Ambeba e Yonas aspettano il loro primo figlio. Lei è al quinto mese e dice che vuole far nascere il bambino in Norvegia. La meta di Saia, 17 anni, è la Germania, dove la sorella è bigliettaia sui bus. Saia è sola. In Libia la sua bellezza l’ha pagata cara: i criminali che gestiscono il traffico umano- un enorme business, capitolo della tratta degli schiavi- non si sono accontentati dei soldi. Siamo saliti a bordo della «Espero», la nave della Marina militare italiana insieme con la Fondazione Francesca Rava per seguire in prima linea le operazioni di soccorso nei confronti di decine di migliaia di disperati che tentano di arrivare in Italia e poi raggiungere il resto dell’Europa per ricongiungersi con i familiari. L’operazione «Mare Nostrum» pattuglia una vasta area del Mar Mediterraneo di circa 71 mila chilometri quadrati. Daniele mastica un po’ di italiano e traduce con pudore la testimonianza della «sorella». In Libia «tutti ladri», dice, vogliono soldi, picchiano, stuprano. Anche per lui un viaggio di 8 mesi e le terribili ultime settimane nei campi libici. Usano le scosse elettriche se esiti a salire sui barconi, nel mare nero e gonfio della notte. Ma la paura da cui stai fuggendo è ben più grande di quella di affrontare il mare aperto. Se ce l’hanno fatta ad arrivare fino a qui dall’Eritrea, via Khartoum, la traversata biblica del deserto e poi gli schiavisti libici, se ora sono a Pozzallo (Ragusa) e baciano la terra uno a uno, rito che rallenta le operazioni di sbarco, l’ultima tratta del viaggio non sarà poi così dura. Troveranno sempre qualcuno che gli darà un paio di scarpe, una caciotta, un frutto. Qui in Sicilia, che è ormai un’enorme Lampedusa, la gente è spaventata. Si mettono le mani nei capelli: «Come faremo?». Ma poi quando c’è da fare fanno. Se c’è da andare in mare a tirare su la gente, vanno. Anche bambini morti, come è capitato su «Espero», una delle navi della missione «Mare Nostrum» che in sei mesi ha salvato 28 mila naufraghi: solo grazie a questo il Mediterraneo non è una fossa comune. Il comandante di «Espero» dice che sono stati loro i primi a ripescare i morti dopo la tragedia di ottobre a Lampedusa. Anche piccoli di un anno. Non erano ancora attrezzati e neanche il loro cuore lo era. A bordo giusto qualche mascherina sanitaria. Le salme le hanno distese sul ponte della nave. Su questo stesso ponte la mattina di Pasqua 433 migranti cantano le lodi del Signore. Quasi tutti eritrei e cristiani: 75 donne, quattro incinte, 3 bambini, decine di minori soli, ripescati nel corridoio umanitario garantito dalla missione «Mare Nostrum» in un’area di 71 mila chilometri quadrati dove si muovono 5 navi con 779 militari, elicotteri, gommoni, un drone e altri mezzi, in collaborazione con forze dell’ordine e magistratura (78 scafisti arrestati). Unità mediche coadiuvate dal personale sanitario volontario della Fondazione Francesca Rava. Una straordinaria macchina di sorveglianza e di accoglienza che solo tra il 7 e il 9 aprile ha salvato 6.769 migranti. E a Pasqua e Pasquetta — breve finestra di mare calmo — altre 1.200 persone accolte da «Espero», «Cassiopea», «San Giorgio» e dal mercantile «Red Sea». Un prodotto Dop tutto italiano, questa missione, che dovrebbe costituire un modello da esportare e che invece non gode di attenzione, né di sostegno da parte del resto d’Europa: 9 milioni al mese, fondi stornati dalle ordinarie attività della Marina Militare e che ormai non bastano più. Appena il mare si calmerà i barconi arriveranno a centinaia: 600 mila persone attendono di salpare, secondo il ministro dell’Interno Angelino Alfano. «Noi siamo soltanto l’aspirina — dice l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, comandante in capo della Squadra Navale — e non la cura della malattia. Il problema dei flussi va affrontato dalle Nazioni unite, con Unione europea e Unione africana, con programmi di sviluppo e repressione di chi lucra sulle vite umane». Quando la chiatta affollata di migranti si stacca da «Espero» per raggiungere il porto di Pozzallo, il popolo dei salvati fa esplodere un applauso di ringraziamento, a Dio e agli uomini, al tè caldo e ai 60 chili di pasta all’olio. Il problema sarà il pane di domani.
Terragni Marina
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(22 aprile 2014) – Corriere della Sera