Un’outsider trovarobe
Il polo di via Maroncelli si arricchisce da maggio di una nuova galleria, la Maroncelli 12, che si propone di esplorare aree dell’arte estranee a circuiti e tendenze dominanti e alle regole del mercato, prima fra tutte l’Outsider art o Art brut, cioè l’arte praticata da figure prive di una formazione regolare e spesso sofferenti di disagio mentale, che in questi linguaggi trovano un canale di espressività privilegiato. Apprezzata da tempo fuori d’Italia, l’Art brut è invece quasi assente in Italia. Per l’esordio è stata scelta Marie-Claire Guyot, nata a Parigi nel 1937 ma presto trasferita nel nostro Paese con il marito italiano, pur soggiornando spesso nella grande casa di famiglia in Borgogna, grembo e matrice del suo lavoro d’artista. Intitolata «L’opera segreta», la mostra, aperta dall’8 maggio al 4 luglio, ne presenta i dipinti (nella foto un esemplare) abitati da personaggi grotteschi, da occhi, bocche, ventri, denti o da animali chimerici, con cui esplora il suo universo di sofferenza, e le sculture fatte di assemblaggi di vecchi oggetti maniacalmente cercati nelle soffitte della casa in Francia.
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(il testo integrale è disponibile nella versione cartacea)
Considerazioni su alcune opere di Marie-Claire Guyot:
Vorrei cominciare da alcune operine leggere e sgranate di colori a pastello, come quelle di bambini impazienti che non ubbidiscono agli insegnanti di disegno.
Anche l’iconografia è quasi scolastica, con le tipiche stilizzazioni degli abitini a scacchi, dei capelli realizzati con segni brevi e frettolosi in tangenza sulle teste rotonde.
Ebbene queste operine sono in realtà trappole del pensiero, veri e propri trompe l’Oeil, dove inciampa la nostra prima sensazione di piacevolezza: infatti, a ben guardare, si tratta di una versione originalissima dell’antica figura della danza macabra.
Oltre al formato lungo e stretto, come le predelle d’altare o le tavole per i cassoni nuziali dove l’ abbiamo vista riprodotta in tante versioni, tutti ricordiamo come la danza macabra sia una composizione retorica che oscilla fra l’iconografia e la letteratura, dagli affreschi medioevali alle poesie di Baudelaire e Rilke.
Se le teorie di personaggi della Guyot a prima vista sembrano innocentemente ludiche – e questa è la trappola – qualcosa ci suggerisce da lontano che il ludico è costantemente abitato dall’idea della morte. L’infanzia, per la sua inclinazione ad accentuare l’istante; l’infanzia, per la sua parziale e incompleta acquisizione della parola; l’infanzia che vive il rischio e la sfrenatezza sul precipizio del futuro….l’infanzia sa e vede la morte nel presente.
Insomma, credo che in questo tipo di opere la Guyot proceda verso un tentativo di “presentazione” di qualcosa di indicibile (in-fans), utilizzando il ritmo, l’alternanza di tipologie e di pose.
Ma la danza macabra delle figurine della Guyot (bambine, macellaio, diavoli e madri crudeli) è costruita su una coreografia di battute e urla, spezzature e legami…..come in un lavoro di Pina Bausch. Alcune opere della Guyot sono così potenti da inabissarci fino al loro interno di tenebra: come quelle di Frida Kahlo, come quelle di Carol Rama…o come quelle di Nabila, un’artista che ha lavorato per molti anni nell’atelier di Silvana Crescini all’OPG di Castiglione delle Stiviere.
Anzi, voglio partire proprio dall’esperienza dell’egiziana Nabila che vedeva il mondo nei fondi di caffè, secondo una pratica divinatoria molto comune nei paesi medio-orientali.
Alcune opere della Guyot sono così potenti da inabissarci fino al loro interno di tenebra: come quelle di Frida Kahlo, come quelle di Carol Rama…o come quelle di Nabila, un’artista che ha lavorato per molti anni nell’atelier di Silvana Crescini all’OPG di Castiglione delle Stiviere.
Anzi, voglio partire proprio dall’esperienza dell’egiziana Nabila che vedeva il mondo nei fondi di caffè, secondo una pratica divinatoria molto comune nei paesi medio-orientali.
Dalle macchie di colore su un lenzuolo, il materiale povero che poteva fornirgli l’istituto, Nabila ha cominciato a
registrare una visionarietà in cui le forme si connettevano le une alle altre secondo incastri e relazioni su un fondo
fluido di vitalità trasfigurativa.
In queste opere della Guyot invece la fluidità è annullata dall’ossessione di un segno colorato fitto e asciutto, come
di matita o di gessetto; anche se la continuità è la stessa, viene però realizzata con forme a incastro, e sui contorni si
avverte la forzatura dei pezzi che vengono montati uno sull’altro o, quando la spinta della memoria è violenta, uno
nell’altro.
Duplicazioni e prolificazioni si generano dai buchi della coscienza; se consideriamo l’opera gialla e azzurra, notiamo che
dai buchi si accendono occhiate come proiettori dell’ insondabilità interiore, o piccoli esseri che si divincolano da una
immobilità coatta e subita: non si tratta di spazio ma di campo.
In questo campo di relazioni infatti le esperienze si affrontano come forze spesso conflittuali, in cui le bocche
diventano teste e le teste si dualizzano opponendosi (non è un caso che compaiano sulle due sezioni frontali
i segni + e -).
In modo enigmatico, ma ad alta densità di senso, le sopracciglia dichiarano nella dolcezza della loro curva: io sono
buona.
Lo psicodramma diventa invece totalmente oscuro nell’altra opera, piena di grumi di disaccordo, lacrime rosse , forme
duttili come materie plastiche che si attorcigliano fra dita grandi e senza mani.
Gli animali sono bellissimi e conturbanti: i due cani in basso piangono strazio dalla bocca e dallo sguardo che non vede;
un caprone occhieggia fra violenze strozzate; in alto, a siglare la qualità di colui che vede con chiarezza dolorosa il
mistero, una sottile lince gialla che fiammeggia sulla tesa del cappello.
La Guyot non conosce i toni sarcastici o le perversioni adescatrici del gusto: procede nel suo angoscioso e intrepido
scrutarsi dentro, immune da strategie di tendenza, di movimenti artistici o di mercato.
Conclusioni
Queste note sul lavoro della Guyot dovrebbero dimostrare con quanto interesse intendo procedere nello studio e
nella valorizzazione delle sue opere. Proprio per questo sono felice di poterne aver un discreto numero all’interno dei
depositi del MAImuseo.
Il deposito-donazione di opere al museo è stato favorito da Antonia Jacchia, che con questa mostra intende inaugurare
la nuova galleria Maroncelli 12.
Dopo la Biennale di Venezia, che ha avuto il merito di portare al centro dell’attenzione un argomento che mi sta a
cuore da molti anni, è quantomeno fisiologico che si assista ad una forsennata “corsa all’oro”: il mercato ha sempre
fame di novità e di concrete possibilità di investimento e mai come ora è necessaria prudenza e grande capacità di
selezione.
In questo senso il MAImuseo intende adottare criteri di rigore e di assoluta indipendenza dal sistema dell’arte con
cui pure mantiene un dialogo serrato: questi artisti hanno una qualità unica che non può essere contaminata, ma al
contrario esige difesa e rispetto.
La qualità di cui si parla è l’autenticità e la libertà da ogni suggerimento o emulazione da parte del gusto o delle
pratiche di moda: per questo motivo appoggio con entusiasmo il progetto di Antonia e la sua modalità di lavoro.
Ha trovato un’ artista, ha confrontato con me e con altri consulenti di fiducia i suoi criteri di scelta, ha proposto una
collaborazione fruttuosa e disinteressata fra istituzioni diverse.
E’ la premessa per un lavoro buono a cui auguro riuscita e soddisfazione.
Bianca Tosatti
Direttrice del MAImuseo, il Museo di Arte Irregolare di Sospiro (Cremona)