di Giacomo Clemente e Arianna Sforzini
Olympe de Gouges colpisce per la sua modernità e al tempo stesso la sua ambivalenza. Nata nel 1748, figlia naturale di un aristocratico, cresce nell’ambiente semplice di sua madre, la moglie di un macellaio di Montauban, nel sud della Francia. Viene data in sposa contro la sua volontà a soli 17 anni a un modesto ristoratore del paese, dal quale avrà un figlio ma per il quale scriverà più tardi di non aver provato che ripugnanza e disprezzo. La sua “fortuna” consiste nel rimanere vedova solo un anno dopo le nozze. Decisa ad approfittare fino in fondo della libertà ritrovata, segue il suo ricco amante a Parigi e vi comincia una nuova vita da donna mondana a tutti gli effetti, fra teatri, balli, ricevimenti. Olympe è bella, molto bella. Piace agli uomini. Al punto di conquistarsi la fama di donna di facili costumi presso le malelingue. Nulla lascerebbe presagire un futuro impegno politico. Eppure, brucia in lei il fuoco della passione letteraria, che la spinge a dedicarsi sempre più alla scrittura, in particolare di pièce teatrali – alcune delle quali saranno rappresentate anche alla Comédie-Française. Completamente autodidatta, la de Gouges compensa la mancanza di istruzione e una certa rozzezza dello stile con un carattere estremamente sicuro di sé, che non teme, anzi, quasi cerca la polemica. Di sé diceva di essere una “musa barbara”, giocando strategicamente sulle accuse di ignoranza e addirittura di analfabetismo che le venivano rivolte (si diceva che dettasse i suoi scritti). Olympe si pone come la “buona selvaggia” della cultura parigina dell’epoca, capace di parlare ai suoi contemporanei nel modo più semplice e chiaro proprio perché non istruita, proprio perché donna. Matura la convinzione crescente di avere una missione da svolgere attraverso la propria scrittura, che comincia quindi (siamo d’altronde nel fermento degli anni che precedono la Rivoluzione francese) a farsi più direttamente politica. Una delle sue pièce più contestate, per esempio, solleva la questione dell’abolizione della schiavitù – un problema che si lega a doppio filo a quello dei diritti della donna. In entrambi i casi si tratta di sfidare il presunto universalismo borghese e illuministico dei diritti, che riguarda in realtà solo il maschio, bianco, di un certo ceto e livello sociale. Come molte altre, la de Gouges vede negli ideali rivoluzionari la possibilità di rivendicare nello spazio politico un ruolo diverso, più attivo, per le donne. In questo senso, l’articolo X della sua celebre Dichiarazione della donna e della cittadina (scritta nel 1791) compendia il cuore delle sue rivendicazioni – e ne profetizza tragicamente l’esito: «La donna ha il diritto di salire sul patibolo, deve avere altresì quello di salire sulla tribuna».
L’incipit dello stesso articolo recita: «Nessuno deve essere perseguito per le sue opinioni, sia pure fondamentali». Il rapporto fra libertà individuale e libertà pubblica di pensiero e parola appare a noi forse scontato. Lo era molto meno per un uomo del Settecento, per cui la possibilità di maturare delle opinioni libere implicava un lavoro lungo e difficile di emancipazione da un potere assoluto, da realizzarsi in primis nell’incremento delle proprie facoltà di pensiero e azione. La trama di condizioni storiche che rendono possibile la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (modello esplicito della de Gouges) è lunghissima, e passa per eventi e processi molto complessi, che vanno dall’umanesimo alla rivoluzione scientifica e industriale, dalle guerre di religione (con la nascita del protestantesimo) all’Illuminismo e alla Rivoluzione americana. Il gesto politicamente potente della de Gouges è quello di aggiungere radicalità alla radicalità di una Dichiarazione che sancisce di fatto la fine di un’epoca, l’Ancien Régime: rivendica la medesima libertà dei diritti anche per le donne, che venivano invece ancora quasi unanimemente destinate per natura al solo ambito domestico, in un ruolo complementare e necessario al buon governo degli uomini nella sfera pubblica. Il politico Pierre-Louis Roederer, per esempio, ancora nel 1793, per spiegare nel suo Corso d’organizzazione sociale perché le donne (come i bambini e i domestici) non potessero avere il diritto di voto, scrive: «Sarebbe […] una strana contraddizione gravare le donne delle infinite fatiche della società dopo avere istituito tale società per assicurare loro una maggiore tranquillità o, piuttosto, per incanalare le loro forze e il loro tempo nel lavoro fisico che è stato loro imposto dalla natura. Altrimenti, con lo stato di società avremmo fatto per loro meno di quanto farebbe il bruto e selvaggio stato di natura». In questo contesto storico-politico, si potrebbe quindi in un certo senso recuperare e rivalorizzare la stessa questione del presunto analfabetismo della De Gouges. Non è proprio il suo non appartenere alla grammatica ideologica della sua epoca che le permette di rivendicare per sé una posizione differente e altra? Non è il suo essere “fuori campo” che le consente di vederne i limiti e le contraddizioni? Non è un caso che sia lei stessa a fare della sua inesperienza uno dei perni attorno ai quali gravita tutta la sua opera politica, come testimonianza della sua verità e spontaneità. «Non c’è bisogno di grandi frasi – scrive –, quando il sentimento è puro».
Scendiamo più nello specifico della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Come abbiamo già accennato, si tratta di uno scritto ricalcato sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, simbolo della Rivoluzione e inserita nella nuova costituzione francese del 1791. L’operazione della De Gouges è chiarissima: vuole estendere le conquiste in termini di diritti – uguaglianza, libertà, fratellanza – a quella metà della popolazione francese che ne rimaneva ancora esclusa, cioè le donne. La modernità di alcune delle proposte avanzate da Olympe è stupefacente: la Nazione non può che essere l’espressione della volontà comune di uomini edonne, tutti uguali di fronte alla legge; uguali devono essere anche i contributi all’amministrazione pubblica, e la «distribuzione dei posti, degli impieghi, delle cariche, delle dignità e di ogni altra attività». È necessario a suo avviso introdurre il divorzio e trasformare il matrimonio in una sorta di patto civile (il testo che propone come modello di tale contratto anticipa gli attuali PACS francesi, che, per inciso, l’Italia sembra ancora ben lontana dall’adottare). Olympe propone addirittura forme di protezione sociale per le madri nubili, che obblighino i padri a riconoscere anche i figli avuti fuori dal matrimonio. È evidente che la storia ha dato e sta dando (o almeno, finge di dare) ragione alle sue proposte – all’epoca considerate assolutamente radicali e irrealizzabili.
La questione che vorremmo e dovremmo però porci oggi non è tanto e solo questa. Si tratta piuttosto di chiedersi se la lotta per la libertà femminile passi o meno per una rivendicazione di diritti su un piano di uguaglianza formale e astratta. È l’interrogativo che Carole Pateman formula a proposito di un’altra antesignana del femminismo, Mary Wollstonecraft: bisogna scegliere tra una richiesta di uguaglianza che non prende in conto la differenza femminile o un’affermazione della differenza che, in un dato campo simbolico che si vuole universale, sceglie di porsi in una posizione minoritaria e alternativa, a parte. Si tratta di un dilemma capitale per le donne ancora oggi, in un’epoca che sembra aver accolto le richieste di parità di diritti, senza però riuscire sempre a trasformare tale parità astratta in un’effettiva uguaglianza nelle possibilità di esistenza e realizzazione individuale e collettiva. Può davvero esistere un’uguaglianza reale che superi le differenze sessuali? La forma della proposta della De Gouges – colmare con una richiesta di parificazione una diseguaglianza di fatto (“Io voglio i tuoi stessi diritti”) – non è forse la via più feconda per affrontare la questione di genere. Rivendicare dei diritti è infatti per sua natura un gesto politicamente non radicale, che richiede un compromesso, che non permette cioè di uscire dal sistema discorsivo, culturale, rappresentativo in cui ci si muove e ci si situa. Non è condizione della sua trasformazione. L’affermazione – la rivendicazione – dei diritti delle donne in nome di una presunta uguaglianza con gli uomini è in realtà un’adeguazione alla stessa logica maschile.
È chiaro, tuttavia, che accusare oggi di scarsa radicalità la de Gouges (che, è bene ricordarlo, ha pagato con la ghigliottina le sue idee, e senza la quale la storia del femminismo sarebbe stata senz’altro diversa), non avrebbe senso. Sarebbe un errore teorico e politico guardare alle protagoniste della storia del femminismo senza considerarne l’appartenenza culturale. La de Gouges era una donna del suo tempo e del suo mondo, che ha provato a far giocare in favore delle donne i fermenti politici di un’epoca così straordinariamente complessa come la fine del xviii secolo in Francia. Ha ripensato attivamente il suo essere donna, giocando anche sugli stereotipi di cui la figura femminile era caricata nella sua (nostra?) cultura: frivolezza, emotività, minor livello di cultura, scarsa razionalità. Olympe ci ha mostrato che anche così, anche accettando di giocare con i medesimi elementi del discorso maschile, la donna può farsi protagonista della vita politica. A noi resta il compito di riattualizzare criticamente le sue lotte e il suo gesto teorico. Una via possibile è forse proprio quella di recuperare la sua figura di donna al di là dei testi – la “musa barbara” che sapeva scuotere le convenzioni e il perbenismo del suo tempo con l’affermazione decisa della sua irriducibile singolarità. Mescolando rara intelligenza e raffinatissima vanità, Olympe ha giocato sul bordo estremo del suo tempo una partita che la Dichiarazione dei diritti lascia intravedere solo in parte. Lei stessa, in fondo, della sua esistenza, ha fatto meno un problema di diritti e più una questione di affermazione della sfera femminile in tutta la sua forza di essere e fare la differenza.