di Alberto Leiss
Se il liberismo si corregge, resiste e si replica, è il modello culturale che va attaccato e cambiato. A cominciare dal separatismo maschile, mettendo in campo una soggettività diversa da quella novecentesca basata sul lavoro salariato classico.
I tentativi di realizzare una qualche forma di socialismo, o comunismo, sono falliti. Con tragici attentati alla libertà di uomini e donne. Sta fallendo anche il modello liberista che ha vinto dappertutto dopo l’89? La “terza via” che si è affermata in Cina è molto potente, ma anche molto inquietante. Perché è così difficile affermare una via diversa, capace di unire libertà, desiderio, economia sostenibile, giustizia sociale? Il capitalismo globale e finanziarizzato ha creato poteri mondiali opachi e fortissimi, non ancora sufficientemente analizzati. La politica democratica è in crisi culturale ovunque, e con essa la sinistra. Cresce una vasta critica, di movimenti, intellettuali, economisti, alla finanziarizzazione (99% contro 1%). Ma il modello, con qualche relativa correzione, resiste e si replica. Forse ancora si è poco riflettuto sulla sua “efficacia”, nonostante la crisi. Certe analisi dicono che aumentano enormemente le disuguaglianze, ma anche che la condizione economica e culturale della massa dei più poveri – pur in crescita demografica – migliora in termini assoluti. Il sistema, a modo suo, “funziona”. Per affermare un’alternativa più giusta non si tratta di limitare il mercato, ma di cambiarlo portandoci la moneta materiale e simbolica di desideri, sentimenti e comportamenti diversi da quelli che sostengono la logica del capitalismo sfrenato attuale. Molto si discute di caduta dell’autorità, sovranità, legittimità della politica democratica. La spiegazione più corrente è la crisi dello stato nazionale, e il dominio dei cosiddetti “mercati”. Vero, ma c’è una specificità. Il potere politico, e i sistemi di produzione di autorità sociale (informazione, accademia, chiesa, gli stessi poteri economici ecc.) sono tuttora dominati dal maschile. Ma il separatismo maschile, per lo più inconsapevole, che informa il potere è sempre meno riconosciuto nell’epoca della rivoluzione e della libertà femminile. Ne è spia anche il recente dibattito sul “femminicidio”: la reazione sempre più ampia contro la violenza maschile quotidiana indica che è matura la ricostituzione dalla radice del patto sociale, riconoscendo la differenza dei sessi e la nuova dialettica della libertà che ne è determinata. Un potere separatista maschile consapevole – quello della Chiesa cattolica – per reagire a una drammatica crisi di autorità, ha tentato una rivoluzione simbolica con le dimissioni di Benedetto XVI, l’elezione di un papa che si è chiamato Francesco in nome della povertà, l’abbraccio dei due papi fratelli. Ma una nuova autorità e credibilità della democrazia passa per una modificazione profonda delle relazioni politiche tra uomini e donne. Non basta la logica del 50% (democrazia paritaria), che permette a ciascun sesso di rimuovere la relazione e non intacca il predominio maschile, per quanto screditato, nei luoghi del potere. Propongo che si sperimenti la pratica della indicazione obbligatoria di un uomo e una donna insieme per le principali cariche apicali nei partiti e nelle associazioni (forse anche nelle istituzioni?). Per rendere visibile la necessità di mutare il senso di questa relazione fondamentale, e quindi della natura del potere. Il lavoro resta centrale per l’identità della sinistra. Ma la soggettività determinata dal lavoro salariato classico che sosteneva l’idea della lotta di classe è inesorabilmente tramontata. Il mondo dei lavori è radicalmente mutato, e il capitale ha vinto, ma è cambiato anche il rapporto fondamentale tra lavoro produttivo, cura e lavoro di cura. Tra pubblico e privato. La femminilizzazione del lavoro (enormemente cresciuta negli ultimi decenni) e la crisi del welfare aprono contraddizioni nuove. Le identità sociali si misurano insieme sui tempi della vita e del lavoro. Al sindacato, a partire dalla Fiom, alle forze della sinistra, rivolgo questa proposta: sperimentare pratiche politiche radicate in un territorio, capaci di intercettare le nuove figure sociali tra impieghi sempre meno garantiti, lavoro precario e cura del vivere. Per far maturare relazioni di riconoscimento, nuove capacità di autorappresentazione e di rappresentanza. Progettare nuove modalità di linguaggio e di conflitto. Reinventando nel contesto locale/globale attuale il ruolo delle antiche leghe territoriali del lavoro. Coinvolgendo, oltre certe rigidità ideologiche, gli spazi occupati in nome dei beni comuni. Segnalo l’esperienza dell’Agorà del lavoro a Milano (agoradellavoro.wordpress.com ) e la riflessione sulla cura aperta dal testo “La cura del vivere” delle femministe del “gruppo del mercoledì” di Roma (www.donnealtri. it/2011/10/la-cura-del-vivere/). Da vecchio “trentiniano” diffido di forme di reddito che non siano legate a forme di produzione (o di cura, per quanto detto prima). Propongo che si discuta l’idea di legare il reddito minimo garantito per le fasce giovanili all’istituzione di un servizio civile obbligatorio nazionale e internazionale. Per un anno i giovani, dopo la scuola o l’università, dovrebbero impegnarsi per metà del periodo in attività di cura del territorio o delle persone che ne hanno bisogno in Italia, per la restante metà in Europa o in altri paesi vicini (per es. nell’area del Mediterraneo). Non escludo che – in questo caso su base volontaria – questo servizio possa riguardare anche interventi in favore della pace in aree di conflitto. Il servizio civile serve anche per orientare a sbocchi occupazionali. La moltiplicazione dei mezzi di comunicazione non sembra accompagnarsi all’aumento delle capacità reali di scambio tra persone più colte e informate. Ma questa è una precondizione fondamentale di ogni speranza democratica (e si vedono gli equivoci pericolosi sull’uso del web da parte del MoVimento 5Stelle, che pure ha il merito di averne visto la centralità). La tecnologia va accompagnata da adeguata elaborazione culturale. In ogni scuola dovrebbero essere istituiti e considerati fondamentali non solo corsi per capire l’informatica e l’uso del web, ma anche corsi di retorica, per sapere che cos’è il linguaggio e imparare a leggere e a parlare, e corsi di musica, per imparare l’intensità delle comunicazioni non verbali e la capacità di esprimersi insieme tra diversi. Bisognerebbe poi appendere nel proprio studio la massima di un celebre film: “L’unica forma di comunismo realizzabile (e desiderabile) è quella di un concerto musicale”.
29 Giugno 2013
il Manifesto