di Nicoletta Tiliacos
Si intitola “Prenditi cura” (edizioni et al., 80 pagine, 9 euro), il piccolo e prezioso diario di viaggio della giornalista e saggista Letizia Paolozzi (femminista e fondatrice del sito donnealtri.it) tra e con coloro che da qualche anno riflettono, nelle situazioni più diverse, sul grande tema della “cura del vivere”. La stessa autrice spiega all’inizio che il suo libro (pubblicato dall’editore Sandro D’Alessandro, morto pochi giorni fa, nella collana “Due”, diretta da Liliana Rampello) vuole essere “il viaggio di una parola-chiave, sgomitolata con tonalità, colorazioni, vocaboli diversi dialogando con tante donne (e alcuni uomini) in un percorso e in molti spostamenti che mi hanno fatto muovere la mente”. All’origine del percorso – che conduce l’autrice, e noi con lei, a Napoli, a Livorno, a Reggio Emilia, a Correggio, a Torreglia (Padova), perché l’incontro e la discussione faccia a faccia è la pratica più logica e giusta, in epoca di rete fagocitante, per dare il giusto valore alle parole e alle relazioni – all’origine del percorso, si diceva, c’è la constatazione che “nell’altalena delle donne tra lavoro e vita c’è qualcosa in più. Un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare. Non che siano inutili. Il punto è che c’è un resto – a cui attribuiamo il nome di cura – che né il welfare statale né il mercato possono dare”. Questo scriveva, nel settembre del 2011, il “Gruppo del mercoledì” (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini, oltre alla stessa Paolozzi), in un lungo documento che guardava con occhi nuovi ai temi dell’autodeterminazione, della dipendenza, del “rovesciamento di idea di cura” del quale si è resa consapevole protagonista in Italia almeno una parte del femminismo della differenza. “Ci piacerebbe discutere – oggi che la differenza sessuale è in campo – del perché le donne non hanno mai abbandonato questo lavoro di riproduzione della vita, questa manutenzione, (termine usato in ‘Immagina che il lavoro’ del gruppo del lavoro della Libreria delle donne)”. Anche l’emancipazionismo, come la cultura della sinistra, non hanno capito l’importanza e l’attaccamento, per tante donne, a quel “di più”, a quel “resto” incarnato dal fatto che “la complessità del mondo ha bisogno della dimensione della cura”. Che è anche “un collante, una garanzia affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza, sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità. Purché si distingua tra ‘cura’ e ‘lavoro di cura’. Purché si rifiuti la visione della cura come lavoro residuale. O servile”.
Così il documento del “Gruppo del mercoledì”. Letizia Paolozzi, nel raccontare di incontri, assemblee e appuntamenti in giro per l’Italia, mette a fuoco la necessità del progetto enunciato due anni fa, anche in rapporto all’esaurimento delle culture tradizionali del Novecento. Non bisogna pensare alla cura come “a una poco ambiziosa Ong”, scrive: “Abbiamo maneggiato la cura nel convincimento che possa tradursi in possibilità del buon vivere”, in un nuovo modello per la politica, nell’“aspirazione a sostituire il vecchio ordine con uno nuovo”. Nessun minimalismo, insomma, nessun “ritorno a casa”, nessuna mistica dell’oblatività, nessun “obbligo di natura” a carico delle sole donne: “La cura è caratteristica delle donne ed è innegabile che ci sia stato e ci sia un enorme sfruttamento della cura. Perciò spesso era stata considerata una negazione dell’autodeterminazione femminile. Oggi sempre più si riconosce l’indispensabilità della cura, che però non va trasformata in un nuovo welfare sulle spalle delle donne. Bisogna cambiare il modo di produrre e di vivere. Non è una via facile. La cura va intesa inevitabilmente in un orizzonte conflittuale. Ma, soprattutto, dare valore alla cura significa aprire una diversa considerazione del rapporto tra libertà e dipendenza. Dipendiamo da chi ci ha messi al mondo, da chi ci ha aiutato a crescere, dalla terra che ci accoglie. Insomma, cura come dipendenza? Anche. Il senso da dare alla libertà, come scrive Hannah Arendt, non equivale alla indipendenza da tutto e tutti”.