di Laura Minguzzi
La mia lettura del libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio sulla nonna paterna Maria Massone, donna “sottratta”, come lei la definisce nel sottotitolo, risale al dicembre 2005, caldo di stampa. E a caldo appunto non sono riuscita a scrivere niente, per il rapporto che mi lega all’autrice, rapporto di amicizia politica.
Le sensazioni a lettura terminata sono state profondamente liberatorie “ecco, mi sono detta, finalmente l’ha scritto, l’ha detto, ha saputo farlo, è riuscita a farlo in modo magistrale”.
Scoperti l’inghippo, il segreto, il mistero, la macchia sul muro, citando un famoso racconto di Virginia Wolf, insomma quello che io ho sentito come movimento empatico nel 1989 verso Marirì e mi ha portato da Parma a Milano al seminario sulla pedagogia della differenza, ora ha un nome, una storia. Finalmente lei l’ha coraggiosamente portata alla luce. L’amore per la storia vivente ha infranto il muro degli affetti familiari, del conformismo borghese, che non si annida solo nella classe borghese, ma è ben presente e agguerrito anche nelle classi popolari. Il partire da sé e la chiamata dal cielo o da sottoterra sono motori conoscitivi introdotti nella politica e nella storia dalla fucina del femminismo ma certo non tutte hanno il dono di scrittura di Marirì Martinengo, il suo coraggio e la sua tenacia per forgiare insieme inconscio, oggetti cari, foto, spilli, labili tracce e restituirci una narrazione esemplare di una storia familiare che si fa universale. E così adesso c’è un precedente per una storia che faccia entrare l’inconscio nelle sue trame. Io, in casa, ho conservato alcuni mobili dell’inizio novecento, della mia infanzia in campagna, mobili cari a mia madre che da quarant’anni trasporto da una casa all’altra, da una città all’altra contro la volontà di tutti. “Ma vendili, occupano troppo spazio”, mi sento dire … Io ferma nella mia posizione e Marirì mi ha sempre sostenuto. “Non devi abbandonarli.” Io non posso separarmene, li amo, sono ciò che mi resta della memoria del mio passato, di mia madre. Grazie alla sua tenacia anch’io sono riuscita a conservare la memoria del mio mistero, della mia macchia. Di quel lato oscuro, opaco, da nascondere, che come dicevo alligna anche nelle classi popolari e può essere persino più feroce e crudele, da togliere la parola ai sopravvissuti. E far diventare mute. Non per questo però, secondo me, ognuno-a dopo questo libro di Marirì deve mettersi a raccontare la propria storia famigliare. Infatti io sono grata a Marirì per questo lavoro di ricerca perché è come se avesse sciolto anche me da un debito verso il passato, verso mia madre e mi avesse alleggerito di un fardello; il suo lavoro vale anche per me, in questo è il suo carattere di universale. Io ho passato la mia adolescenza frequentando case di cura dove a periodi alterni veniva ricoverata mia madre, sofferente di depressione e sottoposta a cure crudeli. L’elettroshock, prima della rivoluzione portata dalla legge Basaglia, era comunemente usato come terapia in qualunque reparto neurologico di qualunque ospedale. Ci si vergognava di avere quella malattia e i parenti pure cercavano di nascondere di avere familiari in casa malati di depressione. Mio fratello temeva ripercussioni negative sul lavoro e perciò colpevolizzava mia madre di essere malata. Mio padre pensava fosse questione di volontà e che ogni medicina fosse inutile. Aveva bisogno del suo aiuto per il lavoro nei campi e non voleva accettare questa strana malattia femminile, forse da ricchi, una malattia dell’anima. Noi non ce lo potevamo permettere. L’incomprensione era totale e la solitudine di mia madre immagino fosse immensa, inenarrabile. Io di quel periodo ricordo solo il suo totale silenzio, un mutismo duro e insormontabile come una muraglia cinese, irraggiungibile da comuni mortali e da medici che non hanno saputo (non sanno?) decifrare la sofferenza femminile. Per lungo tempo non sono riuscita a perdonare mio padre e mio fratello e come racconta Marirì ho covato risentimenti e propositi di vendetta, finché non ho spostato lo sguardo su mia madre interrogando la sua vita, le sue relazioni, la sua malattia, il suo rapporto con me e la sua morte. Così le uova del risentimento si sono trasformate nelle uova d’oro della libera lettura. Ne ho ricomposto la storia seguendo labili indizi e ricordi, rileggendola alla luce dello spostamento operato sul presente, cioè sul mio desiderio di essere libera.
Dal presente prende a parlare il passato. Perché è possibile oggi mi sono domandata? Cosa ha reso praticabile questa possibilità? Il nostro praticarci quotidiano ha aperto questa strada di messa in parole. Il passato non è più opaco, atono, afono, è soggetto di se stesso. Noi sentiamo la sua voce, questa sensibilità ci è restituita dalle relazioni che pratichiamo nel presente. Una donna comune come posso essere io in relazione con una donna non comune come è sicuramente Marirì Martinengo. La storia oscura di mia madre, così come la storia oscura di sua nonna Maria prendono forma, hanno una lingua. Io ho sottratto me stessa e mia madre alla inesistenza delle donne con una vita infinitamente oscura, con la pratica delle nostre relazioni nella Comunità di storia, fondata insieme nel ’92. Fra di noi c’è una distanza abissale dovuta al ceto, alla cultura, all’esperienza, al linguaggio che ogni giorno cerchiamo non già di colmare, che sarebbe vano sforzo, ma di mettere in comunicazione, far comunicare, rendere materia di scambio nel mondo.
Gli scambi negli spazi pubblici e politici che abbiamo creato, Libreria delle donne, il Circolo della rosa, il Sito di storia sono una articolazione di noi stesse, fanno emergere l’inconscio e producono conflitti, incomprensioni, sofferenza. Ma anche linguaggio e gioia quando riusciamo a parlarne, a sciogliere i nodi, a scriverne rendendoli pubblici. Il libro di Marirì introduce l’inconscio nella storia ponendo un precedente per una storia che ne tenga conto.