Sopravvivere senza un re. L’Italia del Censis
Alberto Leiss
“Credete profondamente nella vita e lottate per la sopravvivenza, e io, dovunque mi trovi, vi sorriderò”. Era un foglietto su cui Jacques Derrida aveva scritto per gli amici la frase che voleva si leggesse al suo funerale. Lo ha citato chiudendo il suo intervento sul nuovo rapporto Censis Giuseppe De Rita, ieri mattina – venerdì 7 – nelle sale gremite del Cnel.
“Volevo scriverlo – ha detto – al termine delle Considerazioni generali del rapporto, ma me lo hanno fisicamente impedito…”. Perché poteva sembrare un riferimento personale troppo malinconico. E nelle parole del presidente del Censis non è mancata qualche vena di malinconia, anche con un fugace accenno alle difficoltà che la generale crisi procura allo stesso istituto che è la sua diletta creatura.
La “sopravvivenza” è il concetto centrale dell’analisi per il 2012. Ho dato un’occhiata alle ricadute mediatiche del 46° rapporto, e naturalmente spiccano i dati negativi su quanto radicalmente la crisi ha inciso nel colpire i consumi e i livelli di vita degli italiani. Che si adeguano cambiando abitudini alimentari, lasciando in garage le automobili e inforcando biciclette, rinunciando ai nuovi capi di vestiario e tagliando le vacanze. Il ceto medio si impoverisce fino quasi a scomparire. Mentre la cittadella dei più ricchi raddoppia alla faccia nostra.
Alla paura di fronte a una crisi che non è “la solita crisi” si sostituisce la rabbia. Che però è già un sentimento meno passivo.
E infatti il tono del Censis è meno pessimistico di quanto si potrebbe pensare. Gli italiani sono riusciti a sopravvivere fronteggiando “eventi estremi” e “fenomeni enormi” non solo con le tradizionali capacità di adattamento, ma anche cambiando, votandosi a un “essere altrimenti”.
Questo cambiamento fa leva su ciò che De Rita ha definito con il neologismo “restanza”. Una cosa dotta: un’altra – questa scritta nel rapporto – citazione da Derrida, che eliminando il si centrale dalla parola résistance (resistenza) ottiene restance. Nell’italiano restanza si avverte dunque il patrimonio di ciò che si eredita di buono dal passato, ma anche qualcosa di un’energia non statica, quasi un senso di colpa per cosa non è stato fatto e “resta da fare”.
La sobrietà dello “scheletro contadino” si unisce così al solidarismo delle imprese cooperative (le uniche a aumentare sensibilmente l’occupazione dal 2007 a oggi) alle capacità di cura delle famiglie, al dinamismo delle imprese femminili (che resistono e si moltiplicano assai meglio di quelle maschili), alla scoperta del business digitale, al “politeismo enogastronomico” (20 milioni frequentano sagre e fiere, 5 milioni si votano al dio-aperitivo che sostituisce la cena a minor costo e maggior tasso di consolazione alcolica).
Il cambiamento poggia sul valore della “differenza”, rispetto agli altri e a se stessi. E così il popolo del Bel Paese imbocca molecolarmente la via di un “riposizionamento differenziale”. Un solo esempio: all’estero – magari in mercati importanti e lontani come Giappone e Brasile – non si esporta più tanto il famoso “made in Italy” del gusto e dell’apparenza, ma i più concreti prodotti della metallurgia, della chimica e della farmaceutica.
Il vero dramma per il Censis è che questa capacità di reazione “popolare” avviene nella completa assenza di sovranità politica (cosa che vale per l’Italia ma anche per l’Europa e tutto il mondo in balia degli dei del mercato) . È ben vero che il governo dei tecnici ha riacciuffato per i capelli un paese precipitato nei risolini di Merkel e Sarkozy dopo le avventure del Cavaliere con la presunta nipote di Mubarak. Ma questo esecutivo ha agito nel segno dell’“ordine, ordine, ordine”. Incapace di incontrare gli spiriti vitali del paese. Che ha sorprendentemente obbedito ai sacrifici imposti, ma ora non è detto che riesca a svoltare davvero. E non è proprio rassicurante l’immagine – offerta ieri sera dal comico Crozza – del Bersani travestito da “tacchino sul tetto”, che si appronta ad affrontare un Berlusconi inseguito dal suo corteo di Olgettine, stallieri mafiosi, politici e imprenditori corrotti ecc. ecc.
Forse il vuoto di sovranità su cui insiste il Censis deve anch’esso essere riempito dalle capacità creative che vengono “dal basso”. Chissà se i ricercatoti del Censis e De Rita, oltre al buon Derrida hanno letto il “Primum vivere anche nella crisi” che ha animato il femminismo italiano a Paestum. Se la rabbia trova la via per mutarsi in forza personale e collettiva per il cambiamento, i “sovrani” molto poco potenti attualmente in circolazione saranno indotti a seguire. O a togliersi di mezzo.