Alberto Leiss
“Donne e uomini in relazione possono operare uno spostamento che non significhi solo indignazione ma un moto di ripulsa sociale, un movimento di rispetto della differenza”. È la considerazione, e anche l’auspicio, finale dell’intervento di Letizia Paolozzi al convegno tenuto a Milano il 21 e 22 novembre scorsi sul tema della violenza maschile contro le donne.
Una iniziativa voluta dalla Casa delle donne maltrattate di Milano e da Maschileplurale proprio per mettere al centro la leva del cambiamento delle relazioni tra uomini e donne come chiave di volta di una battaglia efficace contro la violenza. “Le parole non bastano”, recitava il titolo. Ma si è chiarito subito che a non bastare sono le chiacchiere che si limitano alle promesse (magari non mantenute) e alla denuncia (facile). Mentre è decisivo il linguaggio parlato da una diversa esperienza e pratica politica.
In apertura, in due relazioni a quattro voci, Marisa Guarneri e Manuela Ulivi, della Casa, e Alessio Miceli e Marco Deriu, di Maschileplurale, hanno insistito molto sul fatto che questa leva può funzionare solo se agisce in un lavoro su di sé e di scambio con l’altro/altra capaci di ascolto reale, di riconoscimento di un “conflitto necessario”, della “irriducibilità femminile” e d’altra parte anche del “segreto dei legami d’amore” che sorreggono tra donne la ricerca di libertà. La spinta per una assunzione di responsabilità maschile viene dal “senso di giustizia” e anche dalla ricerca della “felicità” che può derivare dalla capacità di capire e vivere un dimensione nuova della libertà, nel privato e nel pubblico, misurata sulla liberazione delle donne.
Questo significa – per Miceli – fare un’operazione “politica” che va molto al di là dei pur necessari specialismi e delle risposte istituzionali “di servizio”. È il frutto di 3 anni di lavoro comune tra queste persone. E significa cogliere la dimensione strutturale, sistemica, della violenza maschile, e non solo rubricarla come una “patologia” individuale.
Una cosa interessante è stata che chi ha rappresentato al convegno una realtà istituzionale sottoposta a una più che esplicita vigilanza critica, ha accettato questo gioco non semplice: l’assessore alle politiche sociali del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino ha parlato di “assunzione continua di responsabilità” e dell’esigenza di un mutamento anche della “qualità delle relazioni tra uomini”, intanto per porre un argine – a partire dal ruolo della scuola, dello sport, della cultura – a quel linguaggio che disprezza il corpo femminile e che rischia di essere “l’alfabeto di un paese in cui si alimentano i peggiori comportamenti”.
E il magistrato Fabio Roia, da molti anni impegnato in una collaborazione con la Casa delle donne di Milano, ha confessato anche una personale stanchezza per la difficoltà di rendere davvero efficace l’azione della giustizia nel sostenere, con tempi, linguaggi, sensibilità adeguate, la difficile battaglia delle donne che vogliono affrancarsi dalle violenze subite. “Il nostro processo penale non è ancora sufficientemente intelligente”. E comunque la soluzione non verrà dalla repressione, dalla pur necessaria sanzione e condanna pubblica dei comportamenti violenti.
Prevenire, comprendere, farsi carico. Esigenze tornate anche nel racconto dell’antropologa Lucia Portis, che – sulla base di una ricerca impostata con lei da Massimo Michele Greco – ha parlato delle difficoltà, dell’impreparazione del personale infermieristico e medico che accoglie le donne maltrattate nei pronto soccorso degli ospedali. Dove spesso la vittima non vuole ammettere la verità, e chi ascolta non possiede gli strumenti per tentare un altro dialogo.
Il contesto, del resto, il teatro sociale in cui maturano le violenze maschili, è assai ampio: Fulvia Colombini, della Cgil regionale, ha per esempio parlato dell’aggravarsi delle condizioni di lavoro nella crisi: “Le donne non sono un soggetto debole, ma lo diventano quando spesso si trovano sole contro i ricatti padronali durante la maternità, o quando devono farsi carico dei problemi di chi sta male a casa”.
Il confronto è proseguito nella due giorni milanese con le testimonianze di chi ha alle spalle diverse esperienze di relazione politica tra uomini e donne. Beppe Pavan, del gruppo “Uomini in cammino”, che ha tra l’altro parlato del lavoro per aprire uno “sportello” rivolto ai maschi che cercano di venire a capo delle proprie pulsioni violente, e delle iniziative di formazione nelle scuole contro sessismo e omofobia. Destinate ai ragazzi, ma soprattutto ai loro genitori e agli insegnanti.
Adriana Sbrogiò e Marco Cazzaniga hanno raccontato dei 25 anni (anniversario nel 2013) di azione della associazione “Identità e differenza”, che ha organizzato ogni anno seminari a Asolo e a Torreglia come luoghi di incontro tra donne e uomini su tanti nodi della politica.
Ho ricordato nel mio intervento che proprio a partire da un ricco scambio a Asolo, nel 2006 fu scritto il testo “La violenza contro le donne ci riguarda. Prendiamo la parola come uomini”, firmato da alcuni di noi e poi sottoscritto da centinaia di altri uomini. Un fatto che contribuì alla nascita di Maschileplurale come associazione (il nome già connotava da tempo alcuni gruppi informali), e che aiutò un “salto simbolico” che oggi sta diventando senso comune: la violenza sulle donne è prima di tutto un problema di noi uomini.
Di tutti gli uomini, non solo di coloro che la esercitano. E qui – a mio parere – è maturo oggi un successivo “salto simbolico”. La violenza sessuale maschile contro le donne ha certamente una connotazione specifica, e come tale va affrontata. Me è il sintomo di una più generale dimensione di violenza politica, bellica, simbolica, che ha una matrice sessuata e che va riconosciuta, elaborata. Analizzata nelle sue componenti di aggressività, paura, rancore, incertezza rispetto al tramonto dei ruoli patriarcali causato proprio dalla rivoluzione femminile, e che oggi si riflettono anche in una generale crisi delle forme date del potere.
Gli uomini – dirà la sociologa Carmen Leccardi citando Kimmel – “si sentono privati del potere, ma pretendono di esercitarlo ancora sentendosene legittimati. Ecco il terreno per la violenza, che diventa la risposta tragica alle asimmetrie di potere”.
E non è certamente un caso che Aldo Bonomi, dopo aver insistito sull’importanza di sostenere e estendere le “comunità di cura” che si fanno carico di reagire al disagio e al rancore sociale originato dal vuoto tra “ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora”, abbia sentito il bisogno di confessare l’insufficienza del lavoro fatto dalla sua (e mia, nostra) generazione politica proprio sul tema della violenza, nel suo legame con il potere.
Il discorso – anche attraverso altre testimonianze (Eleonora Cirant e Sara Donzelli, Ico Gasparri, tra altri e altre) – è così tornato ancora sul ruolo maschile.
Forse – ha argomentato Stefano Ciccone in chiusura – la vecchia domanda rivolta da Freud al suo sesso, e rimasta allora senza risposta: “Che cosa vuole una donna?”, oggi è tempo di declinarla al maschile. Che cosa vogliono gli uomini, che cosa vogliamo? Restare attaccati a vecchi ruoli e privilegi è impossibile. Ma nemmeno – dice Ciccone – può bastare rifugiarsi in posizione secondaria dietro alla nuova soggettività femminile. O rassegnarsi al ruolo di “consulenti esperti della crisi maschile in Occidente”. Serve la capacità di mettere in parole e di agire una soggettività maschile che nel rifiuto del virilismo sappia trovare nuova autonomia e nuova libertà.