di Valentina Sonzini
Il valore del DWF 102 sta nel proporre una riattualizzazione o, meglio, nell’interrogare un certo pensiero femminista sul presente.
Judith Butler, Rosi Braidotti e Donna Haraway riempiono, dilatano, quest’ultima fatica della redazione DWF, che non si stanca di farci rintracciare sempre un valido motivo per non mettere in soffitta il femminismo.
Il fil rouge che conduce la narrazione ci fa tenere il fiato sospeso fra l’intervista a Butler di Federica Castelli e la traduzione del saggio di Athena Athanasiou.
Non possiamo, nell’additare il patriarcato, sottrarci ad un esame impietoso e tragico del capitalismo che sta sottraendo vita alle vite.
Nello sfacelo del neoliberismo e delle politiche depredatorie delle multinazionali appoggiate da lobby che rappresentano poco più che se stesse, Butler si chiede, e ci chiede, se il femminismo ha «gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta accadendo oggi».
Sono troppo affezionata alla Butler che cerca di dimostrarci che si può e si deve vivere una vita giusta, pur in un mondo eticamente e moralmente ingiusto, per non apprezzare l’intervista di Castelli. Le riflessioni che ne emergono aprono uno spiraglio, gettano uno sguardo di speranza e risoluzione, rimarcando la necessità di costruire alleanze, di reinventarsi.
Il ribadire il proprio esserci, il proprio esistere davanti all’annientamento che questo sistema produttivo ci impone, è la risposta unica e possibile, direi rivoluzionaria, per esprimere una nuova resistenza che sia espansione della propria rete di solidarietà.
Butler sembra suggerire che, se non si guarda all’altro, si diventa parte del sistema nel quale fatichiamo a trovare un senso, una rappresentazione credibile di noi.
Il senso di comunità dunque, che si traduce in un contro-potere, in una serie di relazioni di sostegno, pone nuovamente il corpo al centro della politica.
Basta l’apertura suggerita dalla filosofa per farci scorgere una rigenerazione del femminismo, che si narra, crea genealogie, ma ripensa il suo stare in relazione con il contesto. Sceglie nuove parole, si stacca dalla tradizione, per tradursi in una semantica volta ad interpretazioni innovative. Guardare alle cose ponendosi domande non scontate, non ovvie, che destrutturano e rimodellano la questione, è il compito di un femminismo di apertura, inclusivo, che si riflette nell’altro con il potere che l’individualismo neoliberista ha tentato di sottrarre al sociale: la cura della relazione, nella relazione.
Il femminismo ci serve ancora per guardare a noi stesse acquisendo la capacità di generarci come donne, ma è anche la chiave interpretativa di cui abbisogniamo per comprendere l’evoluzione dei generi, vedere il corpo non come «dato biologico, ma [come] un campo di iscrizioni di codici neo-culturali» (Rosy Braidotti). E ancora, è il mezzo per contrastare lo stigma “donna, schiavo, immigrato” (genere, classe, razza) che categorizza corpi marcati, che sono altro dal maschile che tutto definisce e modella.
La crisi che viviamo, che Athanasiou legge nel suo saggio in chiave greca, ha avuto il pregio di farci evidenziare, dicendoli a voce alta, i nomi propri delle cause.
Nessuno può infatti più sostenere che il patriarcato sia scisso dal capitalismo, e che questo porta con sé un conservatorismo oscurantista che deprime i singoli, li depaupera e svilisce per renderli merce, pura merce di scambio e di acquisto.
A tutto questo, un femminismo di apertura oppone un senso del mondo che riproduce attenzione all’altro e cura; che crea responsabilità e riempie di senso la cittadinanza (due fra le modalità di stare nella società civile delle quali oggi sentiamo un disperato bisogno di ridefinizione).
Quando non si è più responsabili di nulla, non si sente neanche più l’esigenza di abitare con consapevolezza la società in cui si vive.
Il femminismo può dare molto a chi sta rintracciando la strada per la riappropriazione del sé e per la costruzione di comunità solidali.
(www.laboratoriodonnae.wordpress.com, marzo 2015)