di Chiara Cruciati
La famiglia Corrie non si arrende e continua a chiedere giustizia ad uno Stato che finora ha agito solo per garantirsi impunità. Il caso Rachel Corrie torna all’attenzione dell’opinione pubblica israeliana: oggi l’avvocato dei genitori Craig e Cindy, Hussein Abu Hussein, presenterà alla Corte Suprema l’appello contro la sentenza emessa dalla corte distrettuale di Haifa nell’agosto 2012. Una sentenza choc che definiva l’uccisione di Rachel da parte di un bulldozer militare israeliano a Rafah, Sud di Gaza, «uno spiacevole incidente». Nessuna responsabilità per l’esercito di Tel Aviv, ma negligenza dell’attivista statunitense che, secondo i giudici, fu la sola «colpevole» della sua stessa morte perché «qualsiasi persona di buon senso avrebbe lasciato l’area».
Rachel, 23 anni, fu uccisa il 16 marzo 2003 in piena Seconda Intifada — l’anno prima Israele aveva rioccupato Gaza e Cisgiordania, Operazione «Muraglia di Difesa». Morì schiacciata da un Caterpillar D9-R israeliano mentre faceva da scudo umano con attivisti dell’International Solidarity Movement, per evitare la demolizione di case palestinesi al confine con l’Egitto. Il processo per la sua morte si è aperto nel marzo 2010: 15 udienze conclusesi due anni dopo con l’auto-assoluzione dello Stato. Nessun colpevole, Rachel è morta «per sbaglio», stabilì il tribunale di Haifa.
«L’appello che presentiamo si fonda sulle gravi carenze nel verdetto della corte che ha ignorato o malinterpretato i fatti – spiega al manifesto Craig Corrie – Allo Stato sono stati concessi vantaggi procedurali, mentre le prove e le testimonianze portate dalla parte civile non sono state tenute in considerazione. Le dichiarazioni raccolte mostrano con chiarezza mancanze nella catena di comando e le bugie dei soldati. Rachel era visibile al bulldozer, così come gli altri attivisti, tutti con la pettorina arancione. Ma, nonostante la presenza di civili, gli ordini di demolizione non sono stati interrotti».
Quanto alle prove portate in tribunale, la parzialità di quelle fornite dall’esercito è palese: «Il contenuto del verdetto del 2012 è totalmente a favore dello Stato, nonostante le chiare discrepanze nelle testimonianze – continua Craig Corrie – Non esiste la prova che l’area fosse stata dichiarata «zona militare chiusa». Lo stesso capitano Rabia’a, responsabile dell’operazione, ha detto di non sapere se l’ordine fosse stato dato e che lui non era nella posizione di dichiarare l’area zona militare». «Altro elemento è il video girato dall’Idf durante l’operazione — aggiunge la madre di Rachel– dura otto minuti, la telecamera è fissa sul bulldozer e sugli attivisti.
Poi, poco prima dell’omicidio, cambia inquadratura e per 4–5 minuti riprende solo il traffico di Gaza. Nessuno ha mai chiesto all’operatore perché ha spostato la telecamera e cosa ha invece visto con i propri occhi. Inoltre, quel video è stato mostrato in bianco e nero, così da rendere meno visibile l’arancione delle pettorine. Ecco, gran parte del nostro appello si fonda proprio sull’utilizzo parziale delle prove e sulle violazioni delle misure previste dal diritto internazionale: che si tratti di zona militare o meno, di tempo di guerra o meno (la corte di Haifa basò l’assoluzione sul fatto che si trattava di zona e tempo di guerra, ndr) è vietato usare la forza contro civili inermi se non rappresentano alcuna minaccia.
È il caso di Rachel: disarmata, in piedi di fronte a edifici distrutti, il suo corpo solo contro un bulldozer». Difficile che la Corte Suprema risponda a breve all’appello dei Corrie che però non intendono demordere, forti del sostegno di organizzazioni e individui in tutto il mondo: «Sarà difficile ottenere qualcosa — continua Cindy — ma sentiamo l’obbligo di sfidare Israele, non solo nel nome di Rachel, ma per tutte le vittime anonime di questa macchina repressiva. Israele tenta di disumanizzarle, è un messaggio al mondo: abbiamo il potere di uccidere chi vogliamo e nessuno può farci nulla, nessuno può considerarci responsabili».
«Cosa accadrebbe se vincessimo?». Craig sorride, poi guarda in basso. «Tante cose cambierebbero. Sarebbe una vittoria per gli attivisti, i palestinesi, i giornalisti, coloro che sono minacciati dall’impunità di cui gode Israele. La nostra vittoria sarebbe la vittoria di coloro che non hanno mai avuto giustizia. E un messaggio chiaro allo Stato israeliano, dai suoi vertici ai soldati sul campo: chi viola il diritto internazionale, pagherà».
(il manifesto, 20 maggio 2014)