Nella girandola di golpe e contro golpe che scandisce la storia di molti Paesi africani, la tenace e coraggiosa resistenza del popolo del Burkina Faso alla prepotenza dei militari fedeli all’ex dittatore Compaoré mostra l’esistenza di una società civile matura non comune nel cuore dell’Africa subsahariana; di solito considerata fonte di materie prime o di problemi.
Non che il continente sia del tutto estraneo alle mobilitazioni di massa: dallo sciopero del sesso delle donne in Togo per rovesciare il presidente ai presidi degli «indignados» nigeriani contro l’abolizione dei sussidi per i carburanti nel 2012 o le manifestazioni dello scorso anno per le studentesse di Chibok rapite da Boko Haram. Ma affrontare le pallottole della Guardia presidenziale a mani nude (o al massimo con bastoni e fionde) come stanno facendo da giorni migliaia di giovani nell’ex colonia francese, senza piegarsi e riuscire (quasi) a spuntarla, rappresenta un caso esemplare.
Alla protesta contro il golpe che ha tentato di bloccare la transizione democratica del Paese, si sono unite anche molte «mamme» (come vengono chiamate nelle foto su Facebook), scese in strada con pentoloni, mattarelli e scope. Quelle scope già protagoniste della rivolta che un anno fa ha spazzato via Compaoré e il tentativo di prolungare i suoi 27 anni di potere. Fu ribattezzata «primavera nera» la vittoria del «balai citoyen» (scopa cittadina), il movimento civico che si richiama a Thomas Sankara, il «Che Guevara africano», e alle sue giornate di pulizia collettiva. Se l’anno scorso la «ramazzata» si era concentrata nella capitale, Ouagadougou, questa volta si è diffusa anche nelle altre città. La proposta di mediazione messa a punto dall’Ecowas prevede il ritorno del presidente Kafando, elezioni a novembre ma anche il ritorno degli esponenti dell’ex regime tra i candidati. Una vittoria a metà. Ma pur sempre una vittoria.
(Corriere della Sera, 21 settembre 2015)