dal18/05/2013 al 24/8/2013 GALLERIA CONTINUA / San Gimignano
ITALIA
Via del Castello 11
53037 San Gimignano MONA HATOUM – ‘A body of work’
NARI WARD – ‘Iris Hope Keeper’
MARGHERITA MORGANTIN – ‘2 – 495701’
Con una carriera che abbraccia un trentennio, Mona Hatoum è un’artista di primo piano nel
panorama artistico contemporaneo. Impostasi inizialmente all’attenzione del pubblico con
performance e opere video che facevano del corpo l’espressione di una realtà divisa, messa sotto assedio dal controllo politico e sociale, nel corso degli anni Novanta, l’artista si discosta progressivamente da questa forma di narrazione per concentrarsi su sculture e installazioni di grandi dimensioni. Protagonisti del nuovo linguaggio sono oggetti sottratti al quotidiano: sedie, letti, utensili domestici che, modificati o ingigantiti, reinterpretano la
realtà conosciuta riconsegnando allo spettatore un mondo diffidente, insidioso, ostile,
davanti al quale lo spaesamento e la vulnerabilità non lasciano spazio ad alcuna certezza. Il corpo resta un elemento centrale nel lavoro della Hatoum, la fragile unità di misura per
percepire l’individuo e la sua relazione con il mondo. Ciò che è familiare smette di esserlo,
ciò che ci aspettiamo viene sostituito da nuove associazioni visive e concettuali. L’artista
procede delineando un linguaggio proprio e duttile nel quale interagiscono più livelli:
formale, concettuale, politico.
In questa mostra Mona Hatoum rivisita alcuni temi diventati emblematici nella sua pratica
artistica. Accanto ad una serie di opere realizzate tra il 1996 e il 2010 l’artista presenta
alcuni recenti lavori inediti: mappature del mondo attraversate da segni e ricordi, oggetti
domestici che si trasformano in sculture inconsuete e inquietanti, ma anche fragili
composizioni fatte di materiali insoliti come la carta igienica, la pasta, le unghie e i capelli
umani, tracce leggere lasciate dal quotidiano esistere.
L’opera di Mona Hatoum è caratterizzata dalla capacità di trasmettere l’esperienza del
conflitto. L’installazione che apre il percorso espositivo, costituita da una serie di edifici
anonimi composti da blocchi modulari in acciaio, segnati da fori e bruciature, sembra
disegnare un paesaggio segnato dalla guerra, reminiscenza della Beirut città natale
dell’artista, ma anche città stilizzata in scala che anticipa, ironicamente, la sua futura
distruzione. Nell’opera intitolata “KAPANCIK”, un organo pulsante in vetro imprigionato in
una gabbia d’acciaio suggerisce i temi del controllo, della costrizione, dell’immobilità,
dell’isolamento.
Mona Hatoum prende di mira il luogo della domesticità e il concetto di casa in una nuova
installazione che riunisce una varietà di oggetti domestici – utensili da cucina e sedie – in ununa catena mortale; legati l’uno all’altro con ganci di metallo, gli oggetti pendono dal soffitto attraversati da una pericolosa corrente elettrica.
In altre opere come “Shift” “Mapping (2)”, “Des/astres”, Hatoum esplora l’idea della
mappatura per sviluppare complesse associazioni.
In Shift, un tappeto mostra un planisfero che, sormontato da anelli sismici gialli, è stato
scomposto e riallineato in modo che la sua integrità topografica ne risulta compromessa,
suggerendo che l’intero mondo è in una situazione di pericolo potenziale.
In “Mapping (2)” e “Des/astres”, i contorni delle macchie di grasso lasciate casualmente dal cibo su vassoini di carta, sono stati delicatamente delineati per creare armoniosi disegni automatici che suggeriscono formazioni di nubi o mappe celestiali, lontani dall’originaria funzione d’uso.
“Cappello per due” può essere definita un’acrobazia metaforico/visiva, un’opera legata
all’idea d’intimità ma anche di ambiguità e di convivenza forzata: due cappelli le cui falde si
congiungono diventando un tutt’uno sono la metafora di una condizione esistenziale
rassicurante e al tempo stesso soffocante.
A body of work è una mostra che mette in evidenza quando il lavoro di Mona Hatoum sia
legato alla vita, ma sia anche radicato in una coscienza del conflitto.
La mostra di Nari Ward. Il progetto espositivo si compone di un nutrito numero di nuove opere frutto della più recente ricerca dell’artista. Sculture e installazioni, appositamente concepite per gli spazi espostivi della galleria, intessono inedite trame narrative e creano un dialogo tra spettatore e oggetto mettendo in scena una sorta di coreografia delle memorie mutevoli e del presente che ne è un riflesso.
Iris Hope Keeper parte da storie, memorie e immaginari molto personali dell’artista – le vicende familiari e il rapporto mai interrotto con la sua terra natale, la Giamaica – per collegarsi poi a contesti e prospettive di una comunità molto più ampia, aprendosi inoltre ad una analisi sul senso di appartenenza e di identità. Ward tratteggia un ritratto intimo, ironico, profondo e sfaccettato della Giamaica. Da un lato la visione stereotipata di chi vive il sogno di una vacanza caraibica, dall’altra la realtà di un paese complesso, ricco di energia quanto di contraddizioni che basa il 70% della sua economia sul turismo e sul suo indotto: attività di servizi, intrattenimento e ricezione alberghiera.
L’artista lascia la Giamaica da bambino e con la madre si trasferisce in America. La storia di Nari Ward è quella di una famiglia di immigrati dove sofferenza, nostalgia e sacrificio sono il prezzo da pagare per assicurare alle generazioni future una vita migliore.
Il lavoro di Nari Ward supera ogni possibile lettura univoca muovendosi verso riflessioni che vanno al di là delle apparenze e il titolo di questa mostra ce lo conferma. Iris è un fiore, è l’iride dell’occhio,è la dea dell’Olimpo messaggera degli dei, il suo compito è annunciare agli uomini messaggi funesti ma Ward, che ama giocare con le parole trasformandone il significato, la accompagna a ‘custode di speranza’. Iris è il nome della madre dell’artista. A livello personale, Iris Hope Keeper è dunque anche un omaggio alla madre che, lavorando negli Stati Uniti come domestica (“House-keeper”), ha garantito ai figli il riscatto sociale.
Vecchie testiere delimitano la superfice di un letto impraticabile. Al suo interno un accumulo di radiatori e ventilatori funzionanti riproducono l’esperienza dei tropici, il vento e il caldo. “Jacuzzi Bed” è uno spazio chiuso che non lascia scampo, aggressivo ma allo stesso tempo invitante rappresenta il rapporto dicotomo tra giamaicani e turisti.
In “Iris Cutlass” asciugamani da hotel formano, come origami, i petali di un bellissimo fiore celando la struttura portante, fatta di machetes dalle lame pericolosamente affilate. Il machete, utilizzato per la raccolta della canna da zucchero nelle piantagioni e oggetto simbolo dello schiavismo coloniale, viene ricontestualizzato nell’ambiente alberghiero dove attualmente trova impiego buona parte della classe lavoratrice giamaicana.
La forma stondata della pietra tombale riecheggia nel dittico di porte foderate di cartoni di latte. Nel recto verso si legge: “Please Do Not Disturb” e “Please Make Room” (“Rifare spazio per cortesia”) variante sardonica e provocatoria dell’originare “Please Make Up the Room”.
Il potenziale poetico dell’oggetto di scarto inserito in nuove costruzioni di significato, non solo formale ma anche linguistico, lo ritroviamo in “Lemonade windows”. In inglese l’espressione “to buy a lemon” significa “prendere una fregatura, acquistare qualcosa che non funzionerà mai”. I due oggetti, svuotati della loro funzione originaria, mettono in atto un ribaltamento di significato trasformando l’idioma in qualcosa di positivo.Nella nuova serie fotografica “Sun Splashed” Nari Ward compare in scenari domestici differenti con
in mano delle piante da appartamento. L’artista indossa abiti da entertainer, gli stessi usati dallo zio musicista durante i suoi spettacoli. Trovo che queste immagini, siano al tempo stesso sgradevoli, umoristiche e nobili, commenta l’artista. Mi interessa fare riferimento alla tradizione dei ritratti antropologici dei primi del Novecento, umanizzando però il personaggio attraverso il disvelamentodell’immagine nel suo farsi. Il fatto che le piante siano innaffiate, e il personaggio bagnato, rendeanche più problematica la lettura di ciò che sta accadendo, non è chiaro chi controlla cosa.
L’entertainer è parte di una rappresentazione in cui lo spettatore è chiamato a prendere una posizione.
“BEYOND” (“Al di là”) è il titolo della grande installazione che occupa la platea della galleria: un pallone aerostatico realizzato con metallo di scarto. Lo spazio sopra la scultura è attivato da una serie di corde che, lasciate lasche, collegano il pallone al soffitto e alle balconate dell’ex cinema-teatro.
Alle corde sono appese delle bottiglie al cui interno l’artista inserisce un foglio su cui è scritto ‘BEYOND’ tradotto in centinaia di lingue diverse. L’uso dei contenitori di vetro si rifà al gesto poetico del “messaggio nella bottiglia”. L’intento è quello di realizzare una struttura non funzionale, e dall’aspetto verosimile, associata al desiderio di movimento, di superamento o, semplicemente, di comunicazione. Ad una lettura altrettanto stratifica e complessa si presta l’opera collocata sul palcoscenico. Qui una serie di scale giustapposte formano una “Wishing Arena”, una sorta di altissimo altare tempestato di candele votive poste dentro a cestini dei rifiuti (quelli che si trovano abitualmente nelle camere d’albergo). Cestini e candele sono collegate tra loro da una corda che
funge da ‘telefono senza fili’. Torna in quest’opera il tema della comunicazione, dell’ascesa, del dialogo con il proprio io interiore ma anche della scala sociale e del rapporto tra chi offre e chi riceve un servizio.
Appartenenza, emigrazione, distinzione tra nazionalità e nascita, identità (frantumata, frammentata e moltiplicata) sono alcuni dei concetti che convogliano in “Canned Smiles”. “Appartenere a un posto o a un altro è pura finzione… l’appartenenza è data dall’esperienza che si fa di un luogo, afferma l’artista. Le lattine del sorriso – Jamaican Smiles e Black Smiles – le prime “fatte in Giamaica e distribuite in Italia”, le seconde “fatte in America e distribuite in Italia”, costituiscono un dittico ad ampia tiratura. Quest’opera introduce i temi della commercializzazione, del confine labile che separa “il falso” “dall’originale” ma apre anche le porte a quella visione creativa che è propria di tutti
gli artisti, a Nari Ward come a Piero Manzoni, qui evidentemente citato con uno dei suoi lavori più noti.
Mostra personale di una tra le più interessanti e raffinate artiste italiane, Margherita Morgantin.
Sono diversi i mezzi espressivi ai quali ricorre l’artista: performance, video, disegno,
fotografia e installazione. Misurazioni, schemi, tentativi di fissare e interpretare l’esistente
attraverso leggi reali o parodiate danno vita nel lavoro di Margherita Morgantin ad un
linguaggio visivo in perenne mutazione. Nei video la narrazione prende forma nel
susseguirsi d’immagini rarefatte e frammentarie; nei disegni, eseguiti con tratti veloci, linee
sintetiche ed essenziali, l’aderenza tra forme interiori e soggetto si offre come strumento di lettura delle cose e della loro fragile interpretazione.
Gli studi di Margherita Morgantin prendono avvio da un approfondimento sui metodi di
previsione della luce naturale. A partire da questa formazione in fisica dell’atmosfera,
l’artista sviluppa una poetica intima e personale che tiene insieme mente e sentimenti,
visione artistica e influenza scientifica. L’interesse per il linguaggio e le sue possibili derive e relazioni è il motivo del suo cercare, la filosofia e la fisica le forme da cui partire.
Il progetto presentato in questa mostra, è il frutto di un lavoro portato avanti negli ultimi
anni che vede l’indagine sull’identità e sulla rappresentazione dell’io esprimersi attraverso
modelli matematici. “Nella visualizzazione della serie infinita dei numeri primi, un metodico
lavoro di calcolo e di trascrizione visiva iniziato nel 2011, Margherita Morgantin rintraccia il
fondamento inaugurale e ambivalente della definizione dei rapporti. Questa sequenza
numerica di numeri singolari, la cui successione non è prevedibile attraverso alcuna formula, inizia infatti dal due. Due è la cifra che identifica il sistema binario che ha governato l’evoluzione del logos in termini di complementarietà degli opposti, ma che può designare anche la costitutiva vocazione dialogica che dischiude la singolarità dell’uno solo nell’apertura all’altro, nella coesistenza di differenze irriducibili. Due non come somma di due unità, ma come “contrario di uno”, per usare una felice espressione di Erri De Luca, che instaura nel concatenarsi dei rapporti a due a due il senso stesso dell’esistenza” (Uliana Zanetti, in Autoritratti. Iscrizione del femminile nell’arte italiana contemporanea, Corraini Edizioni, Bologna 2013).
La successione dei numeri primi rappresenta fin dall’antica Grecia uno dei misteri più
affascinanti della scienza. Nell’universo razionale della matematica, i numeri primi, cioè
divisibili soltanto per se stessi e per 1, si susseguono con un ritmo inafferrabile,
apparentemente illogico; potrebbero essere definiti gli “atomi dell’aritmetica”, gli elementi di
base con cui si costruiscono tutti gli altri numeri naturali. Margherita Morgantin partendo da
un’idea, quella di guardare come si dispongono i numeri primi in una struttura geometrica
semplice, rappresenta la sequenza disegnando quadratini rossi in una griglia lato 100 x
infinito, spostando così sul piano visivo quello che resta un enigma per il ragionamento
matematico. Nell’opera “2-499979” attualmente in mostra al Mambo di Bologna, i 52disegni ad oggi realizzati dall’artista, portati a formato digitale, costruiscono un unico file
potenzialmente infinito dove la griglia scompare lasciando solo i quadratini rossi. Nel
progetto concepito per Galleria Continua, nello spazio dell’Arco dei Becci, interviene
collocando i disegni originali (pastello rosso e stampa digitale su carta) in forma di orizzonte ridisegnato dall’imprevedibile e misterioso ritmo di quadratini rossi, che ci interroga sul passaggio da 1 a 2: la prima somma che sostanzialmente non riconosce un’alterità, dichiara l’artista, ma che dovrà farne i conti all’infinito.