Serena Sartori
È il 69. Porto Marghera, anzi Mestre in una stanzetta a lato della saletta incontri del Movimento, Silvana, Sonia e io, ci chiamavano le tre S, tutte e tre formose ed esuberanti, capelli lunghi e chiari vere compagne militanti… militanti? Stiamo dipingendo gli striscioni per la manifestazione del giorno dopo, vernice rossa e vernice nera da arrotondare con cura nei limiti degli slogan scritti a matita da uno di loro sulla tela bianca delle lenzuola portate da noi, …loro che nella stanza accanto stanno discutendo con grande foga le strategie e le tattiche i motivi e le ragioni, le ideologie e le verità che Lui aveva ancora una volta esposto con grande maestria. Siamo lì dal mattino dopo il volantinaggio delle 4 davanti al Petrolchimico. Stiamo giusto comunicando l’un l’altra la quantità dei palpeggiamenti subiti al volo dai compagni operai che più che il nostro ingenuo impegno apprezzano le nostre fresche forme rotonde.
Avremmo voluto partecipare, capire, essere in qualche modo parte di questo subbuglio confuso che ci aveva scaraventato in un fiume impetuoso di attività, impegni, riunioni, assemblee, manifestazioni, collettivi, occupazioni di cui continuavamo ad aver private e silenziose perplessità…
Ma oggi sembra essere un appuntamento particolarmente importante.
Di là è arrivato il maestro, la sua voce inconfondibile, sta chiarendo la linea da seguire per le manifestazioni di domani, una voce perentoria, decisa e sicura, una voce di docente, sta spiegando con cura… qualcosa che riguarda la questione Internazionale. Ascoltarlo è ogni volta una suggestione ma ogni volta non posso fare a meno di notare le enormi contraddizioni tra i motivi teorici che ci vedono da più di un anno fare politica assieme e il comportamento relazionale che mi provoca il disagio di sempre, vivo una differenza a cui ancora non so dare nome.
Ci hanno detto che dovevamo dipingere gli striscioni, che il nostro impegno era molto apprezzato ma che il momento era delicato e che comunque il nostro ruolo era fondamentale anche in quell’attività apparentemente banale come dipingere striscioni (o trascrivere ta-ze-bao, o pulire la sede o tenere i verbali o fare il caffè e i panini…).
Ma quello è un giorno speciale, c’è il sole caldo in un autunno appena iniziato. Io nel mezzo Sonia alla mia destra e Silvana alla mia sinistra, parliamo fitto, ci raccontiamo i pettegolezzi dell’ultima ora, l’intrico di relazioni private e nascoste che attraversano i compagni e le compagne, malgrado la seriosità dei comportamenti ufficiali.
Condividiamo per la prima volta le nostre forti sensazioni, i desideri, le differenze, le grandi differenze da cui malgrado tutto e tutti, sentivamo provenire la forza… come un lampo di consapevolezza senza ritorno… che ci facciamo qui??? Le dita sporche di vernice nella stanza accanto come mia madre nella cucina con il sugo mentre dall’altra parte si discuteva del futuro dell’Arte nel dopoguerra… che ci facciamo qui?? Come ci riguarda tutto questo, dove siamo noi in tutto questo? Le poche volte che nelle assemblee ho provato timidamente a esprimere le mie idee sono stata zittita con perentorietà, lui poi non sopporta posizioni personalistiche né dubbi, c’è la rivoluzione da fare e poi operaiestudentiunitinellalotta è lo slogan che impedisce di uscire dalle categorie. E poi c’è Laura che invece c’è dall’altra parte, Laura che ci sbalordiva tutte con il suo linguaggio smodato, le sue bestemmie ogni tre parole, la sua gestualità mascolina ma soprattutto la sua bellicosa competitività col Maestro. E in qualche modo proprio Laura ci faceva sentire ancora più diverse.
E finalmente ci raccontiamo tutto questo, lo condividiamo senza la paura di sentirci poco opportune, ricordo la risata all’idea che poco a poco ci contaminava di piantare lì tutto, e seguire quella strada che poco a poco si stava delineando come la strada anche per noi, il nostro luogo nella generazione di ribelli che eravamo. E l’abbiamo fatto, d’impulso, abbiamo depositato pennelli e grembiuli a metà lavoro, siamo andate ridendo come matte a Venezia a fare una passeggiata continuando a condividere finalmente tutto quello che ci aveva allontanato, tutto quello che avremmo desiderato mettere in discussione e che non avevamo fatto sicure della loro risata beffarda o della loro indifferenza. O peggio sicure dell’accusa di essere “reazionarie”.
Qualche tempo dopo io a Milano, Silvana a Trieste e Sonia in Sicilia ci siamo perse.
Ma a loro debbo la gioia di quel momento che ha dato inizio a quella fase che dapprima ha avuto voce negli incontri di autocoscienza e riflettendomi negli scritti di Simone de Beauvoir dapprima e poi Luce Irigaray e poi Luisa Muraro e molte altre e poi riscontrandosi soprattutto nelle relazioni e nella pratica quotidiana con altre donne. Una dimensione che ha trovato poi finalmente espressione nel mio teatro con altre donne: Maria, Carlina , Angela, Iva, Renata… processi e modalità creative profondamente diverse, che sono diventati via via metodologie di approccio alla creazione. Nel Teatro ho sempre lavorato accanto anche a uomini, ma uomini che avevano scoperto la propria necessità di affrontare e confrontarsi con questa differenza. Non sarebbe stato possibile condividere cammini altrimenti.
E oggi dopo anni di pratica e di ricerca di un teatro che prenda la forza dal femminile ma non solo per donne, ci sono accanto a me anche giovani uomini di teatro che non hanno remore a riconoscere nella mia esperienza una fonte da cui attingere, che mi scrivono chiedendomi consigli, che considerano questa diversa modalità una ricchezza anche per loro. Per una forma espressiva che diventi per tutti.
Ho sentito il desiderio di raccontare dopo 37 anni questo mio particolare inizio dopo aver letto l’opuscolo di Toni Negri che parla della Differenza italiana (Nottetempo, Roma 2005).
Scettica sulla sua scoperta della filosofia della differenza mi chiedo da quale pratica, da quale esperienza provenga questo suo riconoscimento, sì perché a me pare che la caratteristica diversa di questa filosofia, da tutte le altre filosofie storiche a cui lui si riferisce, è che proviene innanzitutto dalla pratica, che riflette sulla pratica, cosa che non era richiesta a nessun filosofo precedentemente e che la si può veramente condividere solo praticandola.
Sento nel suo linguaggio una trappola pericolosa.
Se la filosofia della differenza è “pratica trasformatrice”, come lui stesso la definisce, la trasformazione che questa pratica mette in moto si riflette su ogni cosa e quindi anche sul linguaggio. Riecheggia nel suo opuscolo l’abilità del maestro di allora, di definire linee e ambiti in cui il teorico si nasconde dietro alla sua capacità di inquadrare, analizzare e sistematizzare.
Quasi a cavalcare l’opportunità che in un momento di grande crisi politica questa filosofia offre.
Forse questo scetticismo mi viene da quegli inizi, o forse per credere a questa conversione avrei voluto saper leggere dove si colloca l’uomo che scrive, dove è cominciato l’esodo.
Il suo esodo in questo autunno di 37 anni dopo.