di Cristina Piccino
Ci incontriamo in un bar. Cecilia Mangini e Mariangela Barbanente: cosa hanno in comune? Il fare cinema intanto. Cecilia minuta e elegante, negli anni Cinquanta ha sfidato quello che era un dominio maschile per eccellenza (e la cinefilia, come la critica, continua a essere un po’ maschio, a dispetto della declinazione ancora oggi): il cinema, appunto. Dietro alla macchina da presa, da sola e in complicità col marito regista Lino Del Fra, raccontava con piglio critico l’Italia del tempo: il dopoguerra, il mito di una modernità racchiusa nel boom economico, i paesaggi di un sud remoto, svuotato e messo da parte. Tutte e due sono pugliesi, nate a Mola di Bari — «siamo anche parenti!» — sorride Mariangela. E quella Puglia delle origini se la sono portata dentro nella distanza, è la terra che torna nelle loro immagini, l’orizzonte in cui si srotola una storia italiana di conflitti, paradossi, menzogne, speranze e tradimenti. É l’Italia che come il giovane Tommaso — protagonista dell’omonimo film di Cecilia Mangini — sogna il posto fisso in fabbrica, alla Monteshell di Brindisi. L’Italia degli abitanti della stessa città (Brindisi 65), risucchiati dall’arrivo dell’industria. E, a distanza di tanti anni, l’Italia delle braccianti agricole invisibili, massacrate dal capolarato, a cui dà voce Mariangela Barbanente in Sole. O quella dei migranti del suo Ferrhotel che a Bari aspettano come nuovi Tommaso un futuro che non c’è.
Il tempo, gli anni, «l’allegra soglia dell’età che mi porto addosso» dice Cecilia non senzavezzo, scuotendo la chioma di capelli bianchissimi che sovrasta la sua figura esile. Sono due mondi, Mariangela e Cecilia, generazioni distanti decenni, ma Cecilia è stata riscoperta e amata, dopo un silenzio colpevolissimo delle nostre storie del cinema istituzionali, proprio dai documentaristi più giovani come Mariangela.
Lei, Cecilia, di fare film ha smesso nel ’74, l’ultimo si chiamava La briglia sul collo, un capolavoro dissacrante sul sistema scolastico italiano, e contro gli stereotipi dei ragazzini di periferia (siamo a Roma). Poi però insieme a Lino Del Fra, viaggia lungo l’Italia girando Comizi d’amore 80, il nostro Paese e la sessualità, un rapporto che rivela, negli anni Ottanta di effervescenza tv, un universo arcaico.
Che a Mariangela fosse venuta voglia di raccontare l’avventurosa storia di Cecilia non c’è da sorprendersi. Ma un ritratto lo aveva appena iniziato a girare Davide Barletti (Non c’era nessuna signora a quel tavolo). «Cecilia mi ha detto: ’sono ancora viva, e di documentari sulla mia biografia ne basta uno!’. Però io a quel progetto ci tenevo. Le ho proposto allora di fare un film non su di lei ma con lei. All’inizio era perplessa, diceva che non aveva più la mano, che non era sicura di reggere il ritmo delle riprese … Sarei andata io a girare e avremmo lavorato insieme sui materiali». Chi conosce un po’ Cecilia Mangini, e la sua energia indomabile, può immaginare la risposta. «Mi ha detto che avrebbe perso la parte più divertente, il set. E siamo partite».
Cosa ha significato per Cecilia tornare al cinema? «Non ho fatto film ma ho continuato a lavorare in altro modo, partecipando all’organizzazione di festival, come Cinema del reale di Paolo Pisanelli. Lì per lì non ci credevo ma Mariangela è stata molto pervicace» risponde decisa.
In viaggio con Cecilia — ora in sala dopo l’anteprima al festival dei Popoli, e in tour con le sue registe: domani a Roma, cinema Eden, 20.30, poi Bologna (mercoledì 29 ore 20, cinema Lumière), Taranto (lunedì 3 febbraio, 20.30, cinema Bellarmino), Bari (martedì 4 febbraio, 20.30, Cinema Splendor), comincia così. All’inizio l’idea era di ripercorrere insieme, con due sguardi e due esperienze diverse, i luoghi narrati da Cecilia nei suoi film per ritrovare effetti e declinazioni di quel sogno industriale nel presente. Ma già durante i sopralluoghi, lo scorso luglio, inizia la vicenda dell’Ilva, la magistratura mette sotto sequestro gli stabilimenti siderurgici della famiglia Riva, ordinando l’arresto di Emilio Riva, per l’inquinamento mortale che producono. Una devastazione. Taranto reagisce contro la perdita del lavoro ma anche contro il lavoro che uccide. Le due cineaste, in macchina, nel paesaggio pugliese punteggiato dalle pale eoliche, si trovano di fronte una «realtà» che non avevano originariamente previsto. Ma non è questa la scommessa più appassionante del documentario? E poi la classe operaia, e la lotta, fanno parte dell’esperienza di Cecilia. Nei giorni infuocati dell’Ilva sono lì, tra gli operai e i cittadini in piazza. Intorno cercano le tracce di quella morte e di quella disillusione: nel mare che sputa cozze malate, nelle parole dei figli che hanno seppellito i padri, nella resistenza muta di chi è stato messo da parte. Dice Cecilia: «Non ero convinta di tornare sui luoghi dei miei film ma la storia di Taranto è la storia dell’Ilva, e prima dell’Italsider. Il confronto tra un’epoca che sembrava entrare nell’era moderna, quando giravo io, col petrolchimico e l’Ilva oggi diventava vitale».
E Mariangela: «Il microcosmo che raccontiamo è per noi la chiave d’accesso a uno stato delle cose più ampio. C’è un messaggio che si ripete nel film: ’la gente deve reagire’. Ma anche: ’la politica non fa più il suo dovere’. Abbiamo la magistratura, che però, inevitabilmente, torna alla politica.».
Puglia, Italia, o meglio Puglia, mondo. Davanti ai cancelli della fabbrica, Cecilia ritrova gli operai che aveva incontrato in Comizi d’amore 80. Il vecchio sindacalista, ex-operaio Italsider, parla di scioperi, di battaglie, della necessità di leggi. Dei politici che li hanno sempre abbandonati. Tutti. «Ora gli operai hanno paura» dice. Già. Alle domande incalzanti di Cecilia risponde il silenzio. La fragilità del precariato, la globalizzazione che detta legge e se ci stai bene sennò perdi il lavoro. Il nostro contemporaneo esplode, e implode, lì, in quel sud accecato dal sole.
«Ho un testardo attaccamento per l’impegno, che oggi suona quasi come una parolaccia» dice con impeto Cecilia. «Se facciamo film è per incidere sulla realtà, un diritto che ci viene continuamente limitato, penso a Renzi che ci toglie anche le preferenze …».
Ribatte Mariangela: « Non credo che oggi non esiste impegno, molti documentaristi sono mossi da una necessità politica, è cambiato però il modo di esprimerlo». Schermaglia che si dipana in tutto il loro viaggio in Italia. Cecilia e Mariangela, infatti, nel film non sono solo sguardo ma anche protagoniste. Entrano in campo, intervengono, conversano, e discutono tra loro, e davanti all’obiettivo (di Roberto Cimatti) con chi incontrano. Cecilia sulla barca condivide la rabbia e il dolore dei pescatori che tirano su le reti con le cozze da gettare via. Mariangela ascolta la ragazza del centro di ricerca che le spiega l’incidenza dei tumori.
Che strano, quasi beffardo, il cielo azzurro alle loro spalle. E il mare che fugge via dai finestrini del treno. A Brindisi Cecilia e Mariangela trovano i ragazzini coi drink in mano nella notte annoiata. Cecilia li provoca, Mariangela sposta il ragionamento …
«Diciamo che ci siamo tirate in campo reciprocamente — spiega Mariangela — Io ci tenevo a posare il mio sguardo su Cecilia perché gli incontri del film erano ’guidati’ dalla sua presenza. All’inizio pensavo che ci dovesse essere solo lei nell’inquadratura, poi però ci siamo rese conto che il rapporto non sarebbe stato alla pari. E il confronto tra la Puglia di ieri e quella di oggi era anche il confronto tra due persone con quarant’anni di differenza. Era dunque giusto metterlo in scena».
(il manifesto, 26 gennaio 2014)