19 Ottobre 2014

Nutrire la nostra libertà, rischiando.

Claudio Vedovati (Maschile Plurale) e Sara Gandini (Libreria delle donne di Milano)

 

“Lo sguardo scivola lontano dalla relazione uomo/donna e si ferma ad analizzare la relazione uomo maltrattante/violenza.” (Marisa Guarneri)

 

A noi – un uomo e una donna figli del femminismo – interessa volgere lo sguardo verso la violenza maschile, perché vogliamo capire la radice di questa violenza, quella fisica, psicologica e simbolica. Sappiamo però che ha senso farlo solo tenendo ben salda la relazione con il sapere delle donne, con le pratiche dei centri anti violenza, e con le figure di autorità che troviamo in questi luoghi. Il sapere di queste donne viene prima di ogni altro sapere e disciplina. Questo è l’imprescindibile, perché sappiamo che il loro sguardo ci aiuta a mostrare le contraddizioni che fanno andare avanti.

 

E arriviamo al punto. Nella discussione che si è aperta, a partire dal convegno “La violenza maschile sulle donne. Fuori dall’emergenza” promosso da D.I.R.E, le Nove e Maschile Plurale, è emersa una posizione, ora molto di moda, che sostiene che il lavoro con gli uomini maltrattanti va considerato parte delle strategie di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne. Inoltre è emerso un desiderio femminile di occuparsi direttamente di uomini maltrattanti.

 

Prima di tutto ci chiediamo cosa anima questo desiderio di prendersi cura e dare ascolto al disagio maschile, anche laddove produce violenza. Sappiamo che le donne resistono per molto tempo in relazioni di violenza, anche senza denunciare, grazie al loro amore per la relazione, che regala senso alle loro vite. Questo ha a che fare con quel di più femminile che è “la capacità di essere due” – una predilezione storica, non predeterminata, legata alla dimensione misteriosa del corpo di lei – in cui risiede anche un aspetto problematico della differenza femminile (Clara Jourdan in L’enigma della donna maltrattata, da la rivista di Diotima Per amore del mondo).

 

Cosa c’è in ballo nel desiderio di prendersi cura degli uomini violenti? Ci chiediamo se in questo caso l’amore per la relazione non si trasformi nella tentazione del maternage, e si faccia giocare dalla paura di conflitti che possano “far fuori” gli uomini. Ci chiediamo se l’automoderazione femminile non sia in questo caso espressione di un timore verso quella pratica di relazione tra donne che sostiene il lavoro dei centri antiviolenza. Che spaventi la sua chiarezza e la sua radicalità? Che ci sia timore della stessa potenza femminile e si senta il bisogno di depotenziarla? Ci chiediamo se non ci sia la tentazione di sciogliere la radicalità del femminismo abbassando il livello di tensione della relazione politica tra uomini e donne, che è quello che realmente produce spostamenti. Pensare che “occuparsi” di uomini maltrattanti sia di per sé, per le donne, un’apertura alla relazione con gli uomini è un’illusione. Tanto quanto sarebbe sbagliato pensare che il lavoro dei centri violenza sia espressione di rigidità e una nuova forma di separatismo, come sembrerebbe emergere in questo dibattito. E’ l’esatto contrario. Nei centri anti violenza si nutre quella libertà femminile che consente oggi anche agli uomini di misurarsi politicamente con le donne. Ed è a questo nutrimento che noi diamo la nostra priorità.

 

Non stiamo evocando le nostre paure, cercando rassicurazioni. Si tratta di domande politiche che nascono dalla possibilità concreta che si apra la strada a uno spostamento simbolico che, di fatto, rimette al centro gli uomini. Proprio quando, per stare in una relazione politicamente proficua per tutti, le donne devono rimanere al centro.

 

Lo sappiamo, le donne si sono sempre prese cura degli uomini. Questo ha permesso all’umanità di esistere ed ha aiutato uomini e donne a vivere, ma la violenza maschile è ancora un problema. Le donne si sono prese cura degli uomini come madri, mogli, amiche, figlie e non cambia molto se ora lo fanno anche come operatrici, psicologhe, terapeute. Ciò che ha cambiato gli uomini è prima di tutto quel che le donne hanno scelto di fare per sé, quando si sono prese cura di sé. Li ha cambiati la libertà femminile arrivata grazie alla scelta degli anni ‘70 di separarsi dagli uomini.

 

Ora molte hanno deciso che desiderano giocarsi l’autorità guadagnata anche in relazioni di differenza con gli uomini. Lo fanno perché sanno che gli uomini in relazione cambiano. Ma cambiamenti significativi avvengono quando si affidano al sapere delle donne, quando ci sono relazioni di differenza che sanno mettere al mondo altro. Vediamo ad esempio nuovi padri sempre più presenti, che stanno in ascolto del sapere delle madri e mettono in discussione l’organizzazione del lavoro per stare con i figli. Tuttavia abbiamo imparato dai centri antiviolenza che per la singola donna che vuole uscire dalla relazione con un uomo violento, e che cerca aiuto in un centro antiviolenza, la priorità non può essere il cambiamento dell’uomo con cui era in relazione, ma lavorare su di sé, per mettere se stessa al centro della propria vita.

 

Quando diciamo “la violenza è maschile e riguarda gli uomini” intendiamo dire che per ogni uomo è fondamentale interrogarsi, in relazione con altri, prima di tutto sulle dinamiche di violenza che fanno parte della propria vita. E diciamo anche che nel guardare la violenza dobbiamo mettere in gioco le relazioni tra i sessi che ognuno di noi vive, nella propria quotidianità. Questo è un punto su cui dobbiamo mantenere lo sguardo vigile: è fondamentale saper vedere e nominare cosa succede nelle relazioni tra uomini e donne, partendo dalle nostre vite, per scardinare la cultura che produce la violenza. Non ci convince evocare una generica collaborazione tra uomini e donne. Si fa prevenzione e contrasto alla violenza aprendo conflitti positivi in queste relazioni.

 

Il lavoro con gli uomini maltrattanti può diventare politicamente interessante se si basa su relazioni maschili trasformative capaci di fare una narrazione condivisa di sé, in relazione alla società in cui si è. Di questo c’è bisogno ora. Tranne poche e solitarie eccezioni che esprimono questo desiderio (Il cerchio degli uomini a Torino è una di queste) questa cosa manca. Così come manca in molti uomini, anche più vicini alle pratiche del femminismo, il senso politico di ciò che capita nelle relazioni, nelle nostre vite. Facilmente tutto è ridotto a “problemi personali”, perdendo di vista il significato profondo di quel “il personale è politico” di cui tutti parlano. E questa è cosa su cui dobbiamo interrogarci.

 

Qualcuno sostiene che la narrazione degli uomini che agiscono violenza e la relazione con loro ci possa aiutare a conoscere meglio la violenza. Sicuramente il lavoro con gli uomini maltrattanti non può essere un astratto esperimento conoscitivo, che ci aiuta a capire un “fenomeno”. Intrecciare diversi saperi, il lavoro culturale con quello psicologico o sociologico, non basta a far accadere qualcosa di nuovo. Troviamo addirittura pericolosi gli approcci terapeutici al violento, che diventa automaticamente un malato da curare. A noi interessa ragionare sul lavoro con gli uomini maltrattanti nella misura in cui diventa narrazione trasformativa. Per il femminismo questo spostamento è stato l’autocoscienza, il sapere costruito a partire da sé e la relazione tra donne, laddove essa ha prodotto nuove forme di autorità. L’autocoscienza è stata per le donne un lavoro politico e non psicologico. E gli uomini?

 

L’esperienza di Maschile Plurale – radicata nel tempo, preziosa e importante – fatica ad andare oltre la mera critica del patriarcato, nonostante emerga nella società un nuovo desiderio maschile, che rimette al centro la riflessione sul nodo sesso-denaro-potere. Noi sappiamo che solo partendo da relazioni significative con donne può nascere una parola maschile autorevole anche per altri uomini, che consenta a tutti uno spostamento nelle proprie vite, che mostri che ci si può prendere cura di sé senza attivare dinamiche di potere, creando nelle relazioni una nuova libertà. Gli uomini per stare ad uno scambio vivo devono prendersi cura di sé, facendo spazio per la parola di lei, affidandosi a relazioni in cui ci si rischia. Cosa? Si rischia di compromettere quell’autonomia tanto agognata, si rischia di sbilanciarsi verso un’autorità materna che fa paura e verso pratiche sconosciute, si rischia di perdere il controllo, proprio quel controllo e quel potere che sono alla base della violenza. Si rischia, ma è questa la strada per cercare di uscire da dinamiche di potere patriarcali.

 

Per concludere, certamente la retorica che il lavoro con gli uomini maltrattanti andrebbe considerato parte delle strategie di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne non ci convince, tanto più se avviene nella forma della rassicurazione alle vittime e alla società stessa, perché produce, come ha già colto Marisa Guarneri, un “pericolo pratico e simbolico per le donne”.

 

C’è un contesto in cui stiamo facendo questa discussione. La spinta sociale a occuparsi degli uomini che fanno violenza, e non solo delle donne che la subiscono, è molto forte e usa argomentazioni e luoghi comuni che non vanno sottovalutati, perché incidono su quello che facciamo. “Anche gli uomini soffrono” è uno di questi luoghi comuni, simile a un altro luogo comune: “anche le donne sono violente”. Queste due affermazioni sono letteralmente vere ma sono usate in maniera manipolatoria per dire altro, cioè per nascondere lo squilibrio tra i sessi prodotto dalla storia patriarcale. Dietro queste affermazioni c’è una resistenza ad interrogarsi seriamente sulle radici della violenza maschile, sulla fatica a stare di fronte alla libertà femminile e a vedere le occasioni di trasformazione che essa produce per tutti e tutte. C’è il risentimento maschile, la misoginia, la difficoltà degli uomini a riconoscere cosa può far capitare di nuovo l’autorità femminile, ma anche a darsi autorevolezza e uscire dalla propria miseria. Da qui nasce la tentazione di un nuovo vittimismo, che nelle forme più raffinate può arrivare anche a dire che anche gli uomini sono “vittime” del patriarcato. Nell’immaginario collettivo che ci circonda occuparsi “anche” degli uomini assume così facilmente un significato risarcitorio, di riequilibrio dell’attenzione, e va da sé che escano bandi per finanziare progetti sulla violenza alle donne in cui si chiedono anche azioni verso gli uomini abusanti.

 

La spinta ad occuparsi di uomini maltrattanti, che in questo momento muove tante energie e ed è così ben accolta dall’opinione pubblica, ci sembra una operazione tranquillizzante, che riduce la questione della violenza maschile alla figura dell’uomo maltrattante. Non è un segno del mondo che cambia, ma una resistenza al cambiamento. Non serve neanche legittimare il lavoro con i maltrattanti invocando il contenimento della recidiva, della violenza reiterata, a cui fanno riferimento discipline, istituzioni e politiche, per giustificare la propria efficacia e l’uso di risorse pubbliche. Non sanno cogliere il punto politico delle trasformazioni: noi lavoriamo per un cambio di civiltà.

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