Su suggerimento di Fiorella Cagnoni, in un momento in cui si parla molto di felicità (proprio perché non c'è), proponiamo un testo di Luisa Muraro apparso nel volume Le passioni della politica. Atti del primo ciclo di incontri, Italianieuropei, Roma 2011, in origine una conferenza tenuta a Montecitorio, Sala del Mappamondo, il 24 marzo 2011, organizzata da Gianni Cuperlo per la fondazione Italianieuropei.
17 Maggio 2013
Le passioni della politica

L’intricato nodo tra felicità e politica

di Luisa Muraro

Chi si è dato alla politica per passione e non per calcolo, sa che la felicità può essere considerata una passione politica. C’è uno speciale tipo di felicità che si prova in politica, felicità vera e propria anche se diversa da quella, non frequente ma nota ai più, che dà l’amore ricambiato o da quella che dà l’estasi, di cui sappiamo quasi solo per vie indirette.

Non darò alcuna definizione della felicità, la cui idea mi pare inafferrabile più della felicità stessa, ma la parola esiste e poiché usandola c’intendiamo sufficientemente, possiamo fidarci di usarla. Si tenga conto, per inciso, che sono debitrice di una pratica di parola basata su uno scambio non codificato e senza fine, così come si usa nel movimento femminista che ha valorizzato una certa differenza femminile nell’uso della parola. Sullo sfondo del mio discorso c’è una formazione filosofica tradizionale, che ritengo buona ma in me rimasta sterile fino a che non si è incrociata con il femminismo della seconda ondata, quello che non mira tanto ai diritti delle donne ma presiede alla nascita di una libera soggettività femminile e quindi lavora molto sul piano simbolico (parole e relazioni).

È dunque innegabile, testimone l’esperienza, che l’impegno politico può dare felicità. Ciò non significa che vi sia un facile rapporto tra questa e quello. Non va da sé che la politica renda felici e ancor meno che una condizione felice favorisca l’impegno politico. Per quanto innegabile, quel rapporto è controverso e può capovolgersi nel suo contrario, ossia in una reciproca escludenza: si cerca la felicità evitando la politica e, viceversa, ci si dà alla politica senza pensiero della felicità propria o altrui.

Può capitare altro ancora. Quando ero giovane e vivevo con i miei genitori, in una famiglia numerosa, in un’epoca animata da conflitti politici, anche in casa scoppiavano accese discussioni. Ma mia madre non lo sopportava e ci imponeva di smettere o almeno di andare da un’altra parte. Diceva che la politica portava la discordia in famiglia. Mi sono convinta che la sua fosse una reazione a un senso di dolorosa impotenza. Non le mancava la passione politica, lo so per certo, ma quando questa si svegliava, forse insorgeva in lei un senso di frustrazione per non sapere come viverla, e quanto più forte era quella, tanto più doloroso era questo.

Un simile sentimento d’impotenza, devo dire che qualche volta assale anche me, che pure sono attivamente impegnata e che ho più strumenti di lei per agire; mi assale da dieci anni circa, da quando la politica sembra soccombere a poteri che esorbitano non solo la comune capacità di agire ma spesso anche quella di capire. In questo stato d’animo si percepisce, negativamente, di che natura sia la felicità che può dare la politica, quella di mettere in atto il proprio essere con le sue capacità di esserci, capire, agire.

 

La consapevolezza di un nodo intricato tra politica e felicità è antica. Pensiamo al ritorno nella caverna di cui parla Platone nel settimo libro della Repubblica, ritorno in cui è perfettamente riconoscibile un’allegoria dell’impegno politico (La Repubblica, VII, 516 e-521 b). Al prigioniero che era fuggito dalla caverna e che, libero dagli inganni e miserie di quel luogo, ha conosciuto la felicità della contemplazione del vero e del buono, a quest’uomo è chiesto di tornare fra i suoi antichi compagni di prigionia per condividere con loro il suo bene. Il filosofo (il prigioniero liberato) ritorna nella “caverna”, ma lo fa solo per dovere, lo fa perché persuaso da giusti argomenti, affinché gli altri, i suoi concittadini, non rimangano fuorviati da beni fasulli (il potere, la ricchezza, il piacere) e possano vivere una vita collettiva all’insegna della giustizia. Per questa sua dedizione al bene della polis, non si può parlare di passione politica. D’altra parte, secondo Platone, poco importa che il filosofo si dia alla politica senza averne il desiderio, anzi: uno Stato così governato lo è al meglio.

Cito e qualche volta rileggo Platone non per se stesso, intendiamoci, ma perché si tratta di una specie di grande, monumentale luogo comune della cultura occidentale. Ma, secondo me, tra l’autore della Repubblica e noi, tra la Grecia antica e la nostra civiltà, la distanza è invalicabile. Dal Rinascimento in poi si è voluto riannodare con la civiltà antica, per cui ci si compiace di parlare di radici greche, rischiando di perdere il giusto senso storico. La polemica contro chi voleva parlare per l’Europa anche di radici cristiane, mi ha lasciato molto perplessa: per certi aspetti, proprio queste ultime, le radici cristiane, consentono di riferirci a quelle greche senza confinarci nella cultura di una minoranza eletta.

Molto Platone arriva fino ai nostri giorni veicolato e filtrato dal cristianesimo. A me arriva attraverso Simone Weil. A New York, nell’ottobre del 1942 (Quaderno XV), la Weil scrive che ci sono domande che nessuno pone e che invece bisogna porre, come questa: perché desideri essere felice? Questa domanda, prosegue, bisogna porsela e rendersi conto che la felicità non è qualcosa che possiamo desiderare senza ragione, incondizionatamente, perché soltanto il bene va desiderato in questo modo («Il faut se [la] poser à soi-même, et se rendre compte, d’abord qu’on n’a aucune raison de désirer d’être heureux, puisque le bonheur n’est pas une chose qui soit à désirer sans raison, inconditionnellement; car le bien seul est à désirer ainsi»). E chiude con fulminea brevità: questo è fondamentalmente il pensiero di Platone («C’est le fond de la pensée de Platon»). (Oeuvres complètes VI, Cahier 4, Gallimard, Paris 2006, p. 214).

La filosofa francese è consapevole che questa sua bocciatura del desiderio di felicità per se stesso, è un pensiero “contrario alla natura”. Lo sostiene, tuttavia. Ne va, per lei, della nostra liberazione dalla cattura nel meccanismo sociale. Sono d’accordo con lei che il cieco desiderio di felicità, privo dell’orientamento del bene, può portarci fuori strada e farci cadere nelle trappole dei falsi assoluti. Ma ci sono buone ragioni per desiderare di essere felici; anzi, a certe condizioni (che dirò più avanti), il desiderio stesso di felicità è buono, tanto che io lo metterei fra quei “bisogni essenziali dell’anima” che la stessa Weil, di lì a poco, esporrà nel suo programma politico che in italiano conosciamo come La prima radice (L’enracinement).

 

Ci sono, nella storia del pensiero occidentale, tra noi e l’antichità, due passaggi per capire il nodo tra passione politica e ricerca della felicità, così come possiamo viverlo noi.

Il primo passaggio è costituito dalla rivoluzione cristiana. Mi riferisco, precisamente, a quel cambiamento, che si situa nei primissimi secoli del cristianesimo, per cui l’aspirazione alla vita perfetta che dà la vera felicità, secondo la dottrina filosofica antica, da ideale elitario per pochi, diventa una possibilità offerta a tutti. Il cristianesimo invita non tanto a essere migliori dentro i limiti della natura umana, ma ad essere perfetti: «Siate dunque perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste» (Matteo, 5, 48). Un impossibile a chiunque che viene offerto come un possibile a tutti. E come?

La leva di questa rivoluzione è nell’offerta fatta a tutti, ma veramente a tutti, di poter accedere al divino nella vita interiore: si tratta “di fare dell’interiorità il luogo universale e non eccezionale di incontro con il divino”, qualcosa che i filosofi (Seneca) di quell’epoca insegnavano in polemica con la religione superstiziosa del popolo e dello Stato (chiamate, rispettivamente, teologia favolosa e teologia civile), riservandola però a una minoranza eletta. La svolta fu percepita dai contemporanei. I cristiani, dicevano polemicamente i pagani, “avanzavano l’inaccettabile pretesa che una filosofia potesse travalicare i limiti delle élites” come se la libido philosophandi [l’amore e il piacere della filosofia] potesse “coinvolgere anche vecchiette, bambini e operai”. Così, più o meno, si esprime un personaggio di Minucio Felice (sto citando Marco Rizzi, in Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2002, p. 280 sgg.)

La felicità per tutti, una felicità non inferiore alla beatitudine degli dei, potrebbe essere la parola d’ordine di questa rivoluzione dei primissimi secoli cristiani.

Poi le cose sono cambiate, ma la mistica cristiana ha custodito e variamente sviluppato questa ispirazione. Segnalo la variante o una variante femminile.

La mistica cristiana femminile – generalmente meno letterata di quella maschile, per forza di cose – non riprende la lezione della mistica plotiniana (le Enneadi di Plotino sarebbero addirittura la bibbia della mistica cristiana, secondo Galvano della Volpe) di un’ascesa graduale all’unione con Dio attraverso una lunga e faticosa scala di perfezione. Nella mistica femminile la scala di perfezione è sostituita da altri passaggi, meno graduali, meno ordinati e, diciamo pure, meno volontaristici di quelli disegnati dai gran di maestri dello spirito. Fra gli esempi recenti, sec. XIX, penso a Thèrèse Martin, santa e dottora della Chiesa cattolica, che, parlando del suo desiderio di perfezione, costatata la sua pochezza rispetto all’eroismo dei grandi santi, cerca allora una strada sua. «Siamo in un secolo inventivo – scrive – oggi non vale più la pena di salire facendo le scale, nelle case dei ricchi le sostituisce ottimamente un ascensore. Anch’io vorrei trovare un ascensore per elevarmi fino a Gesù, perché sono troppo piccola per salire la dura scala della perfezione.» (Manoscritto C in Oeuvres Complètes, Cerf DDB, 1992, pp. 237). Ed è così che arriva a inventare la sua via alla perfezione, che non ha le caratteristiche di una scalata, tutto il contrario. Non è un caso che questa giovane donna, oltre a essere amata dalle persone spirituali, sia diventata ben presto popolarissima: in lei rivive qualcosa dell’antica rivoluzione cristiana.

Vale la pena notare per inciso che l’iperbole evangelica del Siate dunque perfetti, citata sopra, torna a presentarsi in una pensatrice laica dei nostri giorni, l’inglese Iris Murdoch (1919-1999): vi torna esplicitamente come fautrice di quell’orientamento al bene senza il quale, dicevo sopra, il desiderio di felicità si assolutizza e può pervertirci. Che cosa significa – si chiede nel saggio Su “Dio” e il “Bene” – l’imperativo “Siate dunque perfetti”? Non sarebbe stato più sensato dire “Siate dunque leggermente migliori”? (Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 347-348.) Qui devo interrompermi per riprendere il filo principale.

Il secondo passaggio tra l’antichità e noi in tema di politica e felicità, così come lo racconta la storia delle idee, si compie con la nascita della civiltà moderna, ad opera dell’empirismo inglese rincalzato dall’utilitarismo (Mi riferisco alla storia delle idee, senza escludere altri forse più significativi percorsi).

L’empirismo inglese, che si rifà alle correnti edonistiche del mondo antico (Scuola di Cirene), teorizza la felicità come somma o sistema dei piaceri, felicità individuale che per sua natura tende a irradiarsi nel sociale e che, d’altra parte, per la sua realizzazione non può fare a meno della società. Siamo nell’epoca tra il Sei e il Settecento in cui la nozione di società prende consistenza e s’impone estesamente al discorso politico e culturale, arrivando fino ai nostri giorni. La felicità diventa così un’idea ricorrente nel pensiero politico del mondo anglosassone e americano, ben più che nel continente europeo. Tutti sanno che nella Costituzione degli Usa, tra i diritti naturali e inalienabili dell’essere umano, è solennemente iscritta la ricerca della felicità.

Questo secondo passaggio ha segnato la fine dell’aspirazione alla beatitudine eterna predicata dal cristianesimo, diventata poco credibile e poco desiderabile.

Secondo Nicola Abbagnano, se non troviamo un pensiero della felicità nel discorso politico continentale, ciò si deve a Kant, che della felicità ha elaborato un concetto rigoroso collegandola al sommo bene (che è sintesi di felicità e virtù) e deducendone la possibilità solo nella sfera dell’intelligibile, nel “regno della grazia” (Dizionario di filosofia alla voce felicità).

Quello che non troviamo nel pensiero politico che aspira al rigore filosofico, forse si trova altrove. “Felicità” è una parola che ha una presa potente nella cultura diffusa e resiste a ogni critica, nei discorsi correnti così come nei sentimenti della comune umanità. Non si lascia nemmeno completamente banalizzare, vorrei aggiungere, ma di ciò non sono altrettanto certa, sotto l’assalto della pubblicità commerciale. La partita è in corso.

Ignoro se esistano ricerche sulla presenza del tema della felicità nei grandi movimenti sociali dei sec. XIX e XX, prevalentemente dominati dall’idea della giustizia e dell’uguaglianza, oggi riassunte nei diritti umani. Se anche ricerche non ci fossero o se queste non avessero documentato una presenza rilevante del tema della felicità, resterei convinta di questa presenza per più motivi.

Uno è che alla storiografia fa difetto l’attenzione per il risvolto emozionale e affettivo della storia e difettano di conseguenza anche i necessari strumenti storiografici. Lo ha segnalato recentemente Lynn Hunt, La storia culturale nell’età globale (ETS, Pisa 2010). Le persone (io stessa) che ai movimenti hanno partecipato, parlano talvolta di una loro esperienza di felicità. Da notare che, secondo queste testimonianze, in gran parte di donne a me risulta, la felicità non si presenta come meta e possesso stabile, e tantomeno come qualcosa cui si avrebbe diritto, ma come un sorprendente intensificarsi dell’esistenza, che può durare poco ma non è effimero perché dà una gioia che ha una forza rivelatrice. È come un colpo di felicità. Ciò che si scopre, quando si ha un colpo di felicità, è il positivo di ogni cosa che è, con la certezza di aver visto qualcosa di vero.

In un testo femminista del 1989 che s’intitola Un filo di felicità, della serie dei “Sottosopra” pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano, si parla di un avvenimento di natura simbolica (la presa di coscienza che permette di dire io senza con ciò escludere niente e nessuno) che ha delle conseguenze anche sensibili e osservabili. Tra queste, dice il testo, “dobbiamo mettere anche la vena di felicità che corre tra le donne” e spiega: la felicità ci viene dal senso che hanno preso le nostre vite per se stesse.

Al filone delle testimonianze politiche che non escludono i sentimenti soggettivi, appartiene la recente autobiografia di Luciana Castellina, La scoperta del mondo (Nottetempo, Roma 2011). Pare che qualcuno abbia suggerito per questo libro un altro titolo: “La felicità”. Ugualmente recente, già dentro al secolo XXI, è la testimonianza di una studentessa universitaria, Valeria Mercandino, che ha partecipato ai moti di protesta contro la riforma Gelmini e a un certo punto, facendo come una schivata rispetto alla discussione sulla violenza, scrive: «la cosa più interessante e più vera che penso sia accaduta è la sensazione (mia e di altre) di aver vissuto momenti di un’intensità tale da non voler più ‘tornare indietro’. La questione è di arrivare a comprendere come ‘vivere politicamente’ sia l’essenziale guadagno di vita» (in “Via Dogana” 96, marzo 2011, Situazioni a rischio di politica, p. 4).

Non voglio dire che agli uomini esperienze di questo tipo siano precluse, ma mi sembra che le considerino meno preziose, infatti ne parlano poco. 

D’altra parte, per i secoli XIX e XX, conosciamo e possiamo documentare la grande diffusione dei romanzi d’amore e sappiamo bene che l’amore è strettamente associato alla possibilità di essere felici, non nella versione prudente dell’evitamento dell’infelicità, ma in quella più viva e positiva di cercarla e di accrescerla.

Mi si potrebbe obiettare che questo è vero ma che non c’entra con il nostro discorso, poiché la letteratura romanzesca non ha in senso stretto, tolte alcune eccezioni, valenza politica. In effetti, la ricerca tipicamente femminile di felicità attraverso la lettura di romanzi, romanzetti, fotoromanzi e derivati televisivi, presenta le caratteristiche di un’evasione dal mondo reale e come tale non interseca la politica. Ma quest’apparente evasione, se diamo credito alla critica femminista, rivela due cose piuttosto importanti.

Primo, che la società borghese ha operato un’indebita mutilazione per cui i sentimenti amorosi vengono tagliati fuori dalla sfera pubblica e politica. Pensiamo, come contro esempio nella società nobiliare, al romanzo La Principessa di Clèves di Madame de la Fayette che è un romanzo d’amore e di politica, senza soluzione di continuità. E come esempio, a quel formidabile romanzo che è Middlemarch di George Eliot, in cui la reclusione tipicamente borghese delle donne nel privato soffoca i desideri femminili e inaridisce la società.

Secondo, che l’attaccamento femminile al tema dell’amore testimonia di un’idea di felicità non banalizzata. Idea che la politica, io dico, è chiamata a fare sua se non vuole soccombere alla razionalità del potere, ossia alla logica del più forte.

Dicendo che l’amore è strettamente associato alla possibilità di essere felici, ho pensato a Freud e a ciò che scrive sull’amore quale via della felicità nel celebre saggio su Il disagio della civiltà (Opere, Boringhieri, vol 10, pp. 553-630).

Questo saggio, che apparve nel 1929-1930, interessa da vicino il nostro tema. Nell’intenzione iniziale dell’autore, infatti, doveva portare nel titolo non “il disagio” ma “l’infelicità” della civiltà e possiamo effettivamente leggerlo come la storia della sconfitta sostanziale della passione politica della felicità. Sconfitta che porta l’autore a concludere con una interrogazione, venata di profondo pessimismo, sul destino della specie umana: se e fino a che punto l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini (p. 630).

Senza negare al libro la sua appartenenza alla riflessione freudiana, è impossibile sottrarsi all’impressione che esso rispecchi l’evoluzione della storia europea all’epoca, che era verso il peggio. A leggerlo, si ha il sentimento di una traiettoria che si sta esaurendo. Non c’è più posto per l’ottimismo delle filosofie politiche dell’Ottocento. Non c’è più posto per l’ottimismo sic et simpliciter. Man mano che la riflessione di Freud avanza, l’umanità si presenta come presa in un circolo vizioso, determinato dal fatto che l’evoluzione civile, che dovrebbe difenderci dalle pulsioni di morte, sembra essere portatrice a sua volta di difficoltà insormontabili, immanenti all’essenza stessa della civiltà. Insomma, agli occhi di Freud la civiltà funziona come una fonte d’infelicità, accanto alle fonti più note e naturali come la malattia e la morte.

I fatti sembrano dargli ragione. Ma è lecito chiedersi quanto il formarsi di questo circolo vizioso, per cui il rimedio (la civiltà) funziona come ulteriore causa del male, non sia un vizio che appartiene anche al discorso di Freud, nel qual caso si trova vanificata ogni possibilità di rompere il circolo vizioso. Voglio dire che, in questa storia della sconfitta della passione politica della felicità, se ci chiediamo chi o che cosa sia responsabile dell’esito negativo, troviamo che c’è anche l’autore con la sua totale assenza di passione politica, la stessa assenza che troviamo nel suo scambio di lettere con l’appassionato Einstein sul “perché la guerra”.

Questa certo involontaria complicità di Freud con i fatti che giustificano le conclusioni pessimistiche, mi pare trasparente nei passi in cui torna a interrogarsi sulla possibilità di trovare un accomodamento vantaggioso (tale di che dia felicità) tra le pretese individuali e quelle civili della collettività: «uno dei fatali problemi dell’umanità è se questo accomodamento sia raggiungibile in qualche particolare forma assunta dalla civiltà o se il conflitto sia irrisolvibile» (p. 586).

Il conflitto irrisolvibile tra le pretese individuali e le esigenze della convivenza si crea in assenza di un impegno politico degno di questo nome, io sostengo. Non che l’impegno politico lo risolva ma non lo lascia prendere corpo. Nelle testimonianze che abbiamo ascoltato, il fatidico mors tua vita mea non compare nemmeno all’orizzonte. Non si tratta, dunque, di trovare un accomodamento tra le pretese individuali e le esigenze collettive, ma di non arrivare mai al punto in cui una simile alternativa s’imponga. E si può non arrivarci, a certe condizioni la prima delle quali potrebbe essere che le relazioni intersoggettive non vengano fissate in forme rigide né isolate in istituzioni separate, ma lasciate al libero gioco dei rapporti, dei contesti e delle loro interazioni.

Risolvere i conflitti tra gli interessi individuali e quelli collettivi in una qualche “forma assunta dalla civiltà”, si è potuto fare, sì, ma troppo spesso, forse sempre, a spese di una parte dell’umanità, umanità intesa come gruppi di esseri umani ma anche come qualità delle persone. I capofamiglia delle società patriarcali erano uomini, sommato tutto, diminuiti. Si può invece prevenire la contrapposizione tra l’individuo e gli altri con il coinvolgimento dei soggetti nella forma di una contrattazione che è intima (tra sé e sé), tra due, tra molti, e che si sviluppa con la storia personale. Tale è l’impegno politico quando non si specializza in una professione né si assolutizza nella militanza, ma si propone alle persone come parte del loro stare al mondo e come arricchimento delle loro occupazioni.

A queste condizioni l’agire politico apre la strada a un rapporto positivo tra amore di sé e amore degli altri. Questo circolo virtuoso, quando s’istaura, diventa un criterio, forse il criterio principe, per discriminare tra politica, da una parte, e potere dall’altra, e uscire così dalla confusione di cui molti non sono nemmeno consapevoli: non vedono la lotta tra l’uno e l’altra, che pure è all’origine della politica.

Politica è contendere al potere e alla sua razionalità che è la prevalenza del più forte, le condizioni di una convivenza libera e pacifica per sé e per gli altri. Uno può anche trovarsi in un posto di potere e apparire chissà chi, ma resterà un uomo del potere e non sarà a nessun titolo un uomo politico se non sarà riuscito a strappargli un po’ di libertà e di felicità per tutti. Che è quello che tenta strenuamente di fare un uomo fra i più potenti, il presidente Usa in carica, per sé e per gli altri.

È vero che l’amore è una via alla felicità nel senso più positivo, leggiamo a un certo punto del Disagio della civiltà, ma pochi ne sono capaci, sostiene Freud e tra i pochi fa il nome di san Francesco. Il santo di Assisi compare qui per la prima e unica volta negli scritti di Freud, come un nome di altri tempi e di un’altra civiltà, buono soprattutto a chiudere la questione. Il mio invito è di tenerla invece aperta. Lo so anch’io che l’amore è un argomento che ci imbarazza.

Un fatale problema esiste nella nostra civiltà, ed è che finiamo per cercare felicità nel consumo di beni che si consumano e che consumano, insieme alla salute della Terra, la nostra stessa capacità di godimento. La fruizione felice, che Dante chiama il dolce frui (Paradiso XIX, 2), non consuma né l’oggetto né il soggetto. Le donne e uomini dei primi secoli dell’era cristiana avevano intravvisto questa risorsa, che ancora balugina nella visione dantesca, e la chiamavano amore (eros e agape). Era inesauribile.

Anche noi, come loro ma non come loro, dobbiamo adottare coraggiosamente la logica dell’amore, nei modi che offre il nostro tempo. Fra questi modi, al primo posto io metto il presentarsi di una soggettività femminile dotata d’indipendenza simbolica dagli uomini. Non si tratta di credere che le donne siano migliori degli uomini; si tratta di registrare che, in passato subordinate e complementari, ora, in ogni parte del mondo, non accettano più di esserlo ed è la fine dell’assolutismo unilaterale dell’uomo: fine di una perniciosa astrazione, l’Uomo. Della rivoluzione femminista i più vedono la domanda di uguaglianza e di diritti, che risale al femminismo dell’Ottocento e parlava il linguaggio progressista di allora. E non vedono la vera novità che riguarda la sostanza della politica, incorporata alla materia prima del vivere: corpi vivi, sessualità, desideri, affetti. Politica che comincia con la negoziazione sulle questioni elementari del vivere e la consapevolezza della loro priorità.

La formula che compare nel saggio di Freud, cercare forme stabili di civiltà che realizzino l’accordo tra pretese individuali e benessere generale, rispecchia la concezione maschile moderna del vivere in società. Tramontato il Sole di giustizia delle civiltà religiose, gli uomini hanno cercato di tenere in equilibrio le istanze contrarie. Con tutta la sua innegabile ragionevolezza, questa ricerca è approdata a un’impostazione statica che s’inclina verso l’esito, prefigurato da Freud stesso, di un circolo vizioso senza vie d’uscita. Troppo spesso le forme stabili sono state trovate e funzionano, come sappiamo, a spese di una parte del corpo sociale, operai, persone giovani, stranieri, e due volte a spese delle donne. E ormai non reggono più e si conservano solo a prezzo di farsi complici del disordine crescente in cui la politica agonizza.

Quell’impostazione statica discende – suggerisco di pensare – dall’invasione della nozione sociologica di società che ne fa un’entità collettiva unitaria, subentrata alla société, la socialità dell’epoca di passaggio alla modernità, con le sue pratiche e i suoi riti, ottimamente narrata da Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione (Adelphi, Milano 2001). La società è una socialità oggettivata, anzi cosificata e ha sostituito l’idea di un ordine simbolico che è trama relazionale dello scambio linguistico e non solo, che si crea incessantemente fra esseri umani, trama aperta illimitatamente quanto illimitato è l’orizzonte dei desideri.

La risposta (il suo inizio) la intravvedo nell’abbandonare la forma mentis che ci fa ragionare sempre in termini di società, nozione onnivora i cui termini ci chiudono la visuale ed è l’abito giusto per la macchina del potere. E sostituirla, anzi disfarla, quella forma mentis, per dare all’agire politico l’apertura e la mobilità che sono proprie del mercato, ma qui un mercato che non ignora il soprammercato, il suo oltre, il suo di più. Il mercato della felicità, l’ho chiamato commentando una fiaba orientale. Ho in mente un’esposizione soggettiva di sé o sbilanciamento, che la fiducia rende possibile e che fa guadagnare l’essenziale. Di che cosa sia essenziale bisognerà, naturalmente, che ci facciamo un’idea dotata di tutta la necessaria precisione, da insegnare anche ai bambini di pochi anni.

(Da Le passioni della politica. Atti del primo ciclo di incontri, Italianieuropei, Roma 2011, pp. 48-61.)

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