di Franca Fortunato
Il 24 novembre è stato l’anniversario dell’uccisione di Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa nel 2009 dalla ’ndrangheta per mano del marito Carlo Cosco, condannato all’ergastolo in via definitiva insieme ad altre quattro persone. La fiction televisiva di qualche giorno fa su Lea e sua figlia Denise, che nel processo ha testimoniato contro il padre, in nome della madre, ha avuto il merito di portare la loro storia in tutte le case italiane. Resta l’interrogativo del perché il regista Marco Tullio Giordana abbia rifiutato come colonna sonora “La Ballata di Lea”, scritta dalla cantastorie catanzarese Francesca Prestia, che in questi anni l’ha portata in giro per l’Italia, facendone conoscere la storia prima del film. A distanza di sei anni dalla sua uccisione, a dimostrazione della giustezza della sua scelta, altre donne hanno seguito il suo esempio e quello delle altre come lei, per nulla impaurite dalla reazione violenza degli uomini di ‘ndrangheta che uccidono le “loro” donne che osano uscire dal “ruolo” di complici, che generazioni di madri, mogli, sorelle, hanno garantito loro, facendosi custodi delle “leggi” mafiose. Sempre più donne scelgono la propria libertà alla sottomissione e alla violenza della “legge del padre ’ndranghetista”. Mi riferisco ad Annina Lo Bianco, compagna del presunto boss di San Ferdinando, Gregorio Malvaso, che è divenuta collaboratrice di giustizia in nome dei suoi tre figli maschi, destinati a diventare anche loro ’ndranghetisti. Come Giuseppina Pesce e Maria Carmela Cacciola, Annina ha testimoniato contro la cosca dei Bellocco di Rosarno, a cui il marito è affiliato. «Mi trovo qui per i miei figli, non voglio che crescano secondo gli ideali e i valori sbagliati come quelli che sono stati finora impartiti loro dal padre. Non voglio che i miei figli crescano in questi ambienti di ’ndrangheta.» Che sia così l’ha confermato il figlio maggiore, un bambino di undici anni a cui il padre ha negato l’innocenza dell’infanzia, avviandolo da piccolo piccolo sulla strada mafiosa, che l’avrebbe portato a diventare un picciotto delle ’ndrine. Si tratta del ragazzino, collaboratore di giustizia, che col consenso materno ha raccontato ai magistrati di come ha visto maneggiare pistole sin da piccolo, di sapere che cos’è la droga per averla «sempre vista nel garage», di come si chiede il pizzo e di sapere dell’appartenenza del padre alla cosca Bellocco dove «era il braccio destro del capo». Insieme ad Annina Lo Bianco, un’altra donna, Stefania Rita Secolo, ha raccontato agli inquirenti dell’attività di usura della cosca Bellocco. Attività di cui aveva parlato a Maria Concetta Cacciola che quando iniziò a collaborare con i pm disse loro di essere a conoscenza di questa usura del clan Bellocco. Un’altra donna Giuseppina Multari, cognata di Maria Concetta Cacciola, moglie di Antonio Cacciola, morto suicida – o presunto tale – nel 2005, è diventata collaboratrice di giustizia contro la famiglia Cacciola, collegata alla cosca madre dei Pesce. Dopo anni di violenze da parte della famiglia Cacciola, che le ha addossato le colpe per il suicidio del figlio, minacciando lei e i suoi genitori di morte, Giuseppina nel 2006 decise di collaborare con la giustizia per allontanare i suoi figli dai Cacciola. «Non voglio che i miei figli crescano da ’ndranghetisti, spacciatori e sappiano utilizzare le armi.» Accanto alle donne che decidono di diventare testimoni o collaboratrici di giustizia, ce ne sono tante altre che, con vari stratagemmi, cercano di salvare i propri figli da un futuro certo di ’ndranghetisti. Sono le madri che, sfidando la vendetta dei mariti o di altri componenti della famiglia di ‘ndrangheta , sempre più numerose bussano alla porta del tribunale dei Minori di Reggio Calabria in cerca di aiuto. Chiedono ai magistrati di allontanare i propri figli dalla famiglia. «Di notte mio figlio ha gli incubi, prova a parlare ma non gli esce la voce, poi quando ce la fa racconta di morti ammazzati, pistole. E se gli chiedo cosa ha sognato inizia a piangere: “mamma ho sognato lo zio morto ammazzato in quell’agguato, ho paura che anch’io o papà possiamo morire così”», è questo il racconto di una di loro. È il grido di aiuto di madri, di donne, che non vogliono più sottostare alla legge criminale della ’ndrangheta. Donne e madri che vanno aiutate ad abbandonare i loro uomini. È la famiglia mafiosa che continua ad andare a pezzi, grazie a queste donne e a quelle – come Lea Garofalo – che hanno aperto nel mondo della ’ndrangheta la strada irreversibile della libertà femminile, che porterà alla distruzione della famiglia mafiosa, architrave su cui si regge la ’ndrangheta.
(Il Quotidiano del Sud, 28 novembre 2015)