di Francesca Recchia
Visti da Kabul, dove vivo da due anni e mezzo, i fatti di Parigi del 7 gennaio sono apparsi come una delle tante, troppe, storie di ordinaria follia.
Le notizie della violenza cieca e insensata in Francia ci hanno raggiunto insieme a quelle dell’attacco alla scuola di Peshawar (16 dicembre 2014) dove sono morti 132 bambini e 9 adulti; agli attacchi dei droni della CIA in Nord Waziristan del 19 e del 28 gennaio in cui sono morte almeno 15 persone; ai numeri insensati dei morti senza nome nei villaggi di Baga e Doron Baga per mano di Boko Haram in Nigeria.
L’Occidente ha vissuto una fase di indignazione collettiva – e selettiva – senza precedenti.
La grande marcia di Parigi dell’11 gennaio ha visto la mobilitazione di capi di stato e di governo che hanno aperto il corteo sentendo, evidentemente, il profondo bisogno di essere in prima fila per difendere i valori repubblicani, probabilmente le radici cristiane dell’occidente e, sicuramente, la libertà di espressione.
A pochi però è sfuggito il cattivo gusto della presenza di Benjamin Netanyahu, in piena campagna elettorale. Secondo l’indice della libertà di stampa nel mondo redatto da Giornalisti Senza Frontiere, Israele continua ad utilizzare le questioni di sicurezza come scusa per limitare la libertà di informazione e i media israeliani sono spesso sottoposti allo scrutinio della censura militare mentre i giornalisti palestinesi sono oggetto di frequenti abusi.
Ancora più stridente è apparsa la presenza dell’ambasciatore saudita Mohammed Ismail Al-Sheikh. Due giorni prima di dimostrarsi pubblicamente paladino della libertà di espressione, il paese che rappresenta ha inflitto la prima serie di 50 fustigate al blogger Raif Badawi, arrestato nel 2012 e condannato alla flagellazione pubblica per 19 settimane. La ragione della condanna è il fatto che Badawi gestisce Saudi Liberal Network (attualmente oscurato), un sito internet dissidente che ha apertamente contestato la rigida interpretazione dell’Islam che caratterizza la politica saudita.
Tristemente, questa è solo una breve lista di orrori quotidiani che raramente scatenano le mobilitazioni di piazza, mandano i social media in fibrillazione, o generano l’identificazione collettiva con storie di cui poco conosciamo.
Io personalmente, prima del 7 gennaio, non avevo mai sentito parlare di Charlie Hebdo, quindi è difficile che da un momento all’altro diventi anch’io Charlie in nome del diritto al cattivo gusto e della difesa di una satira a tutti i costi dissacrante.
La condanna della violenza non ha niente a che vedere con la costrizione liberale a identificarsi con le vittime – per sentirci parte di un tutto, per placare le nostre coscienze sempre più pigre, per demarcare una linea sempre più netta fra noi e loro.
Quello che resta per me dei fatti di Parigi è la dolorosa consapevolezza che non tutte le vite hanno lo stesso valore, che non tutti i morti hanno un nome, che la morte in una parte del mondo è un dramma che mobilita gli attivisti da poltrona e causa indignazione, mentre la morte in altre parti del mondo genera soltanto un silenzio imbarazzato.
I due pesi e le due misure che, come occidentali, applichiamo alla geopolitica e al valore della vita dovrebbero farci riflettere su quanto siamo in effetti in diritto di esportare democrazia.
(www.libreriadelledonne.it – 6/2/2015)