Entrare nel padiglione americano alla Biennale di Venezia di quest’anno è come fare un viaggio.
Joan Jonas ha costruito un dispositivo che pur in sintonia con i temi del curatore Okwui Enwezor, è misurato e poetico. Le cinque stanze del padiglione risultano essere un’unica e coerente opera, che riprende i temi di sue precedenti performance, Reanimation del 2010 in particolare, e brani di video di altri momenti del suo lavoro.
Ecco, una Penelope del proprio lavoro che intesse il suo passato col presente, lo rilegge e gli dà nuova forma. S’intrecciano nella narrazione dei video i fantasmi delle storie che la Jonas ha trovato in Nova Scotia, dove sono stati girati. I fantasmi, dice, sono ovunque. Dunque passato e memoria che ci chiamano, figure evanescenti ma mai spaventose.
I fantasmi sono bambini e ragazzi vestiti di bianco, ad evocare l’iconografia del fantasma col lenzuolo, con i quali per molti sabati si è incontrata a New York in un laboratorio creato apposta per questo lavoro e dove di nuovo sono state girate altre immagini che compongono questa narrazione plurima. La presenza dei bambini svela non solo il femminile ma soprattutto incarna contemporaneamente la coscienza collettiva e la speranza. Già perché se la bellissima mostra del curatore ha un difetto è proprio questo è dura, seria, sorprendente a tratti, ma un po’ senza speranza.
Ma Jonas, come sempre, si dà generosamente non solo nel padiglione, in luglio per tre sere consecutive farà anche la performance. Le varie sale contengono anche alcuni degli oggetti usati durante le performance e poi disegni e disegni. Il tratto duro usato per tracciare i pesci, e in parte anche le api, ricorda certi piatti di Picasso realizzati a Vallauris e un gusto un po’ anni Cinquanta che li rende affascinanti anche quando la natura di cui parla non è addomesticata.
Non manca un omaggio alla città di Venezia: nella sala centrale del padiglione una serie di specchi fatti realizzare a Murano restituiscono la luce di una sorta di lampadario veneziano. L’omaggio è assolutamente coerente col suo lavoro che spesso si è misurato con il doppio, lo specchio che richiama e deforma parti di corpo, volti, persone. Ma è la misura degli specchi ad essere interessante, come in Mirror, performance del 1969, gli specchi si potrebbero portare in mano. Hanno la misura degli specchi degli armadi anni ’60 e non quella gridata e narcisistica delle pareti a specchio che dagli anni ’80 invadono le camere da letto. Un guardarsi e prendere le proprie misure, e i frammenti di ciò che sta intorno, a misura d’uomo, anzi di donna.
Il padiglione ha il pregio di fare un discorso politico in modo poetico, “il personale è politico” del femminismo storico, prende qui una forma aperta che parla a tutti, investendoci della responsabilità verso la terra, gli animali, i nostri figli, e la forma della visione.
La grazia e compiutezza di questo padiglione è stata condivisa dalla giuria della Biennale che alla professoressa emerita dell’MIT Program in Art, Culture and Technology (ACT) ha conferito una menzione speciale.
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