L’Italia dalle sue origini ha una grande questione: quella linguistica. Oggi non a caso la questione riguarda maschile e femminile.
di Francesca Graziani, una femminista di lungo corso
Leggo il Corriere tutti i giorni: nel giornale dell’altro ieri in prima pagina trovo il rimando ad un articolo interno intitolato «La parola femminismo non è (più) da buttare» a firma di Maria Luisa
Agnese. Sto per andare subito alla pagina indicata quando l’occhio mi cade sull’immagine che lo affianca: è una donna che urla in un megafono.
Ecco, io sono un po’ stufa dei soliti stereotipi sul femminismo, questo movimento globale che in cinquant’anni ha rivoluzionato il mondo (se ne sono accorti anche i nostri politici, non ce n’è uno che non parli del “valore donna”) e ancora oggi accade che sia sbeffeggiato, ridicolizzato.
Più che con le urla le donne hanno cambiato il mondo con le parole, fin dall’inizio, fin da quando si sono separate dagli uomini per riflettere in libertà sulla loro esperienza e da qui trovare le strade
per dare una propria misura alla società in cui viviamo: hanno cambiato la famiglia, imposto modifiche alle leggi, stanno trasformando il lavoro.
Ma lo stereotipo della femminista mangiauomini o nella variante della zitella frustrata da schernire o da mettere in soffitta come un’anticaglia è andata in onda per molto tempo sui media (salvo poi gridare sui giornali che il femminismo era morto perché non c’erano più le femministe col megafono…).
E a proposito di sbeffeggiamenti, voglio proprio togliermi qualche sassolino dalla scarpa.
A metà degli anni ottanta sulla stampa, anche sul Corriere – a cui nonostante tutto sono rimasta fedele… o sarà l’abitudine? – divampò una polemica sui femminili nei nomi di professione (vi ricordate il caos linguistico dei giornali che si sbizzarrivano con sindachessa, sindaco-donna o in gonnella?).
Fior di intellettuali (ho i ritagli!) intervennero nella discussione per liquidare la stravagante questione.
Pietro Citati (Corriere 12-5-87, La lingua perduta delle donne), Umberto Eco (L’espresso, «La sentinella coi baffi» 31-5-87), Beniamino Placido (La repubblica «Donne in battaglia», purtroppo senza data) si divertivano come matti a dileggiare le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua di Alma Sabatini, che, anche se non del tutto condivisibili, volevano disincrostare la lingua dalla sua impronta patriarcale. Intervenimmo in sua difesa e le cose cominciarono a cambiare quando il dizionario Gabrielli, che aveva suscitato le ire di alcune studentesse milanesi scandalizzate dalla definizione della donna come “femmina dell’uomo”, nella successiva
edizione (1993) fu il primo a recepire molte di quelle raccomandazioni e a dedicare nell’appendice «Si dice o non si dice?» un paragrafo alla questione dei generi nei nomi di professione.
Ho conservato questi articoli perché sapevo che un giorno – come infatti è successo – anche la Crusca ci avrebbe dato ragione.