Libreria delle donne, 2 marzo 2013
di Maria Castiglioni
Potrei fare il mio intervento semplicemente riportando alcuni titoli di Via Dogana degli ultimi 10 anni:
L’Italia sottosopra (marzo 2009)
Caos post-patriarcale (dicembre 2009)
Si balla! (V.D. del giugno 2011)
Voglia di stravincere (marzo 2004)
Farsi giustizia (dicembre 2011)
Con tutta la forza necessaria (marzo 2012)
Lo spirito del momento (giugno 2003)
Sfera pubblica (giugno 2006)
Situazioni a rischio di politica (marzo 2011)
Contro la crisi della politica (marzo 2008)
La politica del simbolico (marzo 2001)
Passaggio in libertà (giugno 2005)
Passare a un altro ordine di rapporti (settembre 2003)
Lo svantaggio maschile (giugno 2007)
Parla con lui (dicembre 2006)
Cambiare l’immaginario del cambiamento (marzo 2010)
Lei dov’è? (giugno 2008)
Quelle che sanno esserci (marzo 2002)
Non starci per esserci (dicembre 2002)
La traduzione libera della differenza femminile (dicembre 2000)
Primum vivere (settembre 2010)
Un primo dato: sono aumentate le donne in parlamento (31%), alle regionali lombarde molto meno, il 16% (15 su 80) e abbiamo il parlamento più giovane d’Europa, con una età media di 48 anni.
Puntiamo lì lo sguardo? Sulla composizione di genere delle nostre aule?
Settimana scorsa Luisa – nella sua introduzione a cui mi ricollego – diceva: non mi interessa il sesso di chi viene eletto, mi interessa togliere il rosa al rosa (anche noi abbiamo da smacchiare qualcosa), mi interessa disfare la baracca, datemi delle dritte non per votare, ma per sapere dove guardare, cosa sperare.
Se quindi non guardiamo solo alla composizione di genere della Camera o del consiglio regionale, a cosa guardiamo?
Guardiamo innanzitutto cosa facciamo noi: a Bologna, lo scorso 2 febbraio, all’incontro dopo-Paestum Lea Melandri esortava a impegnarci sulle nostre pratiche, dove ‘è già politica’, per andare oltre, per intrecciarle con altre.
Anche Lia Cigarini, in un articolo di tre anni fa su V.D. (marzo 2010), affermava che «camminare con i passi e il tempo della pratica del partire da sé e delle relazioni tra donne rischia di ostacolare, senza volerlo, la fluidità e la varietà delle narrazioni e quindi l’aprirsi di nuovi orizzonti, nuovi anche per noi».
In questa tornata elettorale c’è stato qualcosa che assomiglia ad un ‘nuovo orizzonte’?
E che cosa è il ‘nuovo’ per noi?
Se concordiamo con una definizione che ne dava Lia Cigarini (V.D. marzo 2008) e cioè «la fine del monopolio maschile del simbolico e delle sue sontuose istituzioni», andiamo a vedere se e come si sta realizzando.
Cerco di articolarlo in quattro punti:
1) La fine del monopolio maschile del simbolico si è realizzata con l’implosione del sistema di rappresentanza dei partiti, favorito dall’avidità di una casta politica (dal CAF a Berlusconi) che non ha più creduto, lei per prima, nel valore delle istituzioni (e lo stesso si è verificato per l’avidità della componente finanziaria del mercato e la perdita di valore dell’economia reale). Si è così aperta nell’ultimo ventennio una voragine, politica ed economica, di cui l’attuale rischio di ingovernabilità è la più evidente manifestazione: non c’è più una proposta politica in grado di essere egemone e la perfida legge elettorale è l’espressione ex-post di questa disgregazione, non la causa.
Si è costituita una casta e una fortissima reazione anticasta: si registra un enorme discredito verso le istituzioni (solo Napolitano si salva un po’) e soprattutto verso i partiti: solo il 7% ne ha fiducia, ma votiamo per il 75%. Paradossi tutti italiani e/o difficoltà-impossibilità di andare oltre l’orizzonte dato?
2) La fine del monopolio maschile del simbolico si è quindi realizzata con la fine delle ‘grandi narrazioni’ e il ritorno ai contesti locali e ai soggetti.
La necessità – da parte del potere – di riacquistare credito è stata realizzata anche attraverso un’operazione di personalizzazione dei partiti, il c.d. ‘metterci la faccia’. La persona in carne ed ossa favorisce – più di quanto non facesse un simbolo e un’ideologia – l’identificazione di cui il potere ha sempre più bisogno, nella misura in cui il consenso diventa il surrogato di un senso ormai svuotato.
«Il sistema è un verminaio, un cadavere da cui l’anima della politica è esalata» (L. Muraro, Dio è violent, pag.24), Si tenta allora un’improbabile ‘operazione Lazzaro’, avvicinandolo alla persona comune: la rappresentanza si deve così sbilanciare verso l’autorappresentazione (con l’effetto comico di un Monti a cui si dà in braccio un cagnolino perché sembri più umano, meno robotico…).
3) La fine del monopolio maschile del simbolico ha poi rapidamente trasformato alcuni personaggi in leader, leader ai quali molti si sono aggrappati come naufraghi: l’ennesima riprova che questa deriva istituzionale è sentimento ormai diffusissimo. Anche il segretario del PD lombardo, Maurizio Martina, ha interpretato in questo senso il voto per Maroni, definendolo un ‘voto rassicurante’ (ma quello per Ambrosoli sarebbe stato ‘inquietante’?!).
Occorre allora aprire una riflessione senza preconcetti sulla figura del leader.
Siamo solitamente inclini a vedere nel leader (e noi donne siamo giustamente refrattarie a questa figura) l’incarnazione di ogni peggior istinto, in quanto rappresentante di quel dispositivo simbolico che coagula il populismo, definito da Hannah Arendt come «quel delizioso accordo da cui nascono tutte le guerre».
Felice il popolo che non ha bisogno di eroi – diceva Brecht – ma, introduco un distinguo, un conto sono i leader, altro i maestri. E di maestri/e, di persone che criticano e interpretano la realtà e ce ne restituiscono un senso possibile, per donne e uomini, ne avremo sempre bisogno. È un bisogno simbolico e affettivo insieme.
E occorre dare ragione di questo bisogno di senso, di salvezza, di affidarsi a, di legame con gli altri, di interdipendenza, di appartenenza: tocca corde molto profonde.
Ci sono ‘effetti di carisma’ che riempiono le piazze, e dove non sono rintracciabili, come scrive Barbara Spinelli (Repubblica, 27/2/2913) solo ‘furia e raptus’. E, aggiunge: «nel voto a Grillo c’è una vera e propria esplosione partecipativa, una presa di parola… non intende annientare lo Stato, ma farsi Stato».
Si può assistere a un comizio anche per imparare, senza urlare e senza spellarsi le mani, mantenendo i propri confini, senza annegare nella massa: dagli spettacoli di Grillo ho sempre imparato molto. Il suo non è solo un appello a fare massa (semmai ‘massa critica’), l’ho sentito evocare conoscenza e responsabilità personale: lo definirei un leader ‘transizionale’:
4) La fine del monopolio maschile del simbolico e le pratiche in atto nel Movimento 5 Stelle. Silvia Motta sabato scorso ha evocato il clima del ’68 per connotare l’atmosfera di un comizio grillino.
Tutti/e avvertiamo che è già in corso un ‘effetto di clima’, e questo dice della potenza (che non ha bisogno del potere) di un movimento. Questa eco è presente nella rivendicazione della democrazia orizzontale (non ‘partecipata’, cavallo di battaglia ad es. della giunta Pisapia), del referendum senza quorum, della rete come dispositivo di democrazia diretta: una testa un voto (ma la ‘parola’ di Grillo vale ben più del voto che gli spetta – e qui ritorniamo al punto 3).
Riassumendo: siamo quindi in presenza di una fortissima tensione tra gli istituti della democrazia rappresentativa e la pressione verso l’autorappresentazione e la libertà.
Questo è un voto che bolle, perché ha una doppia valenza: è antisistema, ma non eversivo, esprime il desiderio di un cambio di sistema – di cui intende forzare i contorni – ma fino a che punto vorrà e potrà farlo?
La generazione tra i 25 e i 40 anni è la maggioranza elettorale di Grillo. Cresciuta a pane e democrazia, non ha alle spalle le grandi narrazioni che ha avuto la mia generazione: rappresenta la lost generation che Monti (e gli altri prima di lui) ha lasciato indietro.
Esprime sia la carica soggettiva, la singolarità (“non ci sacrifichiamo più per l’istituzione, che si è fatta casta, per il mercato che si è fatto rapina, vogliamo la nostra parte”, per questo suscita fantasmi di irresponsabilità e ingovernabilità), sia il desiderio di mantenere un orizzonte democratico (l’omaggio di Grillo a Napolitano) introducendo però una fortissima tensione tra le pratiche istituite – la c.d. governance – e le pratiche istituenti (v. la distinzione di Toni Negri suggeritami da Chiara Zamboni).
Le pratiche istituenti mettono in circolo maggiormente la soggettività, la responsabilità e il desiderio individuale più di quanto non facciano quelle istituite: «Mi riprendo l’intera disponibilità di me e della mia forza» (L. Muraro, op. cit., pag. 19).
Nella tattica del voto provvedimento per provvedimento, dell’alleanza su singole leggi vedo una dinamica – dagli effetti imprevedibili – che cerca di avvicinare le istituzioni alla vita.
Anche Roberto Andò, regista di W la libertà, ha inteso dire che la passione, la vita si sono allontanate dalla politica. E queste non sono una grandezza costante, ma innanzitutto ‘un respiro’ (L. Irigaray).
Chiara Zamboni nel suo intervento alla Scuola estiva della Differenza (in Quale felicità: dal PIL al BIL – donne lavoro benessere, pag. 214) cita Antonietta Potente, una teologa domenicana, che usa la metafora della ‘pentola che bolle’ per descrivere la realtà presente.
Sappiamo che nessuna donna resiste alla curiosità di vedere che cosa bolle in pentola…
Ma oltre a vederla occorre raccontarla, questa pentola, perché «siamo noi che raccontiamo la realtà, con il nostro linguaggio, con i salti inventivi del simbolico» (ibidem).
È uno scossone anche per noi, per accelerare quell’incrocio di pratiche di cui parlava Lea Melandri a Bologna, per trovare quel pensiero frontaliero, di confine, di soglia, di cui Lia Cigarini ha denunciato la mancanza nella campagna elettorale.
Produrre pensiero e pratiche, un invito a moltiplicare le Agorà: del lavoro, della salute, del diritto, della scuola, della ricerca, della sicurezza, della comunicazione, della cultura, dell’arte per ripensare e ridefinire i sistemi che reggono l’impianto della società, su cui si regge il patto sociale.
Luisa Muraro citava l’agenzia Reuter e il suo avvertimento: qualunque sia l’esito delle elezioni, Roma brucerà.
Invece bolle!
«Marzo, mese di attesa: le cose che ignoriamo… sono già in cammino» (Emily Dickinson)