Ha deluso, ha mantenuto le aspettative, meglio o peggio di quanto si credesse. La Biennale di Okwui Enwezor fa comunque riflettere. Ecco alcune idee e impressioni/1
Francesca Pasini. La politica nell’arte? Maybe
“Tutti i futuri del mondo” non ci dicono come cambiare il mondo. La contraddizione è la chiave di volta della Biennale. Dire, più che denunciare, le disparità è un grado di consapevolezza che si emancipa dalle rigidità ideologiche, ma il rischio è l’agiografia. La contraddizione ritorna. L’analisi dei soprusi, delle povertà, dei razzismi culturali e politici, che prende forma in modo multiforme in artisti di tutto il mondo, di tutte le culture e le età, dovrebbe essere il passo in avanti che mette al centro la relazione con l’altro. Ma questo “racconto consapevole”, che trasmigra in quasi tutti i padiglioni, rischia l’omologazione ed esalta la passività attuale. Le persone non vanno quasi più a votare, le ribellioni sono spesso episodi d’intolleranza che non riescono a prefigurare nuovi soggetti politici. Insomma è finito il sogno dell’arte che intuisce il cambiamento e ne fa una sintesi dello spirito del tempo? Sì e no. Sì, perché non ci sono figure che fanno fare uno scatto verso il non conosciuto; no perché questa sequenza di opere di qualità, che compongono l’archivio del dolore presente nel mondo, ci rende consapevoli della difficoltà in cui siamo immersi.
La lettura del Capitale di Marx che cadenzerà tutti i mesi della Biennale, è il passo centrale della contraddizione. Da un lato è un simbolo di un’epoca che ha sognato e agito rivoluzioni e rivolte; dall’altro pone la domanda: utilizzare Marx e il complesso e articolato pensiero marxista per affrontare la crisi economica è attuale? Il potere è ormai quello delle cinquecento multinazionali che governano il mondo, i riferimenti politici nazionali non sono più sufficienti a distinguere le loro politiche. Il lavoro non c’è, ma tutti deplorano i tentativi di costruire una cultura dei diritti del lavoro attuale. E allora Marx come lo rileggiamo?
Alla Biennale il sistema dell’arte internazionale è, come sempre, presente e potente. Forse è azzardato, ma esiste un’analogia tra sistema finanziario internazionale e sistema dell’arte. Il collezionista e imprenditore Maurizio Farè mi diceva, «oggi il denaro frutta solo nella finanza, per le persone normali i benefici non ci sono, le banche non danno più nulla, quindi molti vengono alla Biennale per vedere di comprare qualcosa che abbia un valore oggi e in futuro».
Viene un po’ un groppo in gola e una malinconia per le figure che offrivano intuizioni e speranze di rovesciare i sistemi. Nel senso che spingevano a ragionare sull’immaginazione e non solo sulla critica. Però per anni, per decenni, ci siamo battuti per un diritto di critica e oggi la Biennale lo evidenzia in modo puntuale e dialettico. Forse non sappiamo reggere il dolore che ci aggroviglia, come appare in Monica Bonvicini, che fa pendere da lunghe catene, un ammasso di seghe e attrezzi, impegolati da una nera pece, gocciolante. Difficile liberarsi dalla vischiosità del dolore. Ma questo sentimento umano, che è bene tenersi un po’ nel cuore per capirlo, una volta che diventa un segno diffuso, rischia di essere inoffensivo.
Enwezor non è caduto nella trappola di edulcorare il disagio, ma non ha sconfitto l’ombra della separazione tra il capitale e il lavoro, che oggi investe l’economia globale. Non è il compito dell’arte, ma nel momento in cui Enwezor pone la lettura di Marx idealmente e fisicamente al centro della mostra, non si può evitare di chiedersi: qual è il ruolo dell’arte nella politica? La critica che rintraccia tra le opere, rischia di diventare una specie di “realismo socialista”, sebbene non encomiastico, piuttosto che un giudizio sul Capitale Contemporaneo. La contraddizione non si ferma, ma non mette in moto nuove energie. Che dolore!