Una piccola comunità di femministe sperimenta un altro modo di raccontare quanto è accaduto.
di Stefania Scateni
C’è storia e storia, anzi ce ne sono tante. Dal 2006, alla Libreria delle Donne di Milano una piccola comunità di donne (sono sei: Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Laura Modini, Giovanna Palmeto, Marina Santini, Luciana Tavernini) si occupa di “storia vivente”, una pratica nata da una ricerca storica iniziata da Martinengo con l’intento di dedicare attenzione alla storia, la più politica delle discipline; vogliono cambiare la storia insegnata a scuola, prendere le distanze dai manuali di storia e mettere in discussione l’uso del linguaggio neutro.
Cominciano a sfogliare il passato, vanno a vedere i livelli di resistenza femminile resi opachi dalle interpretazioni storiografiche riduttive e fuorvianti, ragionano sull’assenza dalla storia delle comuni vite quotidiane di donne e uomini, assenza che fa della storia un pianeta deserto, freddo; scoprono un filo continuo di libertà femminile che percorre il passato e giunge fino al presente, individuabile in tracce lasciate nel tempo. Portano avanti la ricerca storiografica con finalità educative e politiche: lavorano per un cambio di civiltà.
Il gruppo ha una relazione privilegiata e costante con la storica spagnola María Milagros Rivera Garretas, con cui si confrontano, con le storiche di Duoda e scambi con Monica Martinat dell’Università di Lione.
Per capire meglio che cosa sia la storia vivente abbiamo chiesto aiuto a Laura Minguzzi. «Sono, siamo, da tanti anni in questa Comunità», racconta Laura. «Abbiamo iniziato su suggerimento di Marirì, che aveva proposto di lavorare a una disanima sulle badesse del Medioevo e ne nacque un libro, Libere di esistere. Nel 2005 Marirì Martinengo decise di raccontare la propria storia incentrata su sua nonna, che venne fatta sparire dalla famiglia, borghese; chissà di quale macchia si era sporcata. Marirì trovò qualche traccia, foto, racconti e riuscì a sapere che la nonna era stata “rinchiusa” in una casa di cura e nessuno la nominò più. Quel lavoro coinvolse emotivamente l’autrice, anche lei era dentro la narrazione. Era un nuovo modo di raccontare la storia.»
L’anno dopo il gruppo abbraccia questo nuovo approccio alla storia: non più ritratti in contesto di donne del medioevo, ma partire da sé, indagare i nodi che hanno condizionato la propria vita e poi andare nel mondo.
Ma in concreto come lavorate? «La storica mette in discussione la sua specificità e rinuncia alla sua neutralità – spiega Laura Minguzzi – La voce di chi scrive è coinvolta, ma non si tratta una storia di sentimenti, bensì di libertà dentro la storia e “verità”, a partire da se stesse, per affrontare i nodi irrisolti della nostra vita. Fondamentale è la pratica dell’ascolto del gruppo. Si legge il testo alle compagne e poi se ne parla: prima il racconto è orale, a seguire la scrittura e poi la lettura alle compagne. Curiamo in modo particolare la scrittura.»
La storia vivente ha qualche attinenza con un genere letterario già sperimentato, che mescola la storia e autofiction, pensiamo per esempio ai meravigliosi libri di W.G. Sebald oppure di bestseller di Emmanuel Carrère ma, senza offesa, la vostra pratica assomiglia a una terapia di gruppo o un’autoanalisi… «Non sono d’accordo – ribatte Laura -, la nostra pratica è soprattutto una pratica politica, scriviamo per trasformare noi stesse e le relazioni con l’altro e di conseguenza cambiare la politica. Lavoriamo per avere più autorità, per agire, porre questioni alla storia«.
Chiedo: avete incontrato donne in Italia o all’estero che hanno sperimentato qualcosa che si avvicina alla storia vivente? «Il nostro desiderio è che anche altre donne sperimentino la pratica della storia vivente. Qualcosa si muove anche all’estero, abbiamo individuato in alcuni testi, pratiche simili alla nostra. Per esempio nei libri di Svetlana Aleksievič, una giornalista bielorussa che racconta le tragedie del mondo ex-comunista; nel suo ultimo libro Tempo di seconda mano affronta, a partire dalla rivelazione di un non detto da parte del padre, un frangente storico problematico del suo paese. Oppure la documentarista Reynalda Del Carmen, che ha lavorato su un nodo familiare e politico: il silenzio della madre sulla scomparsa della sua amica più importante durante la dittatura nel Cile».
Intanto due della Comunità hanno sperimentato un altro modo di fare storia. Marina Santini e Luciana Tavernini hanno pubblicato un libro di storia del femminismo, Mia madre Femminista. Voci da una rivoluzione che continua, edito da Il Poligrafo, con la collaborazione di decine di donne.