Marina Ugolini
Come arrivando da un altro pianeta, sono arrivata alla Libreria delle donne. Donna, anch’io, sì, ma, incredibilmente, vissuta in un mondo in cui il pensiero femminile delle altre non era riuscito a raggiungermi, non il pensiero delle singole donne, ma quel pensiero che può definirsi cultura femminile, quel tentativo di costruire una tradizione e una storia al femminile.
Ora che sono arrivata qui, alla Libreria delle donne, mi capita di leggere Via Dogana, e quel pensiero su VD c’è, e ora ho l’occasione e il piacere di ascoltarlo e di sentirmi meno sola, di sentirmi un po’ meno un extraterrestre o un Don Chisciotte rispetto al mondo che mi circonda.
Nell’ultimo numero di VD, l’ottantotto, leggendo, mi è accaduto di cogliere un filo rosso, un filo che collega molti dei testi. Con un’acrobazia del pensiero mi è venuto da fare un collage, e prendendo i titoli di alcuni articoli, frammenti di testi e pensieri, questo filo rosso ha preso consistenza, almeno nella mia mente. Provo a suggerire, a voi, la stessa acrobazia proponendo il collage: “Le donne c’entrano quando mettono i piedi nel piatto e quando danno i nomi alle cose secondo verità, quando, come Maria Grazia Fontana, la chirurga, entrando nel mondo e nei ruoli tradizionalmente maschili hanno il coraggio di portare la differenza del loro sentire.”
Ma quale differenza?
A me sembra che queste donne, di cui leggo i testi su VD, quando fanno qualcosa nel mondo, lo facciano tutte “intere”, che si lascino contaminare, esse lasciano che i loro diversi ruoli si contaminino nel costruire il loro “sentire”. Nel loro agire si portano dietro la competenza professionale, l’affettività, l’emotività, il ricordo del dolore e il ricordo della gioia, il ruolo professionale e quello familiare e quello sentimentale, i loro desideri, insomma tutto il loro essere.
Questo le rende diverse da molti uomini, ma anche da alcune donne. Questo permette loro di vedere e sentire il mondo per quello che è e di non lasciarsi trascinare dai deliri che sorgono laddove si lasciano fuori parti di sé.
[…]
lettera n. 4.
Milano è COME L’ombra
di Bianca Bottero
Mi piacerebbe aggiungere qualcosa sul film Come l’ombra, di cui si è parlato nel numero scorso di Via Dogana. Spiegare, se pur con parole del tutto inesperte del lessico critico professionale, perché mi ha così emozionato.
Sono tre le protagoniste del film di Marina Spada: le due giovani donne e la città entro cui esse si muovono secondo piccoli rituali quotidiani, secondo gestualità tanto in apparenza comuni quanto potentemente simboliche. La connessione è materiale, precisa e non perché ci sia accoglienza urbana, tutt’altro. La città funziona piuttosto come un serial killer, come una presenza minacciosa per le due giovani donne: la bruna impiegata, indurita da una vita poco appagata, ansiosa di relazioni e di amore ma chiusa in difesa, la bionda immigrata, l’agnello sacrificale che, malgrado le prove tremende che si intuisce ha passato, trasmette ancora intorno a sé il profumo, i colori del paese da cui proviene. Tutte e due sbattono contro pareti di vetro, di cemento che le escludono, le rigettano verso uno spazio urbano ostile, che l’occhio implacabile del fotografo Gabriele Basilico celebra nella mostruosa bellezza di una Milano di periferie, semiperiferie, metropolitane cigolanti, cavalcavie e grattacieli.
Credo di aver percepito solo nel film La notte di Michelangelo Antonioni una così intrinseca connessione dello spazio urbano milanese con l’agire e il sentire dei personaggi, una così assoluta necessità delle sue immagini allo svolgersi della vicenda narrata. Ma, qui, forse, con un di meno di estetizzazione e con un di più di verità umana. Una verità fatta di gesti minimi, quasi priva di parole e che pure dà un senso compiuto, appagante alla profonda corrente di empatia che si determina tra le due giovani donne, allo sviluppo del loro rapporto di solidarietà, di inconsapevole difesa dalla città e dal mondo violento che essa nasconde.
Questa verità costituisce, mi pare, il più profondo messaggio che il film ci trasmette.