di Carlotta Susca
In Guardami, Jennifer Egan ha rivolto le proprie attenzioni allo sguardo prima che alla percezione del trascorrere degli anni (con cui ha costruito un rizoma malinconico sull’ineluttabilità della perdita nelle relazioni), e sullo sguardo intesse una riflessione sfaccettata, dai molteplici riverberi. Abbiamo Charlotte, la modella sfigurata e ricostruita chirurgicamente che ha perso l’identità derivatale dall’aspetto fisico, e con essa tutta la rete di relazioni legate al mondo della moda; Moose, che ha cambiato la propria percezione del mondo in seguito a una concatenazione di riflessioni derivanti dalla consapevolezza che l’introduzione di specchi e vetri ha stravolto arredamento e abbigliamento nel Medioevo; un detective, Antony Halliday, che ovviamente passa la propria vita a osservare gli altri; Charlotte (omonima), che insegna a suo fratello l’imperturbabilità del volto e guadagna sicurezza dall’assenza degli occhiali; Z./Aziz/Michael, terrorista mediorientale conquistato progressivamente dalla cultura made in Usa, e paradigmaticamente in viaggio verso Ovest, sempre più a Ovest, fino a far smarrire al lettore le proprie tracce mentre punta al miraggio cinematografico (ancora: visione!) di Los Angeles.
Poi abbiamo la “stanza degli specchi”, metafora del successo, che si rivela – ovviamente – effimero. E la prefigurazione dei social network, che Gianluigi Ricuperati sottolinea nella sua recensione sulla Repubblica. Insomma: seppur con lungaggini a tratti intollerabili, un montaggio lento per almeno quattro quinti del libro, una struttura, in definitiva, che se creata in Italia sarebbe stata opportunamente “asciugata” dalla maggior parte degli editor, i pregi di Guardami sono nel richiamo costante delle tematiche fra i vari personaggi; in quello che, in effetti, è un gioco di specchi. In cui la visibilità che nelle Lezioni americane di Italo Calvino era trattata come facoltà dell’ingegno, capacità immaginativa più o meno scientifica, analitica o sintetica, infinitesimale o tendente all’infinito, è trattata come costruzione di superficie volta all’ipnosi dello spettatore: il dominio statunitense è quello dei cataloghi di moda di infimo ordine, il mondo del fashion è composizione di bellezze interscambiabili. E il racconto di una vita emblematica perché ordinaria o straordinaria è costruzione di immagini che funzionano, corredo di video che stravolgono la realtà a vantaggio della presenza di controfigure che bucano lo schermo.
Jennifer Egan, Guardami
E se l’invasione di immagini è una violenza a cui si è assuefatti, ma non abbastanza da non riuscire, a tratti, ancora a rendersene conto, ecco che un’opera d’arte viva benché decadente (nella sua quotidiana mortalità e nel disfacimento proprio della vita) regala allo spettatore uno sguardo di rimando, la percezione di essere a propria volta visibile, punto di concentrazione tattile di una identità.
Nella performance al MoMA, The Artist is Present, Marina Abramović restituisce all’osservatore lo sguardo: non è tanto l’artista presente a suscitare l’interesse delle masse appostate per quindici minuti non già di celebrità, quanto, forse, di eternità, così come non è la percezione di far parte di un’opera d’arte a dare a quelle masse l’impressione di essere centrali in un’opera al pari dell’opera stessa, che senza di loro non esisterebbe. Lo spettatore sente di essere guardato, di non essere più, appunto, solo spettatore, ma anche oggetto di attenzione e, in quanto tale, protagonista di un processo, non comprimario. Se di opera d’arte si tratti non sono in grado di giudicarlo, ma credo che sia quantomeno anche un’indagine sociologica o, meglio, che lo sia suo malgrado, forse. Lo spettatore riabilitato nella sua importanza identitaria, come Aziz che, da fruitore rancoroso della cultura occidentale, finisce per abbracciarla nel momento in cui gli è concesso di prenderne parte: e allora la visione non è più una violenza ma, entrati nel meccanismo, si diventa parte della fascinazione, produttori di meraviglia (per citare ancora Ricuperati, il cui ultimo libro si intitola La produzione di meraviglia).
È la seconda puntata della miniserie Black mirror a riassumere il modo in cui il sistema della visione sia in grado di blandire lo spettatore potenzialmente dissidente facendolo entrare nello spettacolo, disinnescandone il potenziale sovversivo. E se questo è stato compreso a fondo dalla Egan, non so quanto intenzionalmente la Abramović lo metta in atto, ma di sicuro contribuisce a focalizzare l’attuarsi del processo.
Carlotta Susca