di Luisa Passerini
Anna
Bravo sapeva alternare, nella vita e nell’intellettualità,
l’irriverenza e il rispetto. Un necrologio convenzionale non le si
addice e non potrebbe trasmettere il senso della sua personalità.
Prendere avvio da frammenti di ricordi condivisi, che evochino le sue
attività in molte direzioni, le sarebbe forse stato più
gradito.
Asti, fine
anni Cinquanta: Anna e io facevamo parte di un piccolo gruppo che si
prefiggeva di unire studenti, operai e contadini. C’erano scioperi
nelle fabbriche della città, che Anna seguiva con partecipazione.
C’erano le serate con ex partigiani che raccontavano le loro storie
della Resistenza, bevendo vino e cenando con coniglio al civet nelle
campagne del Monferrato. Anna dialogava con loro, ma suonava anche la
chitarra e cantava con la sua bella voce profonda.
Erano
i canti partigiani
e le canzoni rivoluzionarie come Ay
Carmela o i
poemi di Georges Brassens. Per me, di poco più giovane, lei era un
modello di libertà e di una femminilità diversa, che contrastava
col grigiore della piccola città di provincia. La solidarietà tra
giovani donne, che con le mie amiche era forte ma seguiva le vie
tradizionali delle confidenze amorose e degli scambi scolastici, con
lei diventava ribellione esistenziale e politica.
Torino,
anni Sessanta: Anna lavorava sulla Resistenza, io sulle utopie di
Saint-Simon e Comte. Portavamo avanti quello che chiamavamo la
rivoluzione della vita quotidiana, intesa soprattutto come libertà
nei rapporti tra pari e presa di distanza dalla famiglia. Andammo a
Parigi, lei e io, a conoscere i Situazionisti. Vedemmo subito che tra
loro non c’erano ruoli di rilievo per le donne, mentre noi avevamo
una pratica di emancipazione sebbene non ancora una posizione
chiaramente femminista. A Parigi andavamo anche per fare ricerca.
Trascorremmo un lungo periodo compilando un catalogo dei periodici
dei fuorusciti antifascisti per una ricerca Cnr, alla Bibliothèque
Nationale e in varie biblioteche più piccole.
Negli
anni successivi, Anna partecipò con pieno trasporto al Sessantotto
torinese, al movimento operai-studenti che interveniva a Mirafiori
nel ’69, e in seguito si impegnò in Lotta Continua. Dopo la
politica della nuova sinistra, ci furono i femminismi, per lei e per
me da due angolature diverse nel quadro variegato del movimento delle
donne.
Alla fine
degli anni Settanta, la ricerca e la pratica didattica seminariale –
considerate come indisgiungibili – divennero centrali per molte e
molti ex militanti, tra cui Anna, che nell’ambito della storia
contemporanea portava contributi fortemente innovativi. Vedo nel suo
itinerario di ricerca e scrittura una valenza significativa non solo
per capire la sua figura, ma anche quella di più generazioni: dagli
studi sulla Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato alla storia
orale e sociale delle donne nel Novecento; dalle analisi del
fotoromanzo all’indagine sulla Shoah e i sopravvissuti –
altrettanti passaggi che riflettono lo sforzo di ingaggiarsi con la
memoria collettiva, conservando le differenze individuali. E ancora:
Anna ha esplorato altre tematiche, dato che i suoi scritti includono
lavori sulle donne nella sfera pubblica, riflessioni sulla propria
esperienza, rievocazioni del Sessantotto, quest’ultimo nella sua
duplice dimensione tra l’est e l’ovest dell’Europa. La
continuità nella tensione generata da questa molteplicità di
interessi risiede tra l’altro nel perseguire un’arte
dell’intervista non solo con i grandi come Primo Levi, ma anche con
tante e tanti protagonisti meno noti.
Questo
complesso
itinerario è il condensato di una storia sociale che si era aperta
alla storia della soggettività e delle emozioni, dando
progressivamente maggiore spazio ai temi del genere. Anna era
consapevole della distanza intellettuale e politica che aveva
percorso; dichiarava apertamente i limiti della sua originaria
visione della storia della Resistenza, che riteneva non
sufficientemente problematizzata, e che solo col tempo si era
tradotta in una riflessione storica più lucida e matura.
Un
posto a parte meritano le sue riflessioni sulla violenza e la
nonviolenza, che rappresentano l’esito di un cammino intellettuale
ed esistenziale di parecchi decenni. Partita dalla presa delle armi
nella lotta di liberazione, Anna è arrivata a una prospettiva «senza
armi». Ha insistito sul tema del «sangue risparmiato»,
raccogliendo esempi di donne e uomini che avevano agito in modo
coscientemente protettivo della vita, con la cura e la difesa dei
corpi e delle vite concrete. Gli episodi e le persone che ha studiato
hanno spesso il tratto dell’ironia, in forme di disobbedienza
civile che danno forza ai più deboli e irridono il nemico in tempi
di pace e in tempi di guerra. Ci lascia il retaggio di un’idea di
rivolta comprensiva degli aspetti umoristici e creativi che
costituiscono un asse portante della soggettività.
Un complesso itinerario di libri
Tra i libri di Anna Bravo, un ruolo cruciale è ricoperto da «La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato», edito per Laterza nel 2013. Sono storie di chi non ha permesso la deflagrazione dei conflitti o che ha praticato la pace: Mandela e Tutu, King e il Dalai Lama, Ibrahim Rugova o Gandhi. La produzione di Bravo si avvia con monografie importanti già dalla metà degli anni ’60: «La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato». La curatela di «Donne e uomini nelle guerre mondiali» (1991) e l’altra: «Intervista a Primo Levi, ex deportato» (2011). «In guerra senza armi» (1995); «Storia sociale delle donne» (2001); «La vita offesa» (2004); dello stesso anno è anche «Sopravvissuti»; «A colpi di cuore. Il Sessantotto» (2008).
(il manifesto, 10 dicembre 2019)