6 Marzo 2003
il manifesto

Le sale d’attesa della modernità

Cosmologia del presente Lo sguardo e la prospettiva dello studioso francese erano orientate dal senso della differenza. Cioè da quella grammatica spontanea dell’inchiesta che torna utile per indagare la condizione postcoloniale
Federico Rahola

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È quindi in questa via di mezzo, che si colloca un testo come La società contro lo Stato. A rileggerlo oggi appare un libro insospettabilmente «solido», pieno di intuizioni straordinarie e con una progressione narrativa e una costruzione logica impressionanti, sulla scia della migliore tradizione etnologica francese e mondiale, dal «Saggio sul dono» di Mauss in poi. Al centro c’è la questione, ovviamente dirimente nell’antropologia politica, del potere, sintetizzata in una domanda semplice, diretta: si può affermare che esistano società senza potere politico, non «strutturate» cioè sulla logica weberiana dell’autorità, sul nesso coercitivo comando-obbedienza? E quindi, a ruota, devono considerarsi tali società come non politiche, o meglio come prepolitiche, in base a inesorabili leggi di necessità della Storia?
Clastres lavora sul suo terreno, la «periferia» al cuore dell’America latina, quella foresta amazzonica lontana dalle grandi civiltà andine: i Guayakì, i Guaranì, gli Jivaro, popolazioni sterminate nel corso del più grande genocidio della storia (di cui, in un capitolo sulla «demografia amerindiana», condividendo l’ipotesi di Chaunu delinea en passant proporzioni ancora più consistenti: «gli scontri `microbici’ del XVI secolo annientarono, nell’insieme, un quarto dell’umanità»).
Ne analizza rigorosamente l’organizzazione sociale e la divisione dei sessi, le cosmologie, i rituali, la particolare economia (e pure le politiche di genere, il senso del tempo, la nostalgia, l’umorismo). E porta alla luce la straordinaria figura, comune a quasi tutte quelle popolazioni, del «capo impotente», riflesso di un potere molto durkheimiano (ecco l’ambivalenza) che è tale solo perché «sociale»: il capo, cioè – le cui parole non sono ordini ma simboli, la cui autorità non si fonda neppure sull’ascolto ma sul «prestigio», sulla «parola», e sul dovere del «dono» – rappresenta la scelta agita, tutt’altro che inconsapevole, di annullare ab origine ogni gerarchia e ogni coercizione, ogni tensione verso l’«Uno». Se «il potere è esattamente quello che le società hanno voluto che fosse», le popolazioni della foresta ci restituiscono una figura politicamente «potente» proprio perché la dipendenza dal gruppo la rende nei fatti impotente.
Tesi di fondo di La società contro lo Stato è allora che non sia possibile dividere la società in due gruppi, con potere e senza potere: «riteniamo al contrario che il potere sia universale, immanente al fatto sociale (sia questo determinato da `legami di sangue’ o dalle classi sociali), ma che si realizzi in due modi particolari: potere coercitivo e potere non coercitivo». Enunciato che innesca una sequenza di domande enormi (cos’è il potere politico? come e perché emerge la coercizione, e quindi, «cos’è la storia?»), tutte però giocate su una condizione preliminare e assoluta: «che si rinunci asceticamente (…) alla concezione esotica del mondo arcaico che, in ultima analisi, determina il discorso che si pretende scientifico su questo mondo». È a partire dalla negazione perentoria di ogni tentazione esotica e «primitivista» che Clastres, allineandosi a molte altre voci contemporanee, assume come bersaglio la generale disposizione dell’etnologia a fare di un presunto «naturale» etnocentrismo – il fatto di guardare il mondo a partire dai propri occhi – la base inavvertita e ideologica del proprio discorso scientifico.
Ed è su questa premessa che Clastres demolisce lo sfondo evoluzionista e la pretesa di scientificità del discorso etno-antropologico, cogliendone i sintomi in una serie di passaggi logici e indiziari: l’assenza di scrittura, e quindi di storia, l’assenza di un mercato, e quindi di un’economia che non sia di sussistenza. Il primo caso, infatti, è un dato fattuale, incontrovertibile: la scrittura c’è o non c’è. Poi però c’è il giudizio, che è sempre di valore, in base a cui assenza di scrittura diventa assenza di storia. Clastres blocca sul nascere questa progressione ideologica in uno splendido capitolo sui segni e la «memoria»: segni sul corpo (la «marchiatura» di cui parlano Deleuze e Guattari in Anti-Edipo), che ricordano in modo indelebile ai giovani Guayakì appena iniziati il loro essere uguali, uomini fra gli uomini, «finiti» come tutti, e che non sono scrittura, non si separano dai corpi per diventare «Legge», ma sono memoria vissuta, marchi, appunto storie.
Il secondo «sintomo» è invece tutto in una parola: sussistenza. La condanna a una precarietà cronica, l’incapacità di staccarsi dall’urgenza dei bisogni materiali e da una stagnante scarsità. Tutta l’epoca coloniale è stata dominata dall’assioma che l’«arretratezza» tecnica abbia impedito alle culture colonizzate di produrre quel surplus che è motore del progresso sotto il segno del capitale (ecco la macchina mitologica dello «sviluppo»). Clastres in questo caso si muove su linee già tracciate, per esempio, da Marhall Sahlins, portando alla luce «società dell’abbondanza» che non accumulano e piuttosto sprecano (e qui, dietro l’angolo, c’è l’idea bataillana di depense). Ma fa di più: non si limita a decostruire l’ideologia dell’economia di sussistenza. Con un twist «hegeliano» rovescia l’ordine del discorso: ok, ammettiamo che di economia di sussistenza – e cioè di un’economia che garantisce piena sussistenza – si tratti. E allora? Gli agricoltori Guaranì lavorano due mesi ogni quattro anni; nelle asce metalliche che il contatto con i coloni gli ha messo in mano, non vedono mezzi per produrre di più, ma per «lavorare di meno»: la produzione senza l’incubo dell’accumulazione, il tempo libero, l’ozio, come scelta contro il «lavoro alienato».
Queste società che i primi colonizzatori definivano «senza re, senza leggi, senza dignità», sono allora incomplete nella misura in cui si concepisce il mercato, l’accumulazione e lo stato come destino ultimo di ogni formazione sociale, orizzonte evolutivo della politica (un po’ come il corpo della scimmia che, secondo Hegel e Marx, si poteva comprendere solo a partire dalla costituzione dell’uomo). Il messaggio che le popolazioni della foresta ci consegnano è però opposto: l’esperienza di una sussistenza piena senza accumulare, senza cioè accasermare le «eccedenze», tanto di cibo che di potere. Questa la loro assenza di Stato.

 

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Come collocare questa differenza, queste forme di vita, nello spazio e nel tempo che vengono problematicamente «dopo le colonie»?
Il loro violento ingresso in ciò che Benjamin definiva come il tempo «lineare e vuoto» della «modernità» è segnato dal lutto, certo; ma è anche sintomo di qualcosa che ancora insiste sul presente, e ne indica direzioni opposte (il loro essere società contro lo Stato) che contribuiscono a relativizzarne la portata (nella misura in cui la fanno apparire un’opzione, la più forte, tra le altre). È questa forse l’immagine più nitida del presente postcoloniale che si può ricavare fra le righe del testo di Clastres: un tempo in cui l’insieme dei passati che il progetto coloniale (e il moderno capitalismo) ha incontrato sulla sua strada riemerge confuso in una sorta di «esposizione universale», che, al contrario del Muséé de l’Homme, è però dentro la modernità, e potrà parlare una lingua davvero universale solo se saprà affermare la contemporanea presenza di queste differenze «contro», con un sentimento che Dipesh Chakrabarty definisce di «gratitudine anticoloniale».

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