di Livia Manera
Suicidio, voglia di vivere, complicità nel romanzo lieve e feroce di Miriam Toews Radici Al capezzale di Elf, Yoli parla, scherza, e ricorda l’infanzia di una piccola comunità mannonita
È possibile scrivere un libro sul suicidio e intanto brindare alla vita fino all’ultima stilla? È possibile. Ma è un miracolo. E di questo miracolo si è incaricata la quarantenne scrittrice Miriam Toews (pronuncia «Teis»): «una rosa del Canada» capace di fiorire nei terreni più aridi come Alice Munro e Mavis Gallant. I miei piccoli dispiaceri (Marcos y Marcos), tradotto con magica sintonia da Maurizia Balmelli, è proprio questo: un romanzo tragicomico sulla depressione suicida di Elfrida, una giovane donna che avrebbe tutto per essere felice – bellezza, talento, amore del prossimo – scritto da Yolandi, la sorella sciamannata ma piena di vita e di senso dell’umorismo che cerca di salvarla con la tenerezza e la complicità. E quando proprio Yoli ha esaurito ogni risorsa, dopo aver gridato «Senti! Se c’è qualcuno che dovrebbe ammazzarsi, quella sono io», perché nella vita non ne ha imbroccata una – non ha un lavoro degno di questo nome, e ha una situazione famigliare disastrata – arriva per sfinimento a immaginare di paracadutare Elf «in un posto ostile e ignoto tipo Mogadiscio o Corea del Nord, dove sarebbe costretta a sopravvivere da sola e in modi del tutto inediti», strappandoci il più improbabile dei sorrisi con la sua cura da cavallo di realismo. Yoli, la sorella sana ma «svitata», voce narrante di questo romanzo bello, diseguale e molto autobiografico (Miriam Toews ha perso padre e sorella, entrambi suicidi), scrive libri per ragazzi e si definisce «Una specie di esperimento sociale. Scherzo. Una specie di fallimento sociale», perché è una fricchettona senza un soldo che ha due figli adolescenti da due uomini diversi, ed è separata da entrambi. Elf, invece, è una pianista di fama mondiale adorata dal marito e baciata da un talento tanto irresistibile quanto i suoi occhi verdi spaventati. Pur senza separarle, la vita ha portato le due sorelle su strade opposte. Elf vive in un mondo colto, agiato, internazionale. Yoli è una canadese della frontiera. «E tu cosa stai leggendo, Yoli?», le chiede una zia. « Viaggio al termine della notte di Céline», risponde lei. E si sente in dovere di aggiungere: «Uno scrittore francese, morto, non la cantante del Quebéc».Al capezzale di Elf, che non ne vuole sapere di vivere e prova di tutto – digiuno, rasoio, candeggina – per mettere fine alle proprie sofferenze, Yoli parla, scherza e ricorda la loro infanzia in una piccola e isolata comunità mennonita, la chiesa anabattista che predica modestia e povertà, dove una ragazza con un libro in mano costituiva un nemico pubblico e suonare il pianoforte era vietato perché evocativo di piaceri sfrenati. Inutile dire che in questo ambiente castrante dove si parla una lingua orale medievale che somiglia all’olandese, le donne sono castigate da una società ferocemente maschilista. E tuttavia persino gli inflessibili saggi della comunità non riescono a mettere le briglie a due spiriti liberi come Yoli e Elf, la quale in barba al divieto di sedersi al pianoforte vince sei borse di studio e mette in fuga i sacerdoti riuniti nel salotto dei genitori, suonando furiosamente Rachmaninoff sui tasti del suo pianoforte nascosto in camera da letto. «Nella cosmologia mennonita funziona così», scrive Yoli per spiegare la disparità di trattamento tra maschi e femmine, e ciò che ne consegue. «I figli ereditano la ricchezza e la tramandano ai loro figli e i figli ai figli e i figli dei figli ai figli, mentre le figlie se la prendono allegramente nel culo… comunque sia, noi discendenti della genealogia delle ragazze, non avremo forse sostanze né vere e proprie finestre nelle nostre spelonche, ma almeno abbiamo la rabbia, e con quella costruiremo imperi, signori miei». E così è. Non ha, forse, Miriam Toews, una ragazza sopravvissuta a quell’ambiente arcaico, scalato la classifica dei bestseller in Canada con il più improbabile dei libri, un romanzo quasi senza trama sulla depressione suicida come questo straordinario, persino esilarante, a tratti, I miei piccoli dispiaceri ? E tuttavia non è la rabbia a guidare la penna di questa giovane donna che ha al suo attivo già sei romanzi. Piuttosto, è la struggente, meravigliosa complicità che anche nella più drammatica delle situazioni, le fa dire della sorella adorata: «Lei voleva morire e io volevo che vivesse ed eravamo due nemiche che si amavano». Due lati della stessa medaglia: quella di una femminilità allegra e feroce e disperata e consapevole, perdente e vincente nella stessa, smagliante, maniera.
Manera Livia