2 Luglio 2004
il manifesto

La speranza del quacchero Martin

Cara redazione del sito,
questo articolo mi piace e ve la propongo perchè è la storia di un uomo che senza grandi atti di eroismo, con piccole azioni quotidiane, con le sue preziose relazioni di tutti i giorni e grazie all’amore verso una donna, cerca di cambiare il suo mondo in una situazione difficile come quella irakena.
Umberto Varischio

 


Il volto dell’altra America Da scudo umano a coltivatore, il percorso compiuto da Martin Edwards attraverso la guerra portata dai suoi compatrioti nel paese mediorientale. Con una inattesa conversione all’Islam e un matrimonio
Come un pacifista americano, sua moglie irachena e alcuni loro amici hanno vissuto la guerra e l’occupazione dell’Iraq; e perché adesso si trovano ancora lì, dando una mano come possono.
di Marinella Correggia

Quacchero della California, capelli argentei e occhi azzurri, ex agricoltore, giornalista e altro ancora, sempre ornato di spilla con la scritta «Create a nonviolent peace force», Martin era il più pratico e organizzato fra i trenta pacifisti dell’Ipt (Iraq Peace Team) che vivevano a Baghdad nelle settimane dei bombardamenti pre-occupazione, fra il marzo e l’aprile 2003. Americani, inglesi, coreani, canadesi, australiani, un’italiana. La più giovane di tutti era Un-Ha, gentile ragazza che a Seoul aveva rimandato il matrimonio pur di «stare con gli iracheni contro la guerra». La sua stanza era ingombra di cibo coreano impacchettato, portato chissà come via terra da Amman, e diventò meta di pellegrinaggio quando nell’hotel Al Fanar il menù cominciò a limitarsi al pollo e per i vegetariani rimanevano solo pane, marmellata di datteri e qualche cetriolo che sarebbe stato molto costoso se non l’avesse regalato di straforo Abu Ali, il factotum dal grembiule grigio.

 

Negozi e mercati aperti

 

Quando nell’hotel divennero più forti le voci sulla possibilità di un lungo assedio a Baghdad, Martin ebbe l’idea: si prese qualche ora di pausa dalle dolorose visite collettive agli ospedali e ai bombing sites, dove il gruppo andava a constatare per future denunce i misfatti della «coalizione dei volonterosi» (allora pensavamo che a conflitto finito tutto sarebbe stato sepolto dall’oblio, come dopo la prima guerra del Golfo, con quegli innumerevoli morti civili e militari iracheni sepolti vivi nelle trincee). Il quacchero trovò negozi e mercati aperti nella città immobile. Vi comprò melanzane, patate, cipolle, olio, lenticchie, riso, datteri e una pentola. Da allora cominciò a preparare cene collettive al lume di candela (il generatore dava luce solo al pianterreno) nella sua stanza, cui aveva dato un look da sopravvivenza bellica – la rete messa in verticale a proteggere da eventuali vetri infranti il materasso sul pavimento.

 

Martin era il più assiduo alla centrale di potabilizzazione di Al Mansour che gli attivisti dell’Ipt, pur non essendo scudi umani, avevano deciso di presidiare con turni diurni e notturni in omaggio alla convenzione di Ginevra che proibisce di centrare obiettivi civili vitali (nel 1991 erano stati rasi al suolo deliberatamente). Surreali quelle serate all’impianto, il tramonto che tutto intorno si confondeva con i fumi antiaerei e i funghi di bombe sganciate sugli iracheni da invisibili aerei; si cenava in picnic sull’erba intorno alle vasche dell’acqua, controllate dall’ingegnera Leila, foulard e aria stanca, e non mancavano la fontanella per bere, diversi gatti randagi e le provviste procurate da Martin, fra cui vera Nutella che causò qualche senso di colpa).

 

Il 9 aprile, quando all’improvviso si materializzano i carri armati americani, immobili e puntuti come scorpioni in attesa, Martin è il primo a decidere che con quelli, con i soldati, si deve parlare. Gli altri dell’Ipt sentivano di detestarlo leggermente quando diceva: «Adesso faccio public relations con i soldati». Ma si trattava di intendersi: public relations per un quacchero vuol dire cercare di capire e spiegare.

 

In quei giorni molti dei pacifisti partono; chi ha finito da un pezzo le ferie, chi i soldi, chi non sa davvero più cosa fare lì; e l’anima ispiratrice dell’Ipt, Kathy Kelly, va incontro al processo politico che le costerà oltre quattro mesi di carcere negli Stati uniti. Ma Martin vuol rimanere, e può farlo; per vivere gli basta pochissimo e ha qualcosa da parte che si farà mandare. Nel marasma generale restano anche due coreani, Un-ha e Song-Ji, la prima a far volontariato in un orfanotrofio statale senza più stato, dove per un mese paga il personale, aiutata a sua volta da un tassista iracheno che la affida a sua sorella vedova, cibo e ospitalità gratis. Il secondo coreano rimugina l’idea di un centro per la pace ma nel frattempo paga un camioncino per raccogliere i rifiuti nel fatiscente quartiere «New Saddam» (come si chiamerà adesso?).

 

Ben presto Martin prende dimora in un ospedale privato, aiutando come elogista, per gli acquisti e simili. Poche settimane dopo, di passaggio all’hotel Al Fanar, confida agli amici rimasti di essersi innamorato di una ragazza irachena: Amal («speranza»), una delle tante ingegnere civili di buona famiglia ora disoccupate. Lei trentacinquenne, lui sessantenne. Ma il problema è un altro: per sposarsi all’islamica, come lei esige perché è molto religiosa, lui deve diventare musulmano. E’ incerto… Poi scompare nuovamente nel vortice di Baghdad. E gli ultimi amici stranieri partono.

 

Quasi un anno dopo, in una lista di discussione, appare il messaggio di un Martin Edwards che dagli Usa scrive: «Sono tornato a Baghdad con mia moglie Amal e vi potrò dare una mano». E’ proprio lui? Certo: da Baghdad risponde che sì, si sono sposati con rito musulmano, lui studia l’arabo, va a pregare in moschea – che differenza fa, Dio è sempre Dio – e là ha molti amici, certo deliziati dall’idea di un americano convertito e antioccupazione. Nella sua «vita precedente», Martin aveva anche coltivato soia; così qualcuno l’ha messo in contatto con Plenty, una comunità-associazione statunitense che appoggia progetti nutrizionali, ora anche in Iraq.

 

I contatti con i pacifisti di casa, Martin li tiene attraverso un gruppo Yahoo e con articoli per giornali alternativi. Quanto ai connazionali occupanti… Un giorno di maggio Martin si trova a passare davanti al futuribile monumento ai martiri della guerra contro l’Iran. La polizia irachena che lo presidia – la zona è ora una specie di base militare – è ben disposta verso questo «giornalista americano musulmano», ma il militare statunitense lo manda via. Martin insiste: «E’ un monumento iracheno, vorrei fotografarlo». Risposta: «Questo adesso è il nostro monumento. Fila».

 

Nella tragedia di laggiù, Martin vive «da iracheno», molto più di tutti gli stranieri presenti, militari, funzionari occupanti, contractors, giornalisti, cooperanti di ong. Vive con Amal in un appartamentino, attorniato dai parenti di lei. La luce va e viene; per avere un po’ di refrigerio con ventilatori a pale e soprattutto per far funzionare il computer ha comprato un piccolo generatore. Anche l’acqua va e viene, ma ci sono i cassoni per accumularla.

 

Bere l’acqua dei canali

 

Invece, nelle campagne dov’è andato per la sua soia, Martin ha visto i contadini bere l’acqua dei canali di irrigazione. I contadini sono quelli che Plenty ha convinto, con un contributo, a riavviare in Iraq la coltivazione di soia, non geneticamente modificata; ma non più per gli animali, bensì per la diretta alimentazione umana. I semi provengono dal Centro di ricerca agricola di Dohuk e da una banca di semi biologici americana. Partner importanti del progetto sono l’Istituto iracheno per la nutrizione e la facoltà di agraria di Baghdad, dove il professor Sahouki decenni fa aveva sviluppato una proposta relativa al «latte» di soia; ma al regime non piaceva. Adesso, a coltivarla si è detto disponibile anche un allevatore di polli un po’ a disagio (e poi con quel caldo son sempre malati).

 

Intanto Martin ha ritrovato e coinvolto il giovane Salam, conosciuto un anno prima mentre l’iracheno organizzava con altri studenti il giornale Al Muhajaa.

 

Con semplici macchinari – costruibili anche in Iraq – dai fagioli di soia si ricavano latte, germogli, formaggio, crocchette, farina, dolcini, biscotti proteici. Ma… la soia: non sarà forse percepita come un’americanata in Iraq, l’ennesima? Plenty si è posta il problema e ha organizzato alcuni seminari preparatori con assaggi, per genitori, bambini, docenti universitari, lavoratori sociali, piccoli imprenditori, cuochi d’ospedale; tutti hanno espresso interesse e trovato che quegli alimenti sono anche adattabili ai gusti locali. Del resto il più proteico e bilanciato e versatile di tutti i legumi è ben più asiatico che yankee.

 

Agli inizi di aprile Martin era in giro per il nord, mentre i militari del suo paese martirizzavano Falluja. Peccato, perché in quei primi giorni, gli iracheni di Baghdad si affannano in moschee e chiese e ogni luogo a raccogliere aiuti per portarli a Falluja, sperando di evacuare feriti. Ma hanno bisogno di qualche straniero che accompagni i loro autobus, a mo’ di lasciapassare, per non essere rispediti indietro dai militari americani. Bussano a tutte le porte delle ong internazionali che hanno in loco dei cooperanti.

 

Ong asserragliate

 

Ma quelli non cooperano: asserragliati nelle zone più tranquille di Baghdad, non accettano di correre il rischio. (Dopo qualche giorno, come tutta Baghdad, manderanno a Falluja con aiuti il loro personale iracheno; ma hanno intanto perso un’ottima occasione per rendersi utili, in un paese per il resto così ricco di competenze umane che quelle straniere non servono proprio).

 

Disperati, gli iracheni bussano alla porta della giovane inglese Jo Wildings. Lei è in Iraq da mesi, fa spettacoli da circo (senza animali) con i bambini, come già in Bosnia, Serbia, Afghanistan. Jo si fa una semplice domanda – «chi ci va sennò?». E per risposta, li accompagna lei i bus iracheni a Falluja, sventolando il passaporto anglosassone. Più tardi, non si potrà più fare. Riescono a tornare vivi dall’inferno riportandone pazienti gravi. L’avrebbe fatto anche Martin, fosse stato in zona; e l’avrebbe fatto Song-Ji, il coreano, che si autodefinisce «primo pacifista a tempo pieno della Corea» (è sostenuto da un forte gruppo di appoggio laggiù). E’ tornato in Iraq da poche settimane e con Martin vuole costruire a Baghdad il primo «Centro di educazione alla pace».


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