VV: In They Shine è evidente tanto la meccanica dell’apparecchio, quanto la proiezione. Tutto sembra avere lo stesso valore.RB: Dipende dai lavori. In generale io preferisco non oscurare la fonte della proiezione.Alcuni lavori sono significativi come “sculture”, per esempio Western Round Table
(2007). La presenza del proiettore spesso accompagna la presenza del narratore ed enfatizza l’argomento se è un lavoro d’archivio o d’invenzione. Western Round Table nasce dalla mia interpretazione di un incontro di Modern Art avvenuto nel 1949 nel deserto del Mojave. Un gruppo di intellettuali provenienti da diversi ambiti — arte, cinema, letteratura, critica, musica, scienza, filosofi a, architettura —, tra cui Marcel Duchamp, Frank Lloyd Wright e Gregory Bateson, discute contemporaneamente la pratica artistica, la sua eredità e il futuro modernista. Il luogo esatto della loro discussione è sconosciuto. La mia intenzione era quella di costruire un’opera enigmatica di questo incontro come una sorta di materiale di ricerca astratto dalla dimensione temporale. I due proiettori sono disposti l’uno di fronte all’altro su una
piccola base, l’audio è sincronizzato, la luce dei due proiettori attraversa la silhouette
dello spazio opposto contro le pareti della galleria. Le ombre sembrano individui. C’è
una specie di complotto in questo lavoro tale da far apparire il proiettore come un
testimone imparziale. They Shine esplora i miti urbani e le idee personali. Dall’esterno
del recinto si vede una coreografi a di migliaia di pannelli solari in movimento, mentre ruotano lentamente riflettendo il paesaggio circostante. L’installazione con il proiettore 35mm contrasta il soggetto fantascientifico del video.
VV: Quindi la dimensione temporale ha una particolare rilevanza nel tuo lavoro.
RB: Il tempo è l’ingrediente più importante nei miei “spettacoli”. Il tempo determina
l’andamento del film, l’ordine degli elementi, scandisce lo svolgimento dei movimenti.
VV: Panzano (2000) vede protagonisti una comunità di malati mentali, mentre Vertiginous Mapping (2008) è il primo web project. Puoi descrivere i punti in comune di questi due progetti diversi, seppure accomunati da un’ostinata esplorazione dell’ignoto?
RB: I lavori non sono molto differenti nell’approccio, ma solo nel contesto. L’invito da parte della Dia Art Foundation a realizzare un progetto per il web mi ha dato l’opportunità di presentare il film Vertiginous Mapping in un nuovo sito. La storia si svolge, attraverso vari link, in un paesaggio fittizio chiamato Forgotten. In Vertiginous Mapping la falda di Alkuna — una reale minaccia fi sica — serve come metafora di un potere aziendale fuori controllo, così come il movimento economico che cambia direzione da sinistra verso destra suggerisce un parallelismo ironico con le ideologie politiche che si spostano all’occorrenza. In Panzano i panorami interni sono trasmessi dai protagonisti. Questa comunità è separata dal suo ambiente d’origine e ricollocata in un nuovo scenario per riscoprire aspetti inesplorati della propria esistenza. I protagonisti non sono attori ma sono autentici e nel film emerge la loro reale esperienza di vita con la storia secondo la loro prospettiva e immaginazione.
VV: Sai dirmi qualcosa sull’opera in mostra alla Biennale Venezia?
RB: Si tratta di un film performance di 5 proiettori 16mm che formano un coro. L’installazione si ispira allo stile policorale veneziano del tardo Rinascimento e del primo Barocco, un tipo di musica chiamata “coro spezzato”, in cui cori opposti cantano consecutivamente e da cui prende il titolo l’opera (Coro Spezzato: The Future Lasts One Day). È un periodo in cui la concezione teocentrica del mondo viene lentamente sostituita da un’idea umanistica della realtà. I testi descrivono idee per il futuro e analizzano il presente con una moltitudine di voci. Le differenti idee del gruppo sono proiettate sui muri come frammenti di testo. Esse sono coordinate fra di loro e seguono un ordine coreografato. I vari film rallentano e accelerano in accordo con i testi proiettati secondo un ritmo idiosincratico. L’installazione cattura un particolare momento attraverso una coreografi a silenziosa. La reale funzione del coro, cioè quella di cantare ad alta voce, diventa futile. Rispetto al rumore martellante dei proiettori il coro produce frammenti di parole. Lo spazio interno diviene un archivio vivo di idee con i suoi “muri parlanti”.
Veronica Valentini è critica d’arte e curatrice. Vive e lavora a Milano.
Rosa Barba è nata ad Agrigento nel 1972. Vive e lavora a Berlino.
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