da Alias “il Manifesto” domenica 20 luglio 2014
di Fausta Garavini
Un misterioso pittore francese del Seicento, nell’ultimo romanzo di Fausta Garavini. Coloriture d’epoca della lingua, stile lucido e aereo, senso di rovina… L’orizzonte letterario è quello dell’amica maestra Anna Banti ma il libro insegue altri rovelli creativi
A subirne il fascino sembra sia stato per primo tra i contemporanei André Breton, che affiancandolo a «geni» come Giorgio de Chirico e Gustave Moreau suggeriva in L’arte magica di interpretare le sue «ricerche formali» secondo «certe correzioni dell’angolo visivo subite dall’ottica moderna», piuttosto che attribuirle al semplice «capriccio o al desiderio di stranezza». Appassionato collezionista dei suoi quadri, con quelli di Bartolomeo Schedoni e Michiel Sweerts, sarà in epoca più prossima il Bruno Saraccini delle Mosche del capitale, in cui Paolo Volponi lo descrive «pittore bianco e allucinato di edifici e di piazze in rovina e di fiammeggianti martiri». Sfidando l’anatema lanciato da Roberto Longhi negli anni cinquanta, un «arruffone pre-surrealista» lo liquidò con perfidia, al misterioso, perturbante François de Nomé dedica ora il suo sesto romanzo Fausta Garavini. Chi sia questo «pittore di architetture fantastiche squassate da silenziosi cataclismi», quali i dati certi nella biografia del maestro seicentesco nativo di Metz e a lungo confuso sotto uno stesso nome con il conterraneo Didier Barra, l’autrice lo spiega nelle poche righe di avvertenza premesse in Le vite di Monsù Desiderio (Bompiani, pp. 317, euro 22,00) alla narrazione vera e propria: anzi, quasi a mettere sul tavolo le proprie carte, vi trascrive per intero il breve documento in cui sono contenute le sole notizie attendibili sulla sua vicenda. Si tratta di una scelta sintomatica, poiché rivelando subito al lettore gli unici elementi sicuri su cui ha potuto lavorare (l’età approssimativa in cui François lasciò Metz per Roma e quella in cui lasciò poi Roma per Napoli, la morte del padre antecedente la partenza per l’Italia, i nomi della madre e della moglie e del maestro romano di cui fu a bottega), Fausta Garavini certifica la realtà corporea del suo protagonista ma insieme rivendica per sé la necessità decisiva di inventare. E come inventare la storia di un pittore se non affidandosi ai suoi quadri? Questa la sfida temeraria cui allude anche l’insolito, enigmatico plurale adottato dal titolo. Racchiuso tra un prologo e un epilogo saldati in sequenza circolare, condotto in terza persona, il romanzo è provvisto di una struttura ferrea: quattro parti scandite dalla simmetria geografica dei due viaggi conosciuti di François e delle due città italiane in cui abitò. Con spavalda, incantevole maestria l’autrice affresca dietro il suo pittore paesaggi e strade e persone, ne affolla l’esistenza di incontri, tratteggia per lui una quotidianità ricca di colori e di affetti, gli regala insomma una vita vera. Dietro il tempo esteriore dei fatti fluisce però scompaginandolo una seconda e più clandestina e per Garavini senza dubbio più vera vita dell’artista. «Non sono in grado di spingermi oltre su questa traccia, di sciogliere il tessuto di rebus che sorregge queste scene invase d’irrealtà, questi sogni pietrificati», dichiarava la scrittrice in un saggio dedicato nel 2006 a François de Nomé su «Paragone», certa tuttavia che quella «pittura di singolarità stupefacente» esprima «qualcosa che non viene detto altrove da nessuna parte, né in un altro secolo né in un altro paese». È con esattezza chirurgica questo «qualcosa» che il romanzo insegue per inchiodarlo al suo significato. Protagonista malinconico e sensibile, Francesco diventa nel libro un pittore che pensa, non un uomo di mestiere ma un artista tormentato dagli arcani quesiti del proprio lavoro, dalla ricerca di un altrove che solo la pittura gli consente di raggiungere. Fausta Garavini esplora i suoi quadri interpretandone il vistoso simbolismo in chiave ermetica, riconduce il mistero in apparenza inspiegabile delle sue figurazioni alle correnti magiche da cui fu attraversato il secolo violento e fosco che ebbe in sorte di abitare. Addirittura decifra un’iscrizione abrasa nell’edificio pericolante rappresentato su una tela indicandovi un chiaro messaggio contro la tirannide. Incubi, visioni, sogni a occhi aperti: mobile e lussureggiante, la vita interiore di Monsù Desiderio palpita sulla pagina intrecciandosi alla sua più lineare vicenda quotidiana, ne rischiara l’opera acquistandone spessore e luce. I rovelli di Francesco, le sue fantasmagoriche ossessioni non appartengono però solo al suo tempo né alla sua pittura. «Cosa speri gettando lo scandaglio nel buio di queste anime? Da bambina, chiamavano me per ripescare col graffio la brocca caduta nel pozzo. Ci vuole una bugiarda, diceva Finaia, il colono. La verità, lo sai, è come un oggetto in un pozzo senza fondo che non si riesce mai a portare a galla. Il graffio della bugiarda farà emergere solo la chimera che c’illude: non ci è dato conoscere ciò che un’anima inquieta può racchiudere nel pozzo del suo segreto insondabile», ammoniva la narratrice di Diletta Costanza (1996) parlando con se stessa. È meravigliosamente compatto, gremito di echi il mondo poetico che Fausta Garavini ha costruito negli anni con i suoi romanzi: la nostalgia del passato insieme al disagio per un presente inospitale, il sentimento fatale di rovina, la convivenza di epoche diverse e il dialogo sotterraneo con i morti, lo scambio inesausto tra immaginazione e realtà sono i temi che sempre più esatti ne innervano le pagine fino a popolare le notti travagliate del pittore di Metz. Né ha senso distinguere tra narrazioni nella storia e racconti in veste contemporanea, se il personaggio più vicino al cuore di Francesco si direbbe nel suo febbricitante monologare il protagonista dell’onirico Diario delle solitudini (2011), il fotoreporter per cui «tutto è messinscena» e ogni immagine costituisce «un’analogia del mondo, non una rappresentazione». Parole che certo, oltre a Francesco, sarebbe pronta a sottoscrivere l’autrice. L’ha d’altra parte spiegato Anna Banti che «presente e passato sono un istante da catturare e stringere come una lucciola nella mano» e che «non ci riesce chi vuole». Appare dunque allusivo che Fausta Garavini rivolga un omaggio all’amica e maestra introducendo nell’ultima sequenza romana di Le vite di Monsù Desiderio un pittore «collerico e manesco» di nome Agostino, certo quel Tassi che giusto un anno dopo userà violenza alla giovane Artemisia Gentileschi. Nient’altro che un orizzonte letterario comune, una comune inclinazione figurativa avvicina però ad Artemisia il romanzo di François de Nomé: l’autrice vi insegue risposte diverse affrontando diversi problemi creativi, padroneggia un suo stile lucido e aereo, inventa una lingua in cui la coloritura seicentesca non è capriccio né calco ma indispensabile strumento narrativo. Afferra la sua lucciola e sa tenerla stretta nel palmo.