.
Tuttavia tra donne c'è almeno la possibilità d'interrogare questa
esperienza e soprattutto di tenerla in conto perché non si perda niente
di quello che una può sapere e volere. Invece nei rapporti sociali - dove
ci troviamo chi per guadagnarsi da vivere, chi per soddisfare in più delle
proprie ambizioni, chi semplicemente perché non si può evitare -
il nostro disagio resta totalmente muto. Lì il fatto di essere donne torna
ad essere senza senso, una particolarità che ci imbarazza, di cui giustificarsi
o da dimenticare e far dimenticare. Questa cosa consuma una parte, più
o meno grande, della nostra intelligenza e del nostro piacere. Questa cosa, inoltre,
impoverisce per contraccolpo il progetto di lotta delle donne. Ai nostri rapporti,
ai nostri gruppi, manca di riflesso la grandezza delle cose che nel mondo dovremmo
vivere da signore - trattandosi della nostra esistenza sociale, sul lavoro come
in qualsiasi. altra occasione - e che invece pratichiamo con l'insicurezza degli
apprendisti e degli imitatori. Torna su non
si tratta più di discriminazione Della
nostra condizione oggi ci interessa dire e interrogare il nostro scacco nelle
prestazioni della vita sociale. Lo scacco risalta su un'esperienza diffusa di
disagio, inadeguatezza, mediocrità. Può non essere niente di clamoroso,
anzi in genere non si presenta affatto come un fallimento clamoroso, ma piuttosto
come un impedimento, un blocco delle proprie capacità, fonte di ansia e
di ripiegamenti. Rispetto a questa esperienza il passo avanti è di riconoscere
apertamente che facciamo fatica, che i risultati sono generalmente mediocri e
che siamo per lo più inadeguate alle prestazioni richieste nei commerci
sociali. Al centro mettiamo il momento dello scacco perché questo rivela,
come il disagio diffuso ma in maniera più cocente, che vogliamo farcela,
riuscire, e che però qualcosa dentro di noi fa ostacolo dice di no. Non
si tratta di qualcosa che ci impedisce dall'esterno. Pensarci e presentarci come
vittime di discriminazione antifemminile non significa più l'essenziale
della nostra condizione. Rischia ormai di essere una copertura. Si sa che, specialmente
quando le condizioni materiali sono più dure, la discriminazione c'è
o può ripresentarsi. Ma si tratta di una difficoltà ben riconoscibile,
che sappiamo come combattere e che non riesce ad inferiorizzare una donna ne a
farla sentire inadeguata. Per contro, l'esperienza della propria inadeguatezza
contribuisce non poco a rafforzare i residui o i ritorni di discriminazione. L'inadeguatezza
va dunque messa in chiaro ed interrogata per conto suo, come un ostacolo più
profondo di quelli escogitati da un ordinamento sociale ingiusto. Perciò
parleremo della parte di fallimento delle nostre prestazioni sociali senza giustificarla
con la discriminazione. Non metteremo lo scacco in rapporto con quello che
altri vogliono contro di noi, ma con quello che noi vogliamo. Il discorso della
discriminazione tace una parte della nostra effettiva esperienza, e cioè
che la nostra difficoltà non viene solo (non viene essenzialmente) dall'impedimento
esterno bensì da una nostra voglia di affermazione sociale che scontra
la sua stessa enormità: enorme, abnorme, non perché sia in sé
più grande del dovuto ma semplicemente perchè non trova modo di
soddisfarsi. Torna su
voglia
di vincere
C'è
dentro di noi una voglia di stare al mondo da signore, in grande, di avere
con le cose una sicura familiarità, di trovare di volta in volta
i gesti, le parole, i comportamenti conformi al nostro sentimento interno
e rispondenti alla situazione, di andare fino in fondo nei pensieri, nei
desideri, nei progetti. La chiameremo voglia di vincere. Vincere nel mondo
su tutto ciò che ci rende insicure, instabili, dipendenti, imitatrici.
E però non tradire niente di quello che siamo, neanche quello che
per ora parla solo in maniera fallimentare. Per cominciare, vincere sulla
paura della propria voglia di vincere. Quest'ultima si presenta, quando
si presenta, come qualcosa di abnorme, quasi senza oggetto e senza rapporto
con gli strumenti a nostra disposizione. Nell'esperienza dello scacco
la riconosciamo come qualcosa di fallimentare ma, nello stesso tempo,
di insopprimibile. Possiamo parlare del nostro scacco e tentare di capire
quello che vuol dire, fino in fondo, perché in questi anni di lotta
politica abbiamo spostato l'accento sui nostri desideri. Il movimento
delle donne ha fatto rinascere la baldanza perduta con l'infanzia. In
esso troviamo un punto di riferimento per diventare quello che siamo e
volere quello che vogliamo. Abbiamo dentro di noi una voglia di vincere
che ci paralizza invece di portarci avanti perché non trova riscontro
nelle possibilità offerte da questa società, a prescindere
da ogni forma di discriminazione. La società dovrà forse
cambiare a causa di questo.
Torna su
estraneità
Lo
scacco che sperimentiamo nel tentativo di avere esistenza sociale rivela, insieme
alla persistente voglia di vincere, una resistenza o una estraneità: qualcosa
di noi resiste ad entrare nei giochi sociali, non ci vuole stare, non ci sta.
Che cosa sia questo qualcosa che dice di no e fa ostacolo, non si può nominare
perché non ha nome. In questo consiste appunto l'estraneità, che
qualcosa di noi non trova modo di esprimersi e di realizzarsi, ma c'è e
s'intromette tanto più fortemente quanto più preme la voglia di
vincere. E' il suo modo di farsi sentire, presenza muta che intralcia, provoca
fantasie paralizzanti, toglie la parola. Le cose che di fatto siamo, nella parte
sociale che ci troviamo a vivere, madri, casalinghe, lavoratrici extradomestiche,
politiche, marginali, possono ispirare delle critiche circa questa società;
ma nessuna critica è tanto radicale come quell'obiezione di qualcosa che
non vuole o non può stare a quello che la società offre come possibilità
di esistenza. Gli ingredienti dello scacco sono questi: voglia di vincere ed estraneità.
Ma non ne sono la ragione. Nello scacco come nel disagio diffuso si avverte che
la cosa che fa ostacolo, che non c'entra con i giochi sociali, è in definitiva
il fatto di essere e avere un corpo di donna. Volendo nominare in che cosa consista
l'estraneità, questa è l'unica cosa che si può dire, l'essere
e avere un corpo di donna, in sé una cosa tra le più comuni, almeno
quanto l'essere e avere un corpo di uomo. Eppure non è così, non
è mai stato così. Certo, oggigiorno si pongono sempre meno ostacoli
alla donna che voglia realizzarsi nella vita sociale, e l'occhio va anche abituandosi
a vedere donne al posto di uomini. Ma intanto dentro, dove l'occhio non arriva,
si svolge tutto un lavorio per far stare il proprio corpo, un corpo di donna,
m un posto dove quello che ha la parola è un essere corpo di uomo. Il lavorio
dentro non è mai finito perché dentro qualcosa non si abitua mai;
ogni tanto però s'interrompe per un rifiuto quasi fisico di tanta fatica.
Lo scacco si produce perché l'essere donna, con la sua esperienza e i suoi
desideri, non ha luogo in questa società, modellata dal desiderio maschile
e dall'essere corpo di uomo. Solo così si spiega che la voglia di vincere,
quando non si fa intimidire, diventa inevitabilmente aspirazione virile. Per questa
via - più che attraverso la discriminazione - abbiamo capito quanto la
società sia improntata dalla prevalenza del maschile; l'impronta è
chiara in noi stesse, nel desiderio di esistere, agire, contare, che di fatto
prende la forma di un desiderio di virilità - l'unica forma del desiderio
vincente, si direbbe. Ma una donna ci perde il corpo. Quando una donna entra
nel sociale, anche nelle maniere più semplici come prendere la parola in
un'assemblea di quartiere, c'è sempre uno sforzo in più da
fare, per esprimersi secondo modalità non rispondenti né alle proprie
emozioni né al proprio pensiero, per cui avviene che il suo sentimento
come il suo pensiero ne siano più o meno deformati. Ogni volta c'è
un intervallo da colmare, come per mettersi all'altezza. Può nascere
così una fantasia di perfezione che paralizza perché non prevede,
non ammette, che si possa sbagliare. Il senso di una propria estraneità
è dato anche da questo: non si frequenta tranquillamente un mondo dove
è inevitabile sbagliare ma non se ne ha il diritto per se. Una può
dire: ma io ci riesco, ce la faccio. Può darsi. Ci sono certamente donne
che, in determinate circostanze, riescono ad affermarsi alla pari con uomini e
anche al di sopra. Ma a costo di una mutilazione che spesso si nasconde come sofferenza
personale e che comunque finisce per manifestarsi come isolamento dalle proprie
simili, incapacità di capirle e, sotto sotto, disprezzo per il proprio
sesso. Questo rinnegamento della parte perdente, dentro e fuori di sé,
fa sì che tra le poche donne affermate socialmente molte siano in sostanza
delle conservatrici o delle reazionarie. Capita senza dubbio anche a certi
uomini di sentirsi inadeguati rispetto al modello virile e alle prestazioni sociali
che gli corrispondono. Ma ad un uomo resta pur sempre il suo corpo, il suo essere/avere
un corpo di un uomo come cosa da dimostrare ai suoi simili e da far valere, se
occorre a lato o contro i loro modelli e le loro regole. L'esperienza dell'inadeguatezza
in un uomo può essere e di fatto è spesso un'occasione per rilanciare
il gioco sessualsociale e rinnovare, ad esempio, i termini della dialettica tra
sessualità alla lettera e sessualità sublimata (o spostata) in cose
come carriera, arte, soldi, politica, ecc. La sessualità di una donna,
alla lettera, non c'entra in tutto questo. La sua dimostrazione di virilità
nella vita sociale non ha corpo e perciò non ha gioco, tant'è che
risulta spesso rigida, imitativa o conformista. La fantasia di perfezione che
paralizza o rende insicure molte donne viene da questo non poter mettere il proprio
corpo nelle cose che fanno - chi ci mette il corpo, si dà il diritto di
sbagliare come di trasgredire, glielo dà il corpo che non si riduce mai
alle norme. Viene cioè da un modello asessuato che si interpone tra il
corpo e la parola. In questa società il profondo sentimento come l'intelligenza
fedele alle emozioni e ai desideri di una donna non hanno libero corso. In un
modo o nell'altro risultano deformati oppure tacitati. Noi di solito facciamo
della nostra estraneità il correttivo della voglia di vincere, e della
voglia di vincere il correttivo dell'estraneità. E ci dividiamo in questa
alternanza, tra quelle che sostengono (o esibiscono) la propria estraneità
e le altre, quelle che sostengono (o esibiscono) di essere felicemente inserite
nel sociale. L'esperienza dello scacco è una voglia di vincere + una
estraneità che si scontrano selvaggiamente, senza moderarsi a vicenda.
Perciò il momento dello scacco può diventare un punto di vista sulla
società: è un punto di vista che non mutila, non rinnega, non attenua
niente di quello che una donna può essere e volere. solitudine
dell'emancipata L'esistenza
sociale si conquista in una gara sessuale di uomini. Quando viene meno la discriminazione
la donna può entrare in questa gara, che però resta una gara di
uomini. Lei si trova sola, anche se intorno ci sono altre donne, sola in mezzo
a questo affermarsi di uomini che è un amarsi di uomini attraverso carriere,
soldi, sapere, partiti, rivoluzione, ecc. L'emancipazione femminile equivale a
far entrare la donna in questa gara sessuale dove la cosa che si afferma è
la virilità. Nella logica dell'emancipazione bisogna per forza puntare
sulla bravura individuale - le donne potendo al massimo arrivare alla solidarietà
con le proprie simili in funzione difensiva. Insomma, l'emancipazione ci mette
nel gioco sociale con parole e desideri non nostri. E ci induce a minimizzare
l'inadeguatezza e lo scacco come qualcosa di vergognoso. Mentre lì c'è
un'obiezione e una forza di cambiamento - che di solito non si esercitano efficacemente
perché si logorano in sforzi di adattamento. Torna
su sessualizzare
i rapporti sociali L'entrata
massiccia delle donne nella vita sociale non modifica automaticamente questa situazione.
Automaticamente avviene che le donne tendano ad assimilarsi al modello maschile.
Ci vuole una riflessione e una pratica politica specifica per fare del nostro
disagio e della nostra inadeguatezza nei commerci sociali il principio di un sapere
e di un volere riguardanti la società. Arrivare a dire: la società
è fatta così, funziona in un certo modo, richiede un certo tipo
di prestazioni, io sono un pezzo della società ma non sono fatta così,
perciò la società cambi perché in essa si esprima anche quello
che sono io, e attraverso questa contraddizione capire quello che io voglio essere.
Bisogna sessualizzare i rapporti sociali. Se è vero che la realtà
sociale e culturale non è neutra, che in essa si esprime in forma spostata
la sessualità umana, allora la nostra ricerca di esistenza sociale non
può non scontrare il predominio dell'uomo sulla donna nella sostanza della
vita sociale e culturale. Sessualizzare i rapporti sociali vuoi dire toglierli
dalla loro apparente neutralità e mostrare che nei modi socialmente correnti
di rapportarsi ai propri simili una donna non si trovava integralmente né
con il proprio piacere né con le proprie capacità. In effetti le
motivazioni a coinvolgersi nel gioco sociale come pure le sue regole e i suoi
guadagni, sono tutti, direttamente o indirettamente, indirizzati alla mascolinità,
fatti per sollecitarla o gratificarla. E' difficile coinvolgersi in una situazione
in cui il proprio piacere è sempre in forse. In questo senso si può
capire che, anche potendo scegliere, molte donne preferiscano tenersi in disparte
dalla vita sociale e non seguire fino in fondo la via dell'emancipazione. E' una
difesa della propria integrità. Di questo atteggiamento occorre riprendere
il sapere (sapere che nei rapporti sociali prevale l'essere uomo) e la implicita
volontà (resistenza a farsi assimilare dal maschile). Perciò, come
ci sembra sbagliato continuare ad insistere sulla discriminazione ci sembra fuorviante
puntare sulla richiesta di maggiori spazi sociali e culturali per le donne. La
concessione di spazi maggiori è la risposta ad una appariscente ingiustizia,
di una società per metà fatta di donne e diretta quasi esclusivamente
da uomini; ma non tocca la sostanza del problema, e cioè che in questa
società così com'è le donne non trovano ne forti incentivi
ad inserirsi ne vera possibilità di affermarsi al meglio di sé.
Una donna ci sta, ammesso che voglia starci, a disagio. Torna
su la
lotta per l'agio
Da
un secolo almeno va vanti una politica di emancipazione dei gruppi socialmente
sfavoriti per dare loro uguali opportunità nell'inserimento sociale.
Ma per quanto ci si avvicini al traguardo per quel che riguarda le condizioni
materiali, nulla ancora è avvenuto per quel che riguarda lo svantaggio
forse più grave, che è di trovarsi immessi nella vita sociale
senza piacere, senza competenza, senza agio. Anche questi sono elementi
materiali. La lotta emancipatoria sorvola, senza vederle, sulle energie
bloccate dal senso di una propria irriducibile estraneità e su
quelle logorate nello sforzo dell'adeguamento. Alcune scrittrici della
Germania socialista, paese dei più avanzati nella lotta contro
la discriminazione antifemminile, raccontano questa estraneità
di fondo, questo non riuscire a starci che viene dall'essere corpo di
donna. Si legga, per esempio, Mutazione di Christa Wolf. C'è
un limite al processo di emancipazione, limite che può manifestarsi
solo molto tardi ma che è presente dall'inizio, in quella sollecitazione
a farsi avanti, a entrare in una condizione per tanti aspetti desiderabile,
ma senza la possibilità di portarvi l'integrità della propria
più elementare esperienza, quella associata al corpo e alla sessualità.
D'altra parte l'integrità della propria esperienza è una
condizione fondamentale per inserirsi nella società al meglio di
sé. Senza di ciò mediocrità e scacco sono quasi inevitabili.
Dal momento che questo è diventato chiaro, la lotta contro
la dicriminazione appare secondaria. In primo piano viene la lotta per avere agio
nell'esistenza sociale: per stare al mondo essendo fedeli all'essere donna, avendo
emozioni, desideri, motivazioni, comportamenti, criteri di giudizio, che non siano
quelli rispondenti alla mascolinità, quelli cioè che ancora prevalgono
nella società governandola fin nelle sue più libere espressioni.
Ad avere esistenza sociale non rinunciamo. Perciò della nostra presente
situazione mettiamo in evidenza il disagio. Da questo vogliamo uscire, per cominciare,
esplicitando la sua radice. Nei commerci sociali ci mette in difficoltà
la prevalenza del maschile, il maschile che si trasferisce in soldi, carriere,
cultura, politica, arte, e sollecita prepotentemente ammirazione e imitazione.
Dal punto di vista di un astratto sapere non stiamo dicendo niente di nuovo. Sono
cose che si sanno e però praticamente cancellate. Sessualizzare i rapporti
sociali vuoi dire contrastare questa cancellazione. In pratica si tratta di costituire
il gruppo separato di donne anche quando e dove siamo alla ricerca di esistenza
sociale, per interrogare l'esperienza dello scacco, riconoscere la voglia di vincere
e dare avvio alla lotta per stare al mondo con agio. Torna
su contro
il separatismo statico Dopo
dieci e più anni di movimento politico, l'esperienza dello scacco e il
disagio nella ricerca di esistenza sociale restano un fatto individuale che ognuna
si vede da sola, oppure con l'analista o con qualche amica personale. Nei nostri
gruppi si fa fatica a parlare del conflitto tra voglia di vincere ed estraneità,
il cui esito però incide sempre a fondo nelle scelte che si fanno (o non
si fanno), e non soltanto a proposito del lavoro. Su questo punto c'è insufficienza
di lavoro teorico e di pratica politica da parte del movimento delle donne. Nei
nostri gruppi circola abbondantemente l'esperienza che si fa nei rapporti personali
con uomini, donne e bambini, nonché animali e natura in genere, mentre
tutto quello che riguarda i commerci sociali viene taciuto o, appena si può,
messo sotto la voce di una discriminazione di cui noi siamo vittime e il mondo
maschile l'autore. Si tace una parte della situazione che è la nostra voglia
di vincere con i suoi scacchi, voglia che resiste attraverso i vari adattamenti
e le mascherature, ed operante anche nelle scelte che sembrano di natura puramente
sentimentale. Si può fare un figlio anche per voglia di vincere e paura
di fallire. Tendiamo a presentarci come esseri umani dominati da pure esigenze
sentimentali. Tale insufficienza si riflette nel fatto che il movimento, pur suscitando
in molte la volontà di cambiare la propria vita, e la voglia di vincere,
ha nel tempo stesso dato copertura ai giochetti della marginalità e dell'emancipazione.
I gruppi di donne rischiano di diventare il luogo di un'autenticità femminile
staccata dalla frequentazione sociale e dall'implicazione nei commerci sociali.
La proclamata marginalità delle donne, esattamente come il processo emancipatorio,
non impedisce che intanto nei commerci sociali le donne siano soggette, da collaboratrici
loquaci oppure da silenziose paralizzate, all'iniziativa dell'uomo. Il silenzio
del desiderio e del sapere di un essere donna non fa che prolungarsi. Non vi pone
fine il separatismo femminista inteso come di qua le donne con la loro specificità,
di là la società con la sua. Ci siamo messe da parte, rispetto a
gruppi e movimenti misti dominati dagli uomini (dominati cioè da progetti
pensati da uomini e linguaggi appropriati all'essere uomo), per trovare esistenza
nel riferimento alle nostre simili e articolare un nostro desiderio e un nostro
sapere circa noi stesse, il nostro stare al mondo e il mondo. Ci siamo messe da
parte per esistere e avere parte nel mondo - non per esaltarci di una marginalità
che è fasulla quando non sia disperata e perdente. In altre parole, la
separazione è uno strumento di lotta e non una sistemazione dei rapporti
uomo-donna. Se ai nostri desideri rispondiamo come si è fatto in passato,
emancipazione oppure evitamento, provarci con le doti individuali oppure rinunciare
in partenza, allora tornerà indietro anche il rapporto con l'uomo che siamo
riuscite in parte a modificare. La nostra estraneità di fondo rispetto
a questa società e cultura va interrogata nel momento dell'implicazione,
quando emerge insieme alla voglia di vincere, di esistere, di contare, in questo
mondo. E l'una e l'altra, estraneità e voglia, non si fanno ombra ma si
rinforzano così da mostrare che la società non sarà più
la stessa quando in essa avranno libero corso desideri e sapere di donna. Allora
l'essere uomo riuscirà a trovare senso nella sua parzialità e a
liberarsi della sua opprimente universalità. Torna
su un
mondo comune delle donne La
difficoltà maggiore che ci sta davanti è che ci manca "un mondo
comune delle donne". Ne parla Adrienne Rich e da lei riprendiamo questa profonda
intuizione. Una donna che in qualche modo cerca di esistere socialmente, che sia
per la propria sopravvivenza o per la propria soddisfazione, di fatto entra nel
mondo comune degli uomini, un mondo dove cose che per lei possono essere elementari
ed essenziali, degne della massima attenzione, lì cadono nel nulla, non
contano nulla: mai esistite lì. E viceversa, dove bisogna confrontarsi
con cose in cui lei non può riconoscersi - benché certo ne conosca
l'esistenza, la mascolinità infatti non ha grandi problemi a farsi conoscere.
Mentre nel rapporto personale uomo-donna, con il movimento politico di questi
anni il vecchio modo di vedere è cambiato per cui alle nostre simili ci
rivolgiamo con atteggiamenti e giudizi liberi, non compiacenti verso gli interessi
maschili, nel fare sociale ci ritroviamo di nuovo senza criteri radicati nei nostri
interessi e quindi senza libertà di giudizio. Eppure c'è un'analogia
tra frigidità sessuale e scacco nelle prestazioni della vita sociale. La
frigidità di alcune ha rivelato, insieme alla violenza che la sessualità
maschile esercita sulla donna, la muta resistenza del corpo di lei e ci ha spinte
ad una lotta politica comune per esprimere la resistenza e cambiare il rapporto
personale con l'uomo. Così lo scacco nella vita sociale, il blocco della
parola, l'ansia, il disagio, "parlano" di una estraneità e di
una resistenza. Si è trattato finora di una resistenza muta. Nel sociale
siamo ancora isolate e non comunicanti se non per cose marginali rispetto alla
situazione. Per l'essenziale silenziose o ripetitive, anche quando si tratta di
muovere delle critiche. Conformiste o sovversive, agiamo e pensiamo seguendo criteri
in cui non c'entra più il nostro essere donne. Anzi, criteri che escludono
un accomunamento tra donne in positivo, l'unico possibile accomunamento essendo
spregiativo. La società non ci nega posti e, in caso, successi per il solo
fatto che siamo donne. Ma questo proprio perché il fatto di essere donne,
nell'affermazione sociale, è irrilevante e tale deve risultare. Strana
esistenza sociale la nostra, di esseri che non sono uomini ma non possono risultare
donne. Solo nel riferimento ad altre nostre simili abbiamo la possibilità
di ritrovare e quindi di sostenere quei contenuti della nostra esperienza che
la realtà sociale ignora o tende a cancellare come scarsamente rilevanti.
Non c'è forse altro modo perché l'essere donna dia all'essere uomo
la misura della sua parzialità, che si percepisca l'esistenza di rapporti
e interessi che non fanno capo a lui. Finché la parzialità di essere
uomo/donna non ha esistenza nella sostanza della vita sociale e culturale, la
società è mutilata e, per noi, mutilante. E' quasi impensabile che
una donna ci riesca da sola, entrando in un mondo dove, dalla fabbrica al laboratorio,
dall'asilo allo stadio di calcio, dalla legge alla poesia, la cosa che circola
e che gli uomini concordemente sostengono è l'eccellenza dell'essere corpo
di uomo. Ci si riesce invece quando si intesse una trama di rapporti preferenziali
tra donne dove l'esperienza associata all'essere donna si rafforza nel reciproco
riconoscimento e si inventano i modi di tradurla in realtà sociale. Questo
chiamiamo mondo comune delle donne, una trama di rapporti e di riferimenti alle
proprie simili, capace di registrare, di dare consistenza ed efficacia alla nostra
esperienza nella sua integrità, riprendendo e sviluppando anche quello
che già molte donne, in condizioni difficili, a sprazzi, hanno saputo fare.
In altre parole, uno stare al mondo tenendoci in rapporto con le nostre simili
e in questo rapporto dare sostanza a quello che la prevalenza del maschile nega,
che è il dato originario del nostro essere donne piuttosto che uomini.
Il mondo è uno solo, abitato da donne come da uomini, bambini, bestie e
cose varie, viventi o non viventi, e in questo mondo che è uno solo vogliamo
stare con agio. creare
un precedente di forza La
solidarietà è un elemento prezioso ma non basta. Servono rapporti
diversificati e forti dove, salvaguardato l'interesse minimo comune, il legame
non sia più solo la difesa dell'interesse minimo comune; rapporti dove
le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia. Le
diversità prendono spesso forma di vere e proprie disparità e il
riconoscimento della disparità si fa con un'attribuzione di valore. Rientra
nel nostro interesse massimo che il dare valore sia qualcosa che ha luogo tra
donne - ne dipende che l'essere donna abbia valore. Non valore m generale-astratto,
ma nel contesto dove ciascuna si trova a vivere con dentro la propria voglia di
vincere e la propria estraneità. Lì, infatti, valorizzazione vuol
dire fare capo ad una propria simile - alla sua voglia di vincere, alla sua estraneità
- per il proprio interesse, e stabilire così un legame materiale che mette
in comunicazione cose che erano tacitate o distorte nel confronto individuale
con la società maschile. A questo scopo, di intessere un mondo in cui abbiano
circolazione gli interessi associati all'essere donna e una donna possa esistere
senza doversi giustificare, noi qui portiamo come contributo un risultato della
nostra pratica politica che riguarda i rapporti tra donne. Si tratta appunto della
disparità tra donne, della necessità di renderla praticabile e di
rendere praticabile l'affidarsi ad una propria simile. Nei nostri gruppi in genere
non si ammette la disparità, in nome di un egualitarismo ereditato dai
movimenti giovanili, ma in realtà, forse, per reazione allo schiacciamento
della madre - nella società patriarcale il rapporto madre-figlia non ha
forma per cui è spesso conflittuale e perdente per entrambe. Abbiamo capito
che la disparità tra donne è praticabile e che la sua pratica è
preziosa. Riconoscere che una nostra simile vale di più spezza la regola
della società maschile secondo cui, tolta la madre, le donne sono in definitiva
tutte uguali; e contemporaneamente libera noi, intimidite o interiorizzate nel
confronto con l'uomo, dal bisogno reattivo di essere alla pari almeno con le nostre
simili. Anche le donne sono state messe al mondo da una madre. La lotta contro
la società patriarcale vuole che diamo forza attuale, nei nostri rapporti,
a quell'antico rapporto, nel quale per una donna potevano esserci, fusi insieme,
amore e stima. Nella madre infatti lei aveva, insieme, il primo amore e il primo
modello. Stiamo forse proponendo di riprodurre nei nostri rapporti le gerarchie
dell'essere di più/di meno che giustamente detestiamo perché nella
società ci vedono perdenti? La risposta non può che essere: sì
e no. Sì, perché bisogna pur rompere un regime di parità
tra donne che è basato sul disvalore dell'essere donna - la parità
tra noi ha radice nell'insicurezza profonda di ciascuna, tant'è che di
fatto non impedisce la sottomissione alle gerarchie in vigore nella società.
Ma anche no, perché il di più che determina una differenza tra donne,
da spazio ad un rapporto in cui circolano amore e stima, insieme. Il riconoscimento
della disparità tra donne non e dunque fine a se stesso. E' la pratica
di una contraddizione, pratica necessaria perché ci sia libertà
dalla paura di essere da meno di un'altra donna, e ciascuna arrivi al senso del
proprio valore potendo appoggiarsi, come elemento di forza, al valore di altre
sue simili. Che tra donne che si frequentano abbia luogo questo riconoscere un
valore e questo fare affidamento, crea un precedente di forza; vuol dire avere
un riferimento che conferma integralmente l'essere donna, con il di più
di cui si è alla ricerca. Nel riconoscimento della disparità, inoltre,
sempre che sia praticabile, trovano una regola, un dinamismo e quindi una fecondità,
le elementa-ri emozioni legate all'antico rapporto con la madre. Con il riconoscimento
del di più che un'altra può essere, quelle antiche emozioni riescono
ad esprimersi in positivo liberandosi dall'ambiguità e liberando noi dalla
recriminazione. alla
luce di un desiderio vivo Articolare
le emozioni fa parte del percorso per arrivare all'agio, alla fine dell'ansia.
L'agio, infatti, è la terza cosa tra una selvaggia voglia di vincere e
la sottomissione, tra le fantasie di onnipotenza e il fallimento. L'agio è
avere collegamento tra le proprie emozioni e la cosa da pensare e fare in una
data situazione. Non si tratta di una questione psicologica. La ricerca dell'agio
è una pratica politica che continua a dire: il lavoro per mascolinizzare
la nostra mente e le nostre emozioni è opprimente e per giunta inutile.
Che continua a dire: vogliamo tradurre un'esperienza e un desiderio di donne in
una società che non ne vuole sapere, e cambiare le cose. Che continua a
dire: l'agio è il più materiale dei nostri bisogni insieme agli
altri bisogni materiali e la lotta per l'agio è sovversiva in un mondo
dove il desiderio è pietrificato. Questo voler stare al mondo con agio
rimette le cose in rapporto vivo con un desiderio perché siano viste e,
per quel che occorre (tanto o poco, forse tanto), cambiate in questa luce.
Notizia sui testi - Christa Wolf, Mutazione si
trova in Fulmine a ciel sereno. La Tartaruga, Milano 1981 - sulla disparità
e sull'affidamento: Le madri di tutte noi, Libreria delle donne di Milano
e Biblioteca delle donne di Parma, Milano 1982
- Adrienne Rich. Il mondo comune delle donne si tova in Segreti,
silenzi, bugie. La Tartaruga, Milano 1982
- il testo di Adrienne Rich era originariamente la prefazione di Working
It Out, a cura di Sara Ruddick e di Pamela Daniels. Pantheon Books,
New York 1977. da cui sono estratti anche i passi di Evelyn Fox Keller
riprodotti più avanti con il titolo "E' difficile raccontare
lo scacco"
- "Più donne che uomini" è un titolo che abbiamo
ripreso da Ivy Compton-Burnett, Più donne che uomini, Longanesi,
Milano 1950
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Adrienne
Rich
CONDIZIONI
DI LAVORO: IL MONDO COMUNE DELLE DONNE Le
donne hanno e non hanno avuto un mondo comune. Il semplice fatto di dividere un'oppressione
non costituisce un mondo comune. Finora il nostro pensiero e le nostre azioni,
appena assumevano i contorni di una differenza o di un'asserzione o di una ribellione,
venivano immediatamente cancellati o catalogati come storie "umane",
che significa "la diffusione nella sfera pubblica" creata e controllata
dagli uomini. La nostra è la storia del genere umano, ciononostante ogni
battaglia intrapresa dalle donne per una condizione più "umana"
è stata relegata agli spazi a pie pagina, ai margini. Soprattutto è
stata negata e ignorata la forza storica dei rapporti tra donne.
(...) Gran parte delle donne che frequentano le scuole e le università
soffre di una coercizione intellettuale di cui esse stesse si rendono poco conto.
In un mondo dove il linguaggio e le definizioni sono potere, il silenzio è
oppressione, è violenza. Simone Weil, scrivendo a proposito della distruzione
della Langue d'Oc compiuta dalle forze ecclesiastiche, sotto Simone de Montfort,
ci ricorda che "nulla è più crudele del luogo comune che afferma
che la forza non può in alcun modo distruggere i valori spirituali; forti
di questo pregiudizio, intere civiltà, distrutte dalla forza delle armi,
sono state depredate anche del nome di civiltà, senza il rischio che i
morti sorgano a confutarci". Per poter avere un'ininterrotta continuità
di valori e di tradizioni, abbiamo bisogno di prodotti concreti, di manufatti,
di parole scritte da leggere, di immagini da guardare, un dialogo reale con donne
di coraggio e immaginazione che hanno vissuto prima di noi. Nei falsi nomi di
amore, maternità, legge di natura - falsi perché non formulati da
chi ne è stato investito - le donne del patriarcato non hanno potuto costruire
un mondo comune, se non in riserve, attraverso messaggi in codice.
(...) C'è una gran voglia, appena se ne offre l'occasione, di fuggire,
di chiudere la porta dietro di noi e lasciare questo mondo disprezzato che cerca
di inghiottire tutte le donne, siano esse madri, spose o collaboratrici invisibili
e malpagate di istituzioni professionali e sociali. Un naturale timore ci costringe
a pensare che se non entriamo nel comune mondo degli uomini come esseri asessuati
e come donne "eccezionali", o se non ci entriamo secondo le regole e
gli schemi da loro imposti, rischiamo di venir riassorbite nel mondo degli schiavi,
a prescindere dalla nostra condizione di classe e dai nostri privilegi. Questa
voglia di fuga e questo timore compromettono le nostre possibilità, disperdono
le nostre energie, creano una potente fonte di "blocchi" e un'acuta
ansia nei confronti del lavoro. Se, nel tentativo di raggiungere il mondo comune
degli uomini e le professioni, ci allontaniamo dal mondo comune delle donne e
neghiamo il nostro patrimonio femminile e l'identità del nostro lavoro,
rischiamo anche di perdere contatto con le nostre capacità reali e con
la condizione essenziale che permette un lavoro pienamente riuscito: la comunità.
Il femminismo inizia con la consapevolezza di essere donna, ma non si esaurisce
in essa. Non termina neppure con lo scoprire le ragioni della propria rabbia,
o della volontà di cambiar vita, di riprendere a studiare, di rompere un
matrimonio (sebbene, in ogni singola vita, tali decisioni possano essere di grande
importanza e richiedere un grande coraggio). Il femminismo significa anche, la
nostra rinuncia all'obbedienza ai padri e la nostra presa di coscienza della verità
parziale del mondo che essi hanno voluto descrivere. Le ideologie maschili sono
state create dal soggettivismo maschile, non sono ne oggettive ne prive di indicazioni
di valore, ne complessivamente "umane". Il femminismo implica il nostro
riconoscimento della totale inadeguatezza a rappresentare, dell' ideologia maschile,
della sua deformazione, e parte dal presupposto che i nostri atti e i nostri pensieri
futuri ne terranno conto. Ci vuole più del nostro talento individuale
e della nostra intelligenza per procedere, con gli atti e col pensiero, nel mondo
comune degli uomini e delle professioni. Pretendendo di schierarsi per l'"
umano", la soggettività maschile tenta di indurci ad esporre le nostre
verità in una lingua che non ci appartiene a diluirle; ci viene costantemente
ricordato che i problemi "reali", sui quali vale la pena di lavorare,
sono quelli definiti dagli uomini, e che i problemi che noi vogliamo analizzare
sono in realtà futili, non culturali, inesistenti. Siamo state invitate
a separare il "personale" (la nostra intera esistenza di donne) dal
"colto" o "professionale". Varie donne hanno avuto modo di
descrivere l'aperto sabotaggio da loro subito nelle scuole superiori. Ma ancora
più insidioso può essere il sabotaggio che si esprime sotto forma
di consigli paterni, di approvazione elargita per aver interiorizzato una soggettività
maschile. Come dice Tillie Olsen: "Non essere capace di arrivare alla propria
verità o non poterla utilizzare nei propri scritti, e anche quando si riesce
a raccontare la verità il doverla dire obliquamente frena ogni slancio,
ogni sicurezza e limita il percorso potenziale..." ' (...) Esiste
anche l'illusione che, se si divide la vita emotiva ed erotica con le donne, non
sia importante riconoscere che il proprio lavoro intellettuale collabora a mantenere
il silenzio e la menzogna sulla esperienza femminile. (...) Qualsiasi
donna che abbia preso le distanze dall'eloquenza maschile per inserirsi nel mondo
delineato dalla nuova prospettiva delle donne, non può non avvertire in
sé quella straordinaria sensazione di liberazione, come se si scrollasse
di dosso un ingombrante fardello altrui e smettesse di tradurre da una lingua
non sua. Non che il pensare diventi un'impresa più facile ma le difficoltà,
piuttosto che venire dall'esterno, scaturiscano dall'interno, dal lavoro stesso. Lavorando
fianco a fianco, tessendo con pazienza le nostre reti anche dentro le istituzioni
patriarcali, noi donne possiamo mettere a confronto i problemi dei rapporti con
le madri che ci hanno generato, con le sorelle costrette a dividere con noi il
mondo, con le figlie che amiamo e temiamo. Possiamo anche sfidarci, o ispirarci
a vicenda, gettare luce sulle zone oscure, accompagnare e incoraggiare il doloroso
formarsi delle nostre intuizioni. Penso a ciò che racconta H.D., la poetessa,
a proposito di una visione avuta a Corfù: E
qui sedevo io, là c'era la mia amica Bryher che mi aveva portato in Grecia.
Ora posso voltarmi verso di lei. pur non muovendomi di un centimetro ne distogliendo
il mio sguardo cristallino focalizzato sul muro davanti a me. Dico a Bryher: "C'erano
dipinti qui - a prima vista li ho creduti ombra, ma sono luce, non sono ombre.
Sono proprio semplici oggetti - ma certo è molto strano. Posso staccarmi
da loro, se voglio - è solo questione di concentrazione - cosa credi? Devo
smettere? Devo invece continuare?" "Va avanti" Bryher dice senza
esitare. ... Ho conosciuto gente straordinaria, grandi talenti, affascinanti.
Mi hanno dato molto o mi hanno ignorato e comunque ne la lode ne l'indifferenza
hanno contato nelle gravi occasioni - morte, vita. ... Comunque, stranamente,
sapevo che questa esperienza, questa traccia - sul muro davanti a me, non poteva
essere divisa da altri che da questa ragazza che coraggiosamente mi sedeva accanto.
" Va avanti" aveva detto senza esitare, questa ragazza. Era lei che
possedeva in realtà il distacco e l'integrità dell'oracolo di Delfì.
Ma ero io, io abbattuta e dissociata... quella che vedeva i dipinti, che tendeva
le scritte o che sperimentava quelle interne visioni. O forse, in qualche modo.
le "vedevamo" insieme, perchè, senza di lei, lo ammetto, non
avrei potuto andare avanti. (I segni sul muro) (...) Finché
seguiremo la regola dell'ideologia maschile, le nostre menti non potranno elevarsi
alle loro reali dimensioni, ne riusciremo a mettere le mani su ciò che
ci darà il potere di cambiare la realtà. Ciò non vuoi dire
che dovremmo rifiutare tutto di queste ideologie e dei loro metodi, o che non
dovremo cercare di capirle. Ma il mondo comune degli uomini non è in grado
di darci quello di cui abbiamo bisogno mentre già ci sta avvelenando. Miriam
Shapiro racconta dei riti con i quali comincia a lavorare; di come spalma i fogli
di colori, traccia immagini "liberamente e incurantemente" per poter
tornare in quello spazio dell'infanzia nel quale dipingeva semplicemente ed era
felice. Torna
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Fox Keller
È
DIFFICILE RACCONTARE LO SCACCO
(...) Mi sembrò decisamente poco opportuno, in un certo senso disonesto
e forse persino politicamente irresponsabile, tenere cinque conferenze
sul mio lavoro senza mai fare il benché minimo accenno al gran
numero di contraddizioni e conflitti in cui mi ero imbattuta lungo la
via per conseguire lo status professionale che quell'occasione richiedeva.
Ebbi perciò un gesto che sembrò insieme meravigliosamente
audace e poco professionale, e dedicai l'ultima conferenza a discutere
delle molte ragioni per cui le donne sono relativamente poco presenti
in campo scientifico, specialmente ai livelli più alti. Il discorso
si dipanò con un agio, una chiarezza e una mancanza di risentimenti
che mi stupirono. Ebbi la sensazione profonda di un trionfo personale.
Era come vedere un problema che avevo sempre considerato strettamente
personale trasformarsi in problema politico: al tempo stesso mi accorgevo
che la rabbia andava spersonalizzandosi, addirittura spegnendosi, mentre
affiorava in me una sensazione di grande chiarezza. Cominciai così
a pensare che avrei potuto scrivere la storia assai dolorosa e caotica,
di come divenni una donna di scienza. E' difficile ricostruire le origini
e capire in che rapporto sono con il risultato finale. Sarà sufficiente
dire che nell'ultimo anno di liceo decisi di voler diventare una scienziata.
Dopo un lungo periodo di ambizioni intellettuali assai vaghe scelsi la
specializzazione in fisica, in parte per amore di quella materia, e in
parte perché non avevo ancora un'idea abbastanza precisa della
mia vocazione. L'ultimo anno mi innamorai della fisica teorica. Uso quest'immagine
romantica non in senso metaforico, ma per descrivere alla lettera e in
modo autentico la mia esperienza. Mi innamorai, al tempo stesso e inestricabilmente,
dei miei professori, di una disciplina di pensiero puro, preciso e definitivo,
e di quelle che mi sembrano le aspirazioni che vi erano connesse. Mi innamorai
della vita della mente. Vorrei aggiungere che mi innamorai anche dell'immagine
di me che lottavo e riuscivo in un campo in cui le donne si erano avventurate
assai di rado. Era un'esperienza inebriante. Secondo le fantasie del mio
professore ero destinata ad arrivare in vetta senza ostacoli. Nelle mie
fantasie private il mio passaggio sarebbe stato salutato ovunque da ovazioni.
(...)
E' difficile raccontare la mia storia al corso di laurea.
E' difficile, in parte perché è la storia di un comportamento cosi
elementare ed estremo da sembrare poco plausibile. E inoltre è difficile
perché è dolorosa. Quando raccontavo questa storia in passato mi
sentivo sempre estremamente scossa e talmente esposta che cominciai a rifiutarmi
di dirla. Sono trascorsi molti anni e potrei facilmente seppellire quei brutti
ricordi. Ma non lo faccio, perché rappresentano un pezzo di realtà,
una realtà in divenire che riguarda anche altri, soprattutto le donne.
Sebbene le mie esperienze possano essere state uniche - nessun altro le vivrà
mai esattamente allo stesso mio modo - i motivi alla base del comportamento che
voglio descrivere sono, io credo, assai più comuni di quanto si possa ritenere,
e riscontrabili anche in comportamenti meno estremi. Per questo racconto ora la
mia storia, perché può essere di aiuto ad altri. Adesso posso
farlo perché non provo più l'antica sensazione di essere "esposta".
Vorrei anche cercare di spiegare che cos'è quella sensazione. Una volta,
parecchi mesi dopo l'inizio del corso uno studente già diplomato si offrì,
con una gentilezza assai poco usuale, di accompagnarmi a casa in macchina dopo
un seminario, e mi chiese come mi andassero le cose. Commossa dal suo gesto presi
a raccontare. Ma quando ero già quasi sull'orlo delle lacrime notai sul
suo viso un'espressione di profondo disagio. In qualche modo avevo commesso una
grossa imprudenza. Era come se mi fossi spogliata in pubblico. Qualsiasi cosa
dicessi, allora e anche in seguito, era come se avessi detto troppo. E, in parte,
quella sensazione è presente anche adesso mentre scrivo questo articolo.
Dipende dal fatto che nella testa della gente ciò che sto descrivendo è
considerata un'esperienza molto personale, privata - vale a dire qualcosa che
è stato originato da forze che sono in me. Ma non è così.
Sebbene io abbia evidentemente partecipato e, di necessità, contribuito
allo svolgersi di quegli avvenimenti, la loro origine fu essenzialmente
esterna. Riconoscerlo è stato un fatto vitale, che ha richiesto molto tempo.
Nel frattempo anche la mia vergogna ha cominciato a venir meno, e al suo posto
è subentrata una sensazione di rabbia personale che si è trasformata
alla fine in qualcosa di meno personale, qualcosa che somigliava a una consapevolezza
politica. Tuttavia quella trasformazione - per quanto fondamentale giacché
mi permette di scrivere ora - non ha cancellato del tutto la sofferenza che provo
nel rievocare una storia che conserva per me una buona dose di orrore. Se a questo
punto ho qualche esitazione è perché mi rendo conto che la mia storia,
se vuole significare qualcosa ad altre donne, se vuole essere credibile, deve
essere raccontata con obiettività - io devo in qualche modo prendere le
distanze dalla sofferenza di cui scrivo. Gli avvenimenti reali furono complessi;
molti erano i fili che vi si intrecciavano. Li descriverò, a uno a uno,
il più semplicemente e onestamente possibile. Il primo giorno che trascorsi
a Harvard mi fu detto, dallo stesso uomo che mi aveva sollecitato ad andarvi,
che le mie aspettative erano poco realistiche...
Ebbero così inizio due anni di provocazioni, insulti e rifiuti
senza mezzi termini. Mi mancava l'inquadramento politico o psicologico
adeguato per capire quello che mi stava succedendo, di conseguenza reagivo
individualmente soltanto con rabbia: e mi sentivo sempre più provocata,
insultata e rifiutata. Là dove la rabbia politica avrebbe avuto
un effetto costruttivo, la rabbia personale serviva soltanto ad accrescere
la mia vulnerabilità. Ero arrivata a Harvard aspettandomi di essere
vezzeggiata e coccolata (come ero sempre stata) e soprattutto di ricevere
conferme e approvazioni - ero dunque del tutto impreparata a quel genere
di trattamento. Non ero capace ne di trovare una spiegazione né
di reagire adeguatamente all'enorme divario tra quanto mi ero aspettata
e ciò che avevo trovato. Avevo interiorizzato così bene
l'identificazione culturale di maschile e intelletto che finivo per dipendere
completamente dai miei insegnanti (maschi) per sentirmi affermata - una
dipendenza resa tanto più ambigua dalla perenne confusione che
si crea tra sessualità e facoltà intellettive nei rapporti
dei professori maschi con le studentesse. Ero pertanto esposta, con estrema
vulnerabilità, all'aggressione maschile da cui mi vedevo circondata.
A dire il vero mi avevano messo in guardia dalla
grande alienazione cui andavano incontro gli studenti del primo anno a Harvard,
ma la mia vanità e ingenuità fecero si che ignorassi quegli avvertimenti.
Ero sicura che a me sarebbe andata diversamente. Questa certezza non durò
a lungo. Tre messaggi mi giungevano da ogni parte: primo, fisica a Harvard era
l'impresa più difficile del mondo; secondo, io non ero in grado di capire
le cose che pensavo di capire e, terzo, il fatto che non provassi paura dimostrava
la mia ignoranza. Sulle prime adottai l'atteggiamento di chi sta a vedere e accettai
di seguire il corso ordinario, sebbene tra me e me fossi ben decisa a frequentare
il corso di Schwinger. Ma questa, come si vede, sembrò una tale bravata
che quotidianamente ebbi gli occhi di tutti puntati addosso non appena entravo
nell'aula, ne passava giorno senza che un bei numero di persone mi chiedessero
ridendo se ero ancora convinta di capire. Misteriosamente mi sembrava che i corsi
regolari fossero assai agevoli, addirittura facili, ma il fatto di non riuscire
a provare paura come era dovuto mi rendeva sempre più nervosa e finivo
per passare una sera dopo l'altra al cinema. Col tempo il messaggio continuamente
ripetuto da ogni parte, che non era possibile capissi quello che pensavo di capire,
cominciò ad avere effetto. Come primo atto di una ritirata generale smisi
di seguire le lezioni di Schwinger. Avevo cominciato a smarrire del tutto il senso
di quello che capivo e non capivo, lì e altrove. Il fatto di riuscire negli
esami a fine semestre sembrava non facesse alcuna differenza (...)
Non c'erano altre studentesse? Ce n'erano due, che non avevano in comune
con me né l'ambizione né il modo di intendere la fisica
né i miei interessi. Per queste ragioni, mi vergogno di dirlo,
non mi interessavano. E ancora più mi vergogno di dire che desideravo
a tal punto essere presa sul serio come fisica da evitare accuratamente
ogni identificazione con altre studentesse, che mi sembrava non potessero
essere prese sul serio. Come la maggior parte delle donne che nutrono
ambizioni cosiddette maschili il mio senso di sorellanza era molto debole
(
)
Tuttavia i conflitti interni non sarebbero scomparsi cambiando indirizzo
scientifico. E' vero che non avrei più sofferto lo stesso acuto
- forse singolare - disagio di quando volevo laurearmi in fisica, ma gran
parte dei conflitti sotterranei sarebbero riaffiorati sotto altre forme
non appena avessi assunto le funzioni più convenzionali di moglie,
madre e insegnante. Il conflitto principale - tra il mio sentirmi donna
e la mia identità di scienziata - poteva essere risolto soltanto
superando ogni definizione stereotipa di sé e del successo. Per
fare questo ebbi bisogno di molto tempo, di un'analisi personale e del
movimento delle donne. Significava per me costituirmi un'identità
personale abbastanza sicura, che mi permettesse di cominciare a liberarmi
di ogni sorta di etichettature - a cominciare dalle mie. Oggi la tensione
tra me come donna e come scienziata non e più una fonte di lotta
personale, se mai una questione radicale.
Dopo molti anni mi sono conquistata un'identità
professionale assai diversa da quella che avevo in mente in origine: mi sta molto
a cuore e sotto molti importanti aspetti è extraprofessionale. Ho scelto
così di insegnare in un piccolo college di preparazione agli studi umanistici,
che mi lascia tempo per seguire i miei interessi secondo i miei modi e mi consente
di armonizzare quegli interessi con l'insegnamento che ho preso ad amare. E questo
mi guadagna rispetto. Ha significato trovare il coraggio di cercare i motivi e
le ricompense dei miei sforzi intellettuali molto di più in me stessa.
Non che non senta più il bisogno di riconoscimenti esterni, ma mi accorgo
che adesso ho voglia di cercare e accettare sostegno da fonti diverse - dagli
amici piuttosto che dalle istituzioni, da una comunità determinata in base
a interessi comuni piuttosto che da una posizione sociale. Sul finire di questo
scritto mi sono imbattuta in un numero degli annali della New York Academy of
Science del 15 marzo 1973, dedicato alle "Donne di successo nelle scienze".
Il fascicolo raccoglieva brevi resoconti autobiografici di una dozzina circa di
donne, due delle quali operano nel campo della fisica e una della matematica.
Poiché il materiale di questo genere è pressoché inesistente,
quei resoconti in prima persona sono un contributo importante alla "letteratura"
sull'argomento. Li lessi avidamente. Anzi più che avidamente, poiché
le osservazioni di queste donne, immediate e sincere, costituiscono di fatto l'unico
esempio di situazioni professionali con cui mettere a confronto la mia esperienza. Forse
è difficile per chi ignora gli usi della comunità scientifica capire
l'enorme reticenza con cui chiunque, ma soprattutto una donna, renderebbe pubbliche
le sue impressioni ed esperienze personali, in particolar modo se mettono in cattiva
luce la stessa comunità. Farlo, oltre che considerato poco professionale,
mette in forse la propria immagine di professionista imparziale e obiettivo. Le
donne che faticano tanto per conquistare quell'immagine, ben difficilmente si
espongono a un rischio del genere. Inoltre, i membri di quella comunità
sono stati rigorosamente abituati a minimizzare ogni differenza di sesso. Per
questo desidero congratularmi con le donne che, pur nella scia della scienza,
dimostrano tanto coraggio. Eppure le loro storie sono molto diverse dalla mia.
Sebbene alcune descrivano varie esperienze, simili a quelle che sono state anche
le mie, in generale sono riuscite a superare l'isolamento e il disagio e, con
perseveranza e successo, hanno reso giustizia al loro sesso. Tanta forza d'animo
mi incute un certo sgomento. Le loro storie riconfermano ciò che penso,
e cioè che se avessi avuto più forza interiore avrei reagito diversamente
alle esperienze che ho descritto. Tuttavia le storie che registrano un successo
hanno questo di negativo: tendono a lasciare in ombra l'impatto dell'oppressione,
concentrando tutta l'attenzione sulla forza individuale. La maggior parte delle
donne che avevano raggiunto il successo erano abituate a dire che le donne non
hanno di che lagnarsi proprio perché è dimostrato che si può
ottenere tutto se si ha una determinazione sufficiente. Se il movimento delle
donne ha avuto un merito è stato di mostrarci l'inesattezza di questo convincimento.
(da: Evelyn Fox Keller, The Anomaly of a Woman in Physics) Torna
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"VEDI
CHE VUOI VINCERE" Il
GRUPPO N. 4, di cui riportiamo qui alcuni appunti di riunione, è nato a
Milano verso la fine del 1976, per ragionare di cose politiche. Agli inizi si
riuniva in Col di Lana; dopo lo scioglimento de Collettivo di Col di Lana si è
riunito in case private. Sulla questione dell'inadeguatezza, che forma l'argomento
di questo "SOTTOSOPRA", ha ragionato per due anni abbondanti.
.. -
Il modo in cui si è parlato dell'inadeguatezza la volta scorsa ha portato
un salto. Non si è detto solo che c'è inadeguatezza ma che dietro
c'è un volere delle cose. Quello che vogliamo rispetto al mondo. Riconoscere
che cosa vuoi, come vuoi stare, con agio, senza scacchi. Parlare di "percorsi"
che ognuna dovrebbe realizza-re, non basta, perché non fa vedere la contraddizione,
dentro di noi e tra noi e la società. - In effetti, parlare di inadeguatezza
elimina tante parole inutili, competizione o no, lavoro dentro o fuori casa, ecc.
Vedi lo scacco e non ti nascondi più dietro giudizi falsi, vedi che vuoi
vincere, farcela, e che non ci riesci. - Va salvato il fatto che le donne hanno
delle capacità, hanno delle grandi capacità, anche se non le mettono
nel lavoro, nel successo, nella carriera. - Sicuramente abbiamo delle capacità,
ma lo scacco e il disagio mostrano che le capacità tentiamo anche di metterle
in quelle cose che dici. L'inadeguatezza è in rapporto con un desiderio
forte messo nel mondo maschile.
(...) - Qui si è parlato della ricerca di agio. Agio a me sembrava accomodamento,
mi è stato detto di no, che non capisco. Allora domando: come si passa
dal dire "voglio quello che voglio" a far sì che sia vero, reale?
Come si passa a grandi cose, a grandi piaceri? - Di sicuro non con le fantasie.
Voglio dire che non si tratta di "realizzare" le fantasie grandiose,
si tratta di dare realtà a ciò di cui le fantasie prendono il posto. -
Nella storia dell'inadeguatezza c'entra qualcosa di grande che io quasi non riesco
a confessarmi. - Ma voi siete terribilmente suddite del simbolico maschile,
fate discorsi in cui manca ogni impatto col piacere. - Sarò suddita,
ma guarda che la questione del piacere mi è presente, l'abbiamo presente,
per questo parliamo di agio. (...) - Smettiamo di parlare di quello che
esternamente non accettiamo della società. Si è detto che l'inadeguatezza
è non arrivare a fare o essere qualcosa che pure vorresti: voler fare una
cosa, averne anche le capacità, e non riuscirci per una contraddizione
che è anche interna, un dire insieme sì e no. - A quelle che
dicono di non conoscere questa contraddizione e dicono che stanno in disparte
solo perché preferiscono così, io chiedo: ti tiri da parte rispetto
a cose che non ti convengono e non ti attirano. E che cosa fai allora, cosa succede,
che cosa fai al posto di quello che non fai? - Congelo, e poi ritrovo in occasioni
minori, semplici, i piaceri e le soddisfazioni che non mi prendo da altre parti.
Mi basta poco, una passeggiata, un bel libro, una riunione interessante... -
La marginalità, insomma. Come possibilità da sfruttare in positivo,
il movimento delle donne la conosce, la pratica, da anni. Anch'io nel mio posto
di lavoro. Ma più di tanto non ne puoi cavare. Ti metti da parte per non
essere schiacciata, ma anche per avere forza, per diventare tè stessa e
quando le forze vengono, allora vuoi qualcosa di più. - Secondo me,
tu che insisti tanto a parlare di scacco, sei troppo presa da desideri non tuoi,
non autenticamente tuoi, e perciò conosci lo scacco. La favola dell'autenticità...
I desideri vengono in rapporto con quello che c'è e i miei desideri, proprio
miei, sono divisi. I desideri vengono per contagio, per imitazione, vengono come
vengono e adesso mi viene il desiderio di mettere le mani sulle cose, con l'agio
che mi pare hanno molti uomini. - Ma le modalità con cui gli uomini
mettono le mani sul mondo, non mi dirai che tu...
- Certo, non mi vanno bene, se non altro perché quando ci provo
io non mi riesce. Questa è la misura del cambiamento, qui c'entra
l'autenticità che dici tu: riconoscere che io imitando gli uomini
fallisco, sono mediocre e non sono a mio agio.
-
Bisognerebbe capire perché poche donne finora hanno affrontato la questione;
la maggioranza o imita o sta in disparte. - Secondo me quelle che preferiscono
stare in disparte in fondo cercano l'agio; e quelle che imitano, anche imitando
introducono delle variazioni, cercano di cambiare la situazione. - D'accordo,
però io noto che tra noi in questi anni si è guadagnata collettivamente
una forza che adesso si tende, in prevalenza, a spendere individualmente, per
piccoli guadagni. Ho dei dubbi che questo possa durare, perché nella società
scontri un sessismo mascherato, nel linguaggio, nel modo in cui funziona la società,
nel simbolico. Hai forza contro la discriminazione, hai forza contro il sessismo
dei rapporti personali, ma questa di cui parlo è una contraddizione che
una donna finora deve affrontare da sola. Contro questo abbiamo solo un'ideologia,
che non serve tanto quando hai a che fare con il sì e il no che si dicono
dentro di tè. Il secondo passo da fare, dopo aver riconosciuto lo scacco
e la contraddizione che c'è sotto, è di sessualizzare i rapporti
sociali. - E' una cosa che hai già detto e che non capisco bene. Io
nei rapporti sociali, per difendermi, cerco di essere neutra, non far notare tanto
che sono una donna, altrimenti mi troverei esposta alla volgarità maschile.
- Non è questione di cadere nel ruolo femminile. Io intendo un'altra
cosa, capire e sapere che l'impossibilità di parlare e agire con agio nei
rapporti sociali è della stessa natura della frigidità, che è
schiacciamento in una situazione dove il tuo corpo, la tua sessualità,
le tue emozioni non contano, non hanno la parola. Vuol dire che quando mi ritrovo
in difficoltà, non penso che devo prepararmi meglio o andare dallo psicologo,
penso che sono messa in difficoltà dalla prevalenza di un desiderio e di
una parola che non mi corrispondono, non corrispondono al mio corpo di donna. -
Devo dire però che a me fa paura l'idea di svegliare nel sociale il mio
corpo di donna. Rispetto al disagio presente, mi pare che sarebbe peggio, ne avrei
solo danno. - Danno individuale ma vantaggio collettivo. - Ah! - Le situazioni
a quel punto si sconquassano. - Ma io voglio anche per subito un guadagno.
- Il guadagno immediato sarà che capisci quello che ti capita.
- Insomma,
ci vuole una lotta politica di migliore qualità del passato.
- Interessante.
- Interessantissimo, ma c'è l'elemento frenante di una relativa soddisfazione.
Per alcuni aspetti stiamo meglio che in passato e ad alcune tanto basta. -
In effetti, forse nei confronti della società siamo modeste e accomodanti
per il fatto che è quasi una novità. Quando abbiamo affrontato la
questione dei rapporti personali con gli uomini, avevamo dietro secoli di sopportazione
e di tentativi, ormai non c'era più voglia di adattarsi ancora. Invece
l'affermazione sociale, al confronto, è una novità; la voglia forse
c'era da sempre ma la possibilità è recente. Molte hanno ancora
grandi riserve di sopportazione. - Io però non ne ho quasi più.
.. Per
ogni comunicazione rivolgersi a: GRUPPO N. 4, presso "Libreria delle donne",
Via Dogana, 2 - 20123 MILANO - Tel. (02) 87 42 13 Torna
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