Fin da piccola ho sentito raccontare in famiglia, da mio padre, dagli zii e dalle zie, quello che successe in Istria alla popolazione italiana, durante gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi: l’esodo forzato, gli omicidi di massa, le violenze attuate contro donne, uomini, bambine e bambini da parte delle truppe avverse, la paura, lo sconcerto e la disperazione che vissero le/gli abitanti di quelle terre. Case distrutte, città devastate, sfregiati e abbattuti monumenti, simboli di una storia secolare che i vincitori, sostituendosi ai vecchi abitanti, vollero cancellare: tutta quella regione subì drastiche trasformazioni, dettate dall’urgenza dello spirito di conquista, dall’odio e dal disprezzo per ogni forma di bellezza e di armonia che ricordasse chi in quei territori aveva messo radici, modellato il paesaggio, costruito memoria, cultura.
A un certo punto della mia vita, precisamente nell’adolescenza, non ho più voluto ascoltare quei racconti, carichi di risentimento e di rimpianto, anzi ne ero infastidita, li trovavo senza speranza. Mi sentivo estranea e impotente. La mia attenzione, alla fine degli anni Sessanta, era rivolta altrove: ai fatti e ai grandi cambiamenti in atto nella contemporaneità, al fermento studentesco e giovanile, alle rivoluzioni sociali. A volte, però, alcune frasi mi tornavano alla memoria. Per anni, nonostante il rifiuto di quella storia, ho continuato a raccogliere articoli, foto e immagini, ad acquistare libri che riguardavano l’Istria e l’esodo. Tra le foto, c’è quella di due donne anziane che, al momento della partenza dall’Istria, si abbracciano piangendo, sapendo che forse quello sarà il loro ultimo saluto; o quella degli uomini che caricano sul camion vecchi materassi, come se fossero beni preziosi, mentre alcune donne li guardano attonite; ci sono poi le foto dell’arrivo in Italia nei campi profughi, dove si vedono donne circondate dallo squallore, che cercano di dare un parvenza di normalità alla vita quotidiana. Figure anonime di un dolore collettivo, intrappolato nelle vite private o nelle false e riduttive interpretazioni politiche della Destra o della Sinistra. Anche nei filmati d’epoca, in quei fotogrammi in bianco e nero, si vedono gli sguardi smarriti delle donne e quelli inerti degli uomini, mentre intorno a loro le città deserte, vuote, senza suoni né voci sembrano vecchie scenografie.
In me, evidentemente, l’esodo istriano rappresenta un nodo irrisolto, che non riguarda solo le vicende private della mia famiglia ma, da qualche parte, interpella il mio bisogno di verità e giustizia e domanda di essere collocato in un contesto storico più ampio che comprenda altri esodi e genocidi avvenuti nel Novecento, come, per esempio, quello del popolo armeno.
Per anni questa storia si è presentata dentro di me come una miriade di pezzetti sparsi, di frammenti che non sapevo ancora mettere insieme. A scuola i professori non ne parlavano mai o perché non conoscevano i fatti storici o perché avevano accettato acriticamente le interpretazioni politiche ufficiali. Anche oggi c’è molta resistenza a fare chiarezza su questo periodo drammatico ed estremamente contraddittorio della storia italiana e il fatto che, fino a pochi anni fa, non se ne potesse quasi parlare mi ha sempre molto indignato.
Quando ci si ritrovava d’estate in montagna con i cugini, le cugine e i parenti di mio padre, nei loro racconti io avvertivo, tuttavia, una debolezza che solo in seguito ho saputo spiegare. Allora, infatti, non conoscevo ancora la ricerca del gruppo di “Storia Vivente” di Milano, in particolare gli scritti di Marirì Martinengo e di Laura Minguzzi, e non avevo ancora capito come restituire giustizia alla memoria privata di mio padre, utilizzando i suoi racconti e i ricordi delle zie e degli zii, i loro stessi sentimenti, le loro emozioni come documenti storici.
Dopo essere venuta ad abitare a Mestre nel 2004, partecipando agli incontri delle Vicine di casa, ho desiderato ripensare alla sofferenza e alla grandezza delle donne istriane e ho voluto chiarire i legami e i ricordi che mi legano a Trieste e all’Istria, cercando di andare oltre la storia familiare, per avere una memoria più libera e più ampia dei fatti accaduti.
Spinta dal desiderio di trovare forme di grandezza femminile in questa storia, ho cercato ulteriori fonti: scritti, memorie e testimonianze di donne esuli, alcune famose ed altre no. In tutte ho riconosciuto delle somiglianze su come avevano vissuto lo sradicamento e saputo ritrovare un equilibrio, facendo leva sulla capacità di lottare per la vita, sulla propria tenacia e intelligenza pratica.
Ho riallacciato i rapporti con due cugine nate in Istria e poi arrivate con la famiglia a Trieste ed ho finalmente ascoltato i loro racconti. Mi sono accorta, allora, di quanto poco sapessi di loro e delle loro madri, mie zie, e dei legami profondi che sentivano di avere con Umago, la città dove erano nate e che avevano continuato ad amare, nonostante l’esodo. Le mie cugine avevano lì tanti ricordi della loro infanzia e, quando vi sono tornate, hanno visto la casa, dove avevano passato i primi anni di vita, ormai devastata, imbruttita e il giardino, curato un tempo dalla nonna che, nonostante l’incuria, conservava ancora le tracce dell’antico splendore.
In questi ultimi anni, grazie al lavoro di lettura e discussione con le Vicine di casa sulla vita e il pensiero di Simone Weil, ho potuto trovare per la mia ricerca nuove parole e un piano più alto di riflessione che mi ha consentito di ritornare ancora una volta ai fatti accaduti in Istria e nel confine orientale italiano alla fine della guerra.
Simone Weil ha colto il dramma profondo dello sradicamento e afferma che la conquista militare è un male che produce malattia e disordine.
Per lei il radicamento è un bisogno universale e misconosciuto, forse il più importante, ma anche tra i più difficili da definire. Mediante la partecipazione attiva a una collettività che conservi il passato e guardi al futuro, l’essere umano trova quelle “radici multiple” di cui ha necessità per rendere la propria vita più intensa e ricca di senso.
Simone Weil parla delle “città che circondano di poesia la vita dei propri abitanti” e giudica un immenso delitto distruggerle sia materialmente sia moralmente, come “tagliare ogni legame di poesia e di amore” tra l’essere umano e l’universo. Non esiste per lei delitto più grande. Ho ripensato, allora, alle distruzioni e agli sfregi, fatti alle case e ai monumenti o alle chiese nel periodo dell’esodo, che sono ancora oggi in parte visibili, come ferite mai rimarginate del tutto, nonostante sia passato tanto tempo dalla guerra. Ho pensato alle donne istriane che hanno saputo mantenere un legame forte con la terra di origine e sono riuscite, sia quelle che se ne sono andate sia quelle rimaste, a dare senso e continuità alla propria vita, custodendo il passato dentro di sé come un bene prezioso e trasformandolo in leva per andare avanti.
Da quando ho ripreso la mia ricerca sulla storia dell’esodo istriano, è successo, forse non a caso, che mi siano arrivati, quasi all’improvviso, messaggi, segni e testimonianze, soprattutto femminili, riguardo a questo periodo. Una signora, ad esempio, pur non conoscendomi direttamente, ma solo tramite un’amica di Mestre, mi ha consegnato fiduciosa dei raccoglitori appartenuti a una sua zia, contenenti foglietti gettati dai finestrini del treno da soldati italiani che verso la fine della seconda guerra mondiale, passavano per Marghera su treni blindati, diretti in Germania. Quei foglietti contenevano indirizzi e brevi messaggi per le famiglie. Questa signora pensava che li avessero scritti ebrei deportati nei campi di concentramento, mentre io ho scoperto, leggendo attentamente, che si trattava di giovani soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi a Pola. La zia di quella signora non si limitò a raccogliere da terra quei foglietti, sparsi lungo le rotaie del treno, ma li spedì alle madri di quei soldati e con alcune di loro tenne per anni relazioni epistolari.
Alcuni mesi dopo, parlando di questo episodio con un’amica di Firenze, nata e vissuta a Pola fino al periodo dell’esodo, ho scoperto che effettivamente a Pola un battaglione di soldati italiani, arresosi spontaneamente ai pochi tedeschi rimasti, confidando in una resa onorevole, data anche la convinzione che la fine della guerra fosse imminente, fu fatto prigioniero e costretto a passare per la via principale di Pola fino al porto, dove sarebbe stato imbarcato. Vedendo quei soldati, così spaventati, umiliati, affamati, le donne della città si organizzarono rapidamente e decisero di dare loro bottiglie di acqua per il viaggio e di cucinare per tutti un pasto caldo, mentre altre presero carta e penna da dare ai soldati o per scrivere nomi, indirizzi e frasi che i soldati dettavano loro al volo per informare le famiglie. Probabilmente, ho pensato, quei soldati erano gli stessi che, passando per Marghera, avrebbero poi lanciato i foglietti dal treno, sperando che qualcuno li raccogliesse.
L’episodio mi è stato riportato non solo da questa amica, che nel ricordare sua mamma e sua nonna cucinare per i soldati insieme alle altre donne si è commossa profondamente, ma anche da altre. Credo che il gesto delle donne di Pola vada oltre la pietà materna e rappresenti un atto di riconoscimento tra donne che rimbalza nel tempo e nello spazio, al di sopra della guerra e della logica degli opposti schieramenti.
A conferma di questo, quando nel 1991 nella ex Yugoslavia è scoppiata la guerra, una mia zia di Trieste, che non aveva mai perdonato né dimenticato i fatti accaduti in Istria, mi raccontò che in quel periodo, nel vedere scendere da una vecchia corriera una madre slava che teneva per mano due bambini piccoli, si era rivista lei tanti anni prima, esule, scappata dalla propria terra, con i suoi due figli piccoli per mano, e si era commossa, pensando con amarezza: “Ma allora non è servito a niente!” Ho visto in questo racconto la capacità di una donna di vedersi nell’altra, nonostante le divisioni storiche e ideologiche, e penso che mia zia, provando pietà per quella madre slava, abbia ritrovato per un momento quell’equilibrio tra forze contrarie di cui parla Simone Weil. Una discendente, la gravità, che l’avrebbe indotta a un sentimento di rivalsa, e l’altra ascendente, vitale, che le ha fatto provare un sentimento di compassione.