Siegmund Ginzberg
Siamo alla Guerra semantica. Donald Rumsfeld si sta dando molto da fare per mettere i puntini sulle i della terminologia. “Impantanamento” quello in Iraq? “Se volete chiamarlo pantano (guagmire) fate pure. Io non lo definisco così”, “Guerriglia” quella che sta facendo quotidianamente tra le truppe occupanti quasi più vittime che nei giorni della guerra vera e propria? “No, non userei proprio questo termine”. E allora chi sono? “Terroristi, criminali”. Non è che il capo del Pentagono abbia scoperto una bruciante passione per la linguistica e la semantica. Dopo essersi esibito da storico il giorno della caduta di Baghdad: disse che Saddam raggiungeva nella pattumiera della storia altri dittatori rovesciati come Ceausescu e Stalin (dimenticandosi che questo era morto nel suo letto e fu adorato ai funerali). È che il quagmire, il pantano per antonomasia nel vocabolario degli americani, così come la “guerra di guerriglia” per eccellenza sono il Vietnam.
La guerriglia terminologica ha quindi uno scopo preciso: esorcizzare un fantasma inquietante. È bastato che giornalista facesse riferimento al Vietnam, come “il classico pantano”, per suscitare una pronta correzione da purista del dizionario: “Ci sono tante vignette ridicole in cui ci si chiede, voi della stampa vi chiedete: siamo già al Vietnam?, non solo domandandoselo, ma sperando magari sotto sotto che sia così. E invece no. Sono altri tempi. È un’altra epoca. È un altro posto”. Qualche giorno prima gli avevano chiesto se coloro che attaccavano i soldati americani erano “guerriglieri”. “No, io non userei proprio questo termine. Sono criminali. Tutte le grandi città hanno i loro criminali, ricordatevi che se Washington fosse popolosa come Baghdad, anche qui avremmo 215 omicidi al mese”, aveva risposto. E allora chi sono? “A differenza degli avversari con cui avevamo avuto a che fare nelle guerre del passato, che avevano firmato un documento di resa e consegnato le armi, i rimasugli del regime Baath e delle squadre della morte dei feddayin si sono dileguati in mezzo alla popolazione e sono tornati ad essere una rete terroristica”, la risposta. Unica ammissione, a denti stretti: che “durerà per qualche tempo” e che la mancata cattura di Saddam e dei suoi figli ha aggravato il problema ( “C’ è qualcuno che spera che possano tornare, perché erano privilegiati quando loro erano al potere”). Spiegazione seguita da un’altra ancora più inquietante, che pare preludere ad operazioni, forse altre guerre, anche al di là delle frontiere irachene: non solo rimasugli del vecchio regime ma anche “stranieri” (senza precisare di che tipo) e “gente influenzata dall’Iran”.
“Guerriglia” è per definizione una guerra combattuta da piccole unità, disperse in zone di difficile accesso o in mezzo alla popolazione, per distinguerla da operazioni condotte da contingenti che ad un avversario più forte sarebbe molto più facile attaccare e distruggere. Il pro console Usa in Iraq, Paul Bremer, ha dichiarato ieri che gli attacchi “appaiono condotti da gente che ha avuto esperienza militare o nei servizi… sono operazioni condotte da professionisti, piccole unità di 5 o 6 uomini… non attacchi spontanei da parte di folle inferocite o licenziati…”. E allora, perché ostinarsi a smentire il vocabolario? Solo perché evoca un denotato tabù e imbarazzante? I guerriglieri possono essere simpatici o antipatici. Se uno vuole si possono anche chiamare “criminali” e “terroristi”.
Ma l’operazione terminologica non toglie che, a differenza dei criminali comuni, la loro è una motivazione politica, non solamente psicologica o di banditismo. Gli analisti del sito americano Stratfor hanno tentato di dare delle spiegazioni alla furia semantica di Rumsfeld. Una delle loro ipotesi è che voglia delegittimare la valenza politica di quel che sta succedendo. Un’altra è più tecnica, che non consideri guerriglia una guerriglia allo stato iniziale (in questa accezione, “guerriglia” sarebbe quella che iniziò in Vietnam dopo il 1964, ma non le operazioni su scala minore condotte dai vietcong nel 1961 e 1962). Un’altra ancora è che ammettere che si trovano di fronte ad operazioni di guerriglia equivarrebbe ad ammettere che lo stesso Pentagono di Rumsfeld ha sbagliato grossolanamente i propri piani. “Se c’è guerriglia, e non la vogliono chiamare tale se ne possono trarre due conclusioni. La prima è che c’è stato un grave errore di intelligence sui piani del nemico… più grave ancora dell’errore di intelligence sulle armi di distruzione di massa. La seconda conclusione è che le forze armare Usa in Iraq non hanno una strategia per affrontare la guerriglia”, osservano impietosamente. Altri esperti cominciano a notare che, per correggere la svista, le truppe con cui hanno vinto la guerra non gli bastano, potrebbero dover chiedere aiuto. Ci sono volontari?