di Gianni Ferronato
Castelfranco Veneto (TV), 28 Agosto 1993
Leggo da alcuni mesi Via Dogana su segnalazione di un’amica, Adriana Sbrogiò, che da due anni, in modo autorevole, mi ha messo di fronte alla problematica dell’identità di genere.
Ho sempre apprezzato le lotte per l’emancipazione della donna, anche quelle del primo femminismo (anni 60-70), pur con qualche fastidio per gli atteggiamenti “rivendicazionisti”.
L’apprezzamento nasceva, più che altro, dalla constatazione della reale condizione di ingiustizia in cui vive la donna. Allo stesso modo solidarizzavo con tutte le lotte di liberazione (operai, terzo mondo,… )
Riconoscevo l’ingiustizia vissuta dalla donna quando, per esempio, più giovane, constatavo che i lavori domestici, a parità di altre condizioni, erano svolti quasi esclusivamente dalla mamma e dall’unica sorella, e non dagli altri quattro fratelli. Anche se sentivo una punta di rimorso per questa situazione, a me, maschio, era consentita questa pigrizia. Nessuno mi diceva niente.
Del primo femminismo ricordo soprattutto le battaglie per la parità dei diritti e delle possibilità, cosa che, pur giusta ora vedo anche insufficiente,.
Del secondo femminismo, mi colpisce soprattutto l’affermazione dello “specifico femminile”, e la ricerca autonoma dell’identità femminile. Sento meno rivendicazione e più ricerca, meno protesta e più progettualità.
Grazie alla mia amica Adriana e a Via Dogana ho preso coscienza di due problemi:
1) Il linguaggio è effettivamente modellato sul maschio e dal maschio. Molto bella l’analisi di Luce Irigaray in Amo a te a tal proposito. Ancora oggi mi scopro ad usare termini e riferimenti al maschile anche quando mi rivolgo a una donna. Non basta però cambiare il linguaggio perché cambi la cultura e la società. Linguaggio, cultura e struttura sociale sono variabili interdipendenti, sono facce di un’unica realtà. Certamente il riconoscimento dell’identità femminile (e contestualmente la riscoperta di quella maschile) sono condizioni preliminari per un cambiamento significativo del linguaggio. Ma per tale scopo non basta volgere al femminile i sostantivi nati maschili.
2) La dimensione femminile, almeno nella cultura corrente, viene concepita come ciò che è complementare al maschile. Io stesso ho sempre pensato “il femminile” come ciò di cui sento la mancanza, ciò che mi completerebbe e che per questo desidero. Oggi mi rendo conto che il femminile potrebbe essere semplicemente un mondo diverso senza necessariamente essere complementare. Un mondo dunque che aspetta soprattutto di essere riconosciuto, non interpretato. Un mondo che tenta di esprimersi e descriversi con il suo punto di vista proprio e che non è giusto descrivere dal punto di vista maschile. Un mondo la cui “epifania” presuppone voci di donna chiare e coraggiose e orecchi di uomo disponibili e attenti. Il riconoscimento della differenza e dell’irriducibilità dell’una all’altro è d’altra parte il presupposto di una vera relazione tra soggetti, mentre il loro misconoscimento degrada la relazione in un rapporto tra soggetto e oggetto, tra persona e cosa. Questo il senso, per me, di Amo a te di Luce Irigaray.
Devo a Elide, mia moglie, e a Giorgio, mio figlio, invece un’altra consapevolezza solo da poco realizzata. E cioè di quante piccole cose quotidiane abbia bisogno la vita per poter sbocciare e crescere, e di quanto senso e significato esse possano essere riempite. Tutte piccole cose generalmente sorvolate o disdegnate dagli uomini quasi fossero attività servili, mentre vengono preferite attività attinenti l’esercizio del potere o della violenza.
Credo che parecchi uomini si domandino a che cosa serve un potere che può solo distruggere. Da Hiroshima in poi il potere dell’uomo ha superato la soglia dell’impotenza nel senso che ormai non
può fare più nulla per fermare la violenza che ha generato. Ma che razza di potere è mai questo? Altri se lo chiedono (vedi Warren Farrel, The Myth of Male Power, Repubblica 25.8.93 pag.23), ma forse in altro senso perché alcune cose che appaiono nella recensione sono dissentibili anche per me.
Ho come l’impressione che la storia fatta dagli uomini sia al capolinea, che per un nuovo inizio (se mai ci potrà essere) c’è bisogno di un nuovo input (quello delle donne?), e che l’unica attività giusta che possono fare ora gli uomini è “l’attività del ri-conoscere”.
Dopo di ché tutto è da rifare e da riscrivere sia da parte degli uomini che da parte delle donne.
Gianni Ferronato