Luisa Muraro
Molte che viviamo in questa società e siamo adulte da qualche decennio, in condizione di misurare i cambiamenti avvenuti nell’arco di trenta-quarant’anni, davanti alla realtà di oggi siamo prese da un sentimento di estrema ambivalenza che ci fa pensare quello che non si osa quasi dire e cioè che: tutto va meglio e tutto va peggio. Un vero paradosso.
Abbiamo cominciato a percepirlo, oscuramente, nel corso degli anni Ottanta, per il contrasto fra quello che risultava a noi, da una parte, e una certa lettura maschile che denunciava il deteriorarsi dei rapporti sociali e della situazione politica, dall’altra. In seguito il divario non ha fatto che crescere. Si è continuato a usare linguaggi differenti e a guardare le cose da punti di vista differenti, il che consentiva di andare avanti ignorandoci, la politica delle donne registrando cambiamenti positivi e opponendo una efficace resistenza alla spinte contrarie, gli osservatori della società registrando una emorragia di forze e idee a livello politico e culturale. Io e tante altre siamo andate avanti per la strada intrapresa di migliorare i rapporti tra donne e di cambiare quelli con gli uomini in un senso favorevole alla libertà femminile, non senza risultati. Anzi, con risultati tali che hanno fatto parlare di una vera e propria rivoluzione. Eravamo convinte che, prima o poi, questo aspetto positivo del cambiamento in corso sarebbe entrato nel quadro d’insieme e avrebbe contato positivamente. In particolare, ci aspettavamo che la politica delle donne, che si era mostrata vincente, avrebbe modificato le idee, le pratiche e i progetti di chi lottava contro il degradarsi della vita sociale e politica, e che saremmo diventate protagoniste nel difficile cambiamento che ha nome globalizzazione. Finora non è successo niente del genere. Il movimento no-global, per dirne uno, vedeva nelle donne, quando le vedeva, l’umanità muta e sfruttata, da liberare. Così come il sindacato fino a ieri ha visto nella femminilizzazione del lavoro, un fattore che indebolisce e svalorizza la classe lavoratrice. Intanto, però, il movimento no-global si è spento e i sindacati sono rimasti indietro rispetto all’organizzazione postfordista della produzione.
Siamo così arrivate al paradosso della presente situazione, donne che si lasciano alle spalle secoli di sottomissione all’uomo, di istruzione negata, di esclusione dalla vita pubblica, di assegnazione a un lavoro non scelto né pagato né altrimenti riconosciuto, di subordinazione materiale e spirituale al destino biologico. Tutto questo è finito o dietro a finire o destinato a finire, e non solo qui, sembra infatti che in ogni parte del mondo vi siano processi che vanno nella stessa direzione. Ma, messe naturalmente in conto le difficoltà, i ritardi e le incertezze di tanto cambiamento, tutto questo accade in una civiltà che perde colpi per quel che riguarda il diritto internazionale, la coesistenza pacifica dei popoli, la tenuta della democrazia, la forza contrattuale di quanti vivono del loro lavoro, la elementare qualità dei rapporti umani (c’è paura e diffidenza del prossimo, disprezzo per i più poveri…). E che, per giunta, non riesce ad affrontare efficacemente i nuovi e urgenti problemi che si affacciano, fra i quali la salute del pianeta Terra.
Del paradosso in questione faccio il punto di leva del mio discorso, ma devo introdurre qualche considerazione che può mitigare la sua enormità. Nelle epoche di passaggio, come questa che viviamo, bisogna sapere che coesistono cose fra loro molto contrastanti e che le cose possono apparire più contrastanti di quello che appariranno alla luce di sviluppi futuri che noi ignoriamo. Consideriamo, inoltre, che sul paradosso si riverbera la luce enigmatica dello statuto ontologico delle donne, che duemila e cinquecento anni di filosofia, restando all’Occidente, non hanno contribuito a chiarire. Chi sono le donne? Sono l’umanità o una sua parte? Che cosa cambia quando cambiano le donne, l’umanità o una sua parte? Come si passa dal femminile all’universale? Intendo, c’è una posizione femminile che include gli uomini senza riportarli nell’utero materno? Quello che le donne pensano, gli uomini lo possono assumere come pensiero per sé? Le domande si moltiplicano, tutte portano a una, sull’entità di ciò che accade quando accade direttamente e propriamente alle donne, in primis il fatto di esserlo: sono coinvolti anche gli uomini e non per finta, s’intende, non con la favoletta del femminile in lui e del maschile in lei? Oppure gli uomini vanno avanti con la loro storia, in cui le donne si sa che sono coinvolte e si lasciano coinvolgere, fin troppo?
Per anni abbiamo aspettato (la stessa parola usata sopra) che le nostre pratiche politiche e le nostre idee fossero prese in considerazione come una risposta ai problemi crescenti della politica tradizionale. Riconoscimenti e citazioni sono venuti, ma niente di più. Nessuno scambio produttivo, esclusa una minoranza di uomini che però si distaccano dai loro simili quasi quanto noi, se non di più. Recentemente, dopo la disfatta elettorale della sinistra, molti tra i politici sconfitti si sono dati a un attivismo che ripete i vecchi schemi, ma non tutti, alcuni si sono messi a dire: gli errori sono questi, ecc., ora bisogna fare questo, pensare quello, ecc., ma neanche questi si sono voltati dalla parte del femminismo per dire: come hanno fatto loro, il cui movimento è cominciato nel Sessantotto, ad andare avanti, a ottenere risultati e, soprattutto, a indovinare il senso di certe mutazioni (il trionfo della soggettività, la superiorità delle relazioni sulle organizzazioni, il valore della lingua e del simbolico nella produzione)? Devo dire che una svolta di questo tipo, io l’aspettavo … ecco di nuovo questa parola!
La sottolineo perché ci aiuta a fare il passo successivo, che è di renderci conto che la cosiddetta politica delle donne ha lasciato all’impegno degli uomini qualcosa che una politica, comunque intesa, non può mai delegare. Di che cosa si tratti, comincio a dirlo così come l’ho capito recentemente e l’ho discusso con altre e altri, in vista di questo numero della rivista.
Chi si impegna a cambiare in meglio la sua condizione insieme a quella dei suoi e delle sue simili, chi ha voglia di esistere per sé e per gli altri, le altre, chi non vuole chiudersi nel suo “particolare” ma arricchirsi simbolicamente nello scambio, chi si sente parte dell’umanità, quella prossima e quella lontana, in una parola chi ama la politica, non può ignorare che l’agire libero e creativo, in ogni campo, si afferma a spese della logica del potere, che è logica dei rapporti di forza, del dominio, del conformismo, della sopraffazione o della competizione, più o meno regolata, con schieramenti, contrapposizioni, identificazioni e appartenenze.
E viceversa, naturalmente: la logica del potere si afferma a spese dell’agire libero e creativo, in ogni campo e in primo luogo nella politica.
Questa reciproca escludenza, che non ha niente di automatico nè di logico, è la tensione immanente all’esistenza umana con la sua connaturata e mai assicurata libertà. Per cui il loro rapporto è questo: la politica non può ignorare la pressione del potere né legarsi ad esso. Voler fare del potere lo strumento della politica, da una parte, e tenerlo a una distanza di sicurezza, dall’altra, è ugualmente sbagliato. Ma per ragioni fra loro diverse.
Quanto alla prima posizione, una vera e propria illusione, non vi insegno niente di nuovo dicendo che, di fatto, avviene ed è sempre avvenuto che il potere, da mezzo che doveva essere, diventa rapidamente il padrone della politica e degli uomini che ad essa si sono dedicati, dei quali infatti si dice, quando hanno successo, che sono “uomini di potere” e nient’altro. Quelli che ricordiamo come politici e meritano questo nome, sono quelli che gli hanno tenuto testa e hanno ottenuto dei risultati contro e indipendentemente da esso. Vero è che, in proposito, non sempre ci si esprime con la necessaria precisione (tornerò su questo punto).
La questione che, invece, domanda di essere discussa da noi su questa rivista, si trova sull’altro versante e riguarda la distanza di sicurezza dal potere, dai suoi apparati e dalla sua logica.
Io non vengo qui a negare che sia possibile tenere una simile distanza. Sembra che ciò sia molto difficile agli uomini, ma non lo è per le donne. Lo dico con forza, sulla base di una lunga esperienza, a lungo e accuratamente analizzata. E lo dico in polemica con una veduta che si vende molto bene sul mercato delle idee, secondo cui il potere sarebbe così pervasivo da essere onnipresente. Il problema non è questo, anzi: questa bisogna toglierlo di mezzo come una veduta fuorviante per vedere il vero problema che noi abbiamo davanti. Ho incontrato troppe donne sedotte da pensieri e questioni che non le riguardavano veramente.
Il problema che riguarda noi su questa rivista, io sostengo, è l’evitamento del lavoro necessario per strappare politica viva ed efficace alla presa del potere che la trasforma in una specie di grande pretesto per il suo funzionamento. Evitiamo abitualmente riunioni, elezioni, discussioni, schieramenti e tutta una serie di rituali, come modi di agire in cui accade regolarmente, primo, che si perda di vista la sostanza dei problemi, e, secondo, che l’esperienza viva dei/delle partecipanti, insieme ai loro rapporti, sparisca dietro una maschera di convenienza. Non sono forse due buone ragioni per girare alla larga? Certamente, ma così facendo, senza volerlo, noi non esercitiamo la nostra competenza sui problemi in questione e, soprattutto, perdiamo l’occasione per dare prova ed esempio che si può affrontarli e, in caso, risolverli senza maschere, in rapporti diretti e sinceri con gli interessati, le due cose essendo strettamente congiunte fra loro.
Oggigiorno siamo sommersi da problemi male impostati, quindi destinati a nessuna soluzione o a cattive soluzioni, perché impostati unicamente in termini di valori precostituiti (ogni uno ha i suoi, ovviamente), di norme e di leggi, di maggioranze e di minoranze, di fronti che si contrappongono, di alleanze strumentali, di calcoli di potere e relativi compromessi. Si crede comunemente che questo sia la politica. Al contrario, questa è la politica fatta a pezzi dalla logica del potere, la cui somma preoccupazione è sempre di preservare sé stesso, ad ogni costo. Quelli sono i resti di una politica di cui nessuno e nessuna è riuscita a salvaguardare il senso costitutivo, sono frammenti di esperienze ed esigenze che non hanno avuto né il tempo né l’aiuto per essere degnamente ascoltate da persone attente e disinteressate, capaci di stare con gli altri in una relazione sincera e rispettosa. S’indovina ogni tanto la presenza di simili persone, come meteore nel cielo d’agosto, impossibile trattenerle.
Eppure noi, nel movimento delle donne, in questi decenni abbiamo imparato a curare la qualità delle relazioni, ad ascoltare, a interloquire, a leggere quello che capita in cielo e sulla terra, a non fare schieramenti, a cercare le parole e le altre mediazioni, ad avere fiducia nell’affacciarsi di qualche risposta buona per le parti in causa. Questa è politica, questa è cultura, questa è religione… non quei resti che si vendono al mercato massmediale, pieno di merce contraffatta.
Tutto vero, ma che così sia, non si può stabilirlo in astratto, senza misurarsi con i contesti che fanno nascere i problemi e con le persone che cercano le risposte. Che vuol dire, in pratica, che non si può stabilirlo senza esporsi, in caso, alla lotta per difendere la bontà di una procedura, l’efficacia di una soluzione, la qualità dell’informazione, la partecipazione allargata. Bisogna che un confronto ci sia, pubblico e leggibile, non cercato apposta in una logica di scontro, ma attuato quando ne va del senso delle cose e della libertà delle persone.
Non c’è niente come l’evitamento di questo confronto che impoverisca la pratica della separazione femminista e della relazione tra donne, facendole apparire, e in sostanza forse diventare, un ritrarsi dalla realtà, un consolarsi e un contentarsi. E qui mi viene in mente un esempio che farà ridere tanto è distante da noi, quello di Marta e Maria (nel vangelo di Luca), figure simboliche, rispettivamente, della vita attiva e contemplativa, questa seconda essendo considerata superiore alla prima, ma che, invece, offrono a Maestro Eckhart l’occasione per un clamoroso rovesciamento: Marta è superiore, dice, perché “Marta era così essenziale, che la sua attività non la ostacolava”. E io intendo che: 1° nessuna condizione può essere assolutizzata come buona, 2° una buona pratica di vita non ci separa da niente e da nessuno, 3° il distacco rende liberi essendo interiore e simbolico.
Su Leggendaria 69 (estate 2008) anche Anna Maria Crispino s’interroga sulla distanza, a proposito di uno stare “troppo fuori” o “troppo dentro” (a quel tipo di cose che agitano la sinistra, per esempio). E mi fa pensare che, sotto questo problema di una misura che non si trova, troppo per un verso e troppo per l’altro, possa esservi un inciampo. E cioè? che quando si arriva in vicinanza alla misura giusta, subentra una confusione che offusca e indebolisce.
Racconto una storia che altre conoscono, la stessa o una simile. C’era una femminista dotata per la vita attiva, una vera Marta, che aveva il suo gruppo e una carica nel governo locale. Si trovò ad affrontare la rivolta di un intero quartiere contro un campo di nomadi, convocò la popolazione e fece parlare i più arrabbiati con i più saggi, i più spaventati con i più ragionevoli, gli egoisti e i generosi, donne e uomini. Era brava e la candidarono in una lista delle politiche, fu eletta e andò a Roma. Ma l’avevano messa in lista perché tirava su voti, non per quello che sapeva fare e aveva da dire, e lei non riuscì né a fare né a dire, anzi, quella volta che l’abbiamo invitata (lei non veniva a trovarci), a noi sembrò che avesse perso anche la normale capacità di leggere i fatti.
La confusione che offusca e indebolisce, io qui sostengo, è tra politica e potere, e si crea quando si arriva, per così dire, alla distanza giusta, là dove la cosa da fare sarebbe contendere alla logica del potere i gesti e le parole della politica capace di dare senso alle cose e, se necessario, di cambiare il mondo, in piccolo o in grande. Invece del contendere (ma non sono affatto sicura che questa sia la parola esatta), c’è un arrabattarsi, un andare a tentoni, un tentare compromessi e un sostanziale adattarsi la cui unica alternativa finisce per essere quella di andarsene.
Quelli che dicono “bisogna sporcarsi le mani”, hanno la stessa confusione in testa. Tra politica e potere è inevitabile che vi sia una commistione reale, io credo, per più ragioni fra le quali la più forte è quella che sappiamo, l’appetito onnivoro del potere. Ma è altrettanto necessario combatterla, sapendo che c’è politica quando si è mandata indietro l’invadenza del potere, in qualche modo, non importa quale, purché sia senza cedere né concedere alla sua logica.
Pur essendo questo un tema per me nuovo sul quale ho un’esperienza non piccola ma scarsamente esplorata con la riflessione personale e condivisa, so con certezza che la prima cosa da fare è la chiarezza mentale dentro alla propria testa. Faccio un esempio che mi riguarda. Raccontavo lo scambio (insoddisfacente) avuto con la caporedattrice di una casa editrice che sta perdendo l’anima (a mio giudizio): è stata gentile, dicevo, mi ha dedicato del tempo, ma non ha dato risposte significative, è rimasta sul generico, non reagiva agli argomenti, insomma io ho sentito che “lei non aveva il potere di decidere”. No! Le ultime parole riflettono la confusione che dicevo; quello che intendevo e che dovevo dire era un’altra cosa, che la mia interlocutrice mancava di passione, forse di anche di competenza, sicuramente di coinvolgimento, in un lavoro che domanda queste qualità. Il potere c’entra, sì, ma in seconda battuta, nel senso che, laddove mancano energia pensante e voglia di esserci, esso subentra ipso facto.
Questo esempio mostra come la chiarezza mentale, che è sempre anche una questione di linguaggio, sia indispensabile per leggere i fatti come anche per non trovarsi, senza volerlo, a favorire l’invadenza reale del potere. Le due cose sono strettamente collegate e mi suggeriscono un pensiero ulteriore, circa la tendenza a esagerare il potere del potere. Lo facciamo per paura, seduzione, servilismo, sentimenti coperti spesso dal moralismo e complicati da reazioni difensive, ma non c’è dubbio che questo fondo torbido del nostro animo può decantarsi con un lavoro del pensiero e del linguaggio sulla nostra esperienza intorno a questo tema, a partire dal paradosso di vivere in un mondo che per tanti, troppi aspetti sembra all’oscuro della mia e vostra libertà.