21 Aprile 2013

Rosemarie, la sfacciata


Il Museion di Bolzano omaggia Rosemarie Trockel con una mostra che ne racconta la complessa personalità. Un percorso sapientemente allestito in cui emerge il piacere di mettersi in gioco. E di mettere in questione l’arte stessa. Dalle sculture escatologiche e barocche ai collages e le installazioni irriverenti. Fino a smentire l’idea dell’ “arte di genere”. Con i celebri lavori a maglia che diventano opere classicamente moderniste [A.P.]

MOSTRA DAL 02/02/13 al 01/05/13

In che cosa può consistere il “piacere sfacciato” per un artista di una certa età (61anni), tenace e precisa (c’è bisogno di dirlo?) come, secondo la vulgata comune, sanno essere gli artisti tedeschi? Un’artista che lavora da sola nel suo studio, senza assistenti, schiva al limite dello scontroso (non ama interviste né presentarsi alle inaugurazioni delle sue mostre), che voleva diventare biologa e che agli animali riserva tuttora un’attenzione particolare (si dice spesso che chi ama molto gli animali ami poco gli umani), tanto inventarsi, con Studio 45: House for Lous, il luogo ideale per i pidocchi: una parrucca. Un’artista discretamente cupa (basta notare la reiterata ossessione per l’immagine della cantina, la porta, le scale che portavano al regno dell’incubo infantile) ma anche inaspettatamente ironica? In che cosa consiste, dunque, “Il piacere sfacciato”, titolo della mostra (“Flagrant Delight”) di Rosemarie Trockel, attualmente di scena al Museion di Bolzano (a cura di Dirk Snauwaert, affiancato nella trasferta italiana da Letizia Ragaglia in collaborazione con la stessa Trockel)? Un piacere che, chiosa la direttrice di Museion, è più che altro «capriccioso, disinvoltamente sfrontato», che non ci si aspetterebbe da un artista del genere.

Ebbene, il piacere (e non è una semplificazione) è proprio quello dell’arte. Proprio di un’artista che, nonostante lunghi anni di carriera, attraversamenti di generi e di linguaggi complessi e articolati (la pittura, l’installazione, la ceramica, la scultura, il collage, il video), mantiene ancora quasi intatta non solo la spinta a sperimentare, ma anche a mettere in gioco tutto. Senza tabù, a cominciare da se stessa. Confrontandosi – attraverso la fluidità di quei linguaggi che interseca e una certa, eccentrica sensualità – con temi tosti, di dimensione apparentemente privata: l’arrogante mondo maschile e quello femminile, in realtà molto pubblico, se è vero, come dicevano le femministe negli anni in cui Trockel comincia a lavorare, che “il privato è politico”.
Ma stiamo all’aspetto più propriamente artistico, e dunque anche a un discorso di genere (il “lavoro al femminile”) con cui Trockel è stata parzialmente identificata: i lavori a maglia, quelli con i fornelli installati (accesi!) come grandi cerchi neo pop su basi monocrome e fissati al muro. Trockel non ricama, in questi lavori, tranne che in un caso, non lascia in vista fili, smarginature, il disordine di un ordito che evoca molto, ma afferma poco. No, lei i lavori a maglia li realizza al computer, ne fa grandi tele cromatiche minimaliste, che da lontano potrebbero essere scambiate per severe campiture realizzate da un Reinhardt o da Ryman: nero, grigio marrone, anche i colori concedono molto poco alla presunta fragile creatività che in genere si rintraccia nelle artiste.

La scelta di Rosemarie è di intervenire sui lavori a maglia con la tecnologia, in polemica (neanche troppo celata) con il primato maschile dell’arte, ed elevandoli alla ormai raggiunta classicità del Modernismo. Stesso approccio nei lavori con i fornelli, intervallati gli uni dagli altri con rigore minimalista, fino a farne evidenti “quadri” modernisti e con questo, direi, liquidare anche una certa idea di genere dell’arte.
Ma non basta. Queste opere apparentemente pittoriche sono in realtà delle installazioni messe a parete, con cui l’artista sovverte anche le tradizionali distinzioni (anche qui c’è di mezzo una questione di genere) tra pittura e installazione. Spiega Letizia Ragaglia: «Rosemarie Trockel affronta un discorso sulla pittura, riguardo un certo compiacimento verso questo linguaggio e su che cos’è la pittura, atteggiamento che si ritrova anche in alcuni suoi dipinti più recenti». All’apparenza sciatti (e non solo all’apparenza) realizzati con colori, ma anche con fluidi femminili. Opere quindi desacralizzate o, all’inverso, che consacrano questi fluidi. Così come, nobilitate, sono i “quadri” realizzati da alcune scimmie che «le pongono di nuovo serie domande sullo statuto della pittura e dell’artista», aggiunge Ragaglia. Non capricci, quindi, ma statement in cui emerge una schietta rivendicazione politica, della parte dove stare: l’insofferenza verso i linguaggi accreditati. Un’interrogazione quasi ontologica dell’arte, come del senso dello stare al mondo.

Ma poiché Rosemarie Trockel non ama le retrospettive, a parte qualche vecchio lavoro degli anni Ottanta, tra cui la versione di uno dei suoi temi ricorrenti, Keller (cantina), con le ragnatele che creano un ordito quasi fitto ma al contempo leggero, in mostra a Museion ci sono molti collages (la produzione più recente, realizzati, detto per inciso, non tradizionalmente con la colla, ma a secco e pinzati) che raccontano l’immaginario complesso, tetro e irriverente insieme, “sfacciato”, a volte al limite del cattivo gusto, come quando i collages sono decorati con striscioline argentate che li trasformano in cabinet de curiosités molto kitsch, di questa artista che si nutre programmaticamente del lavoro di altri artisti, così come di letteratura, cinema, filosofia. E molti dei suoi mentori compaiono nei collage.
Chissà se Francis Bacon apprezzerebbe l’essere rappresentato con un occhio solo alla Polifemo (ma potrebbe trattarsi del terzo occhio degli induisti, l’occhio della mente) e la cinta di un accappatoio di spugna a mo’di capelli, il tutto incorniciato da quei festosi lustrini argentati? E, a proposito di pittura e di quella un po’ pompier che ha celebrato e soprattutto usato l’attraente nudità del corpo femminile, ecco che in un collage compare L’Origine du monde, con una vistosa vedova nera che copre il pube. Mentre, in un altro collage che utilizza questa icona della pittura erotica, Raymond Pettibon presta il suo busto a quella parte del corpo che Courbet non dipinse.

E chissà anche come la prenderebbe Robert Smithson vedendo trasformata l’utopia sublime della sua Spyral Jetty in Spyral Betty: installazione luminosa che ritrae (alla maniera eccentrica di Trockel, ovviamente) l’apparato genitale femminile, opera peraltro entrata in collezione di Museion.
Ma non è che Rosemarie Trockel dileggi i suoi colleghi. Tutt’altro. I suoi punti fermi rimangono inalterati in Fontana in testa a tutti, che omaggia con alcuni lavori a maglia con tagli, Richard Hamilton, da cui deve aver preso un certo gusto per la composizione spiazzante dell’opera, Beuys, con cui condivide l’idea della metafora artistica, Gilbert & Gorge.
Ma poi Trockel va oltre. E si cimenta nella scultura realizzando delle ceramiche che incarnano un’escatologia barocca, dove l’idea del rifiuto organico si mischia a un’accesa e visionaria idea del corpo che, in una sintesi ardita, dichiara l’avversione verso il consumismo e i suoi rituali. Da qui, alle opere che raccontano il suo sguardo obliquo attraverso la condizione umana: altre sculture parziali di corpi, la “casa dei pidocchi”, immagini altrettanto parziali e apparentemente strampalate di altre porzioni di corpo che compaiono nei collages, si compie il percorso di questa artista complessa e irrituale che l’allestimento del Museion di Bolzano riesce sapientemente a mettere in scena.

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