da Alias “il manifesto del 2 gennaio 2016
di Graziella Geraci
Indagine aperta sulle relazioni fra i sessi
Intervista. L’artista iraniana Shirin Neshat è una delle protagoniste del nuovo calendario Pirelli, affidato alla magia fotografica di Annie Leibovitz
Artista eclettica, Shirin Neshat esplora attraverso l’arte visiva il mondo femminile nella cultura islamica svelando le contraddizioni, le limitazioni, la poeticità e la sensualità che convivono in una cultura millenaria. Foto, installazioni, film si intrecciano nella produzione dell’artista iraniana con progetti musicali ed episodi al limite del fashion come lo scatto di Annie Leibovitz che la vede protagonista per il calendario Pirelli del 2016, scelta, insieme ad altre undici donne, come simbolo di una femminilità contemporanea influente e di successo.
Shirin Neshat continua ad indagare se stessa e l’essere donna in tutte le sue accezioni, partendo da un vissuto che la vede bilanciare perfettamente il mondo occidentale e quello mediorientale.
Cosa pensa del nuovo stile del calendario Pirelli e cosa ha provato quando Annie Leibovitz la ha contattata per posare per «The Cal»?
Non conoscevo molto il calendario della Pirelli ma ho accettato per la reputazione di ottima fotografa di Annie Leibovitz. Successivamente quando ho visto le passate edizioni del calendario ho pensato che Annie fosse estremamente coraggiosa per cambiare l’identità di un prodotto così affermato da calendario sexy a qualcosa che non si basa sulla bellezza fisica ma sui risultati raggiunti dalle donne. Inutile dire che sono stata lusingata di far parte della sua selezione e penso che le immagini siano veramente fantastiche opere d’arte.
Qual è il suo rapporto con l’Italia e l’arte di questo paese?
L’Italia è stata determinante per l’evoluzione della mia carriera iniziata nella galleria di Lucio D’Amelio nel 1996. Ho anche ricevuto i premi più importanti in Italia: uno di questi è stato il Leone d’Oro della Biennale di Venezia (arti visive) nel 1999 e poi il Leone d’Argento al Festival Internazionale del Cinema di Venezia per il mio film Donne senza uomini, nel 2009. A settembre del 2015 sono stata a Bari per Passage through the world, un viaggio nella musica di Mohsen Namjoo per il quale ho realizzato con Shoja Aza la scenografia. È stato molto interessante e ho interagito con alcune donne anziane, delle lamentatrici, che sono entrate nello spettacolo e nella mia installazione video. Mohsen Namjoo ha avuto l’idea della musica che viaggia dall’est all’ovest attraverso diverse culture: l’idea l’ho trovata suggestiva, soprattutto per il particolare momento di conflitto tra cristiani e musulmani, tra oriente ed occidente, che stiamo attraversando. In questo progetto c’erano infinite possibilità da sviluppare: l’idea della musica mistica islamica, la circolarità della danza sufi, l’idea del mentore e dei suoi accoliti e un tipo di religiosità che si esprime nelle lamentatrici italiane.
C’è una differenza, secondo lei, tra l’arte occidentale e quella orientale?
È difficile generalizzare perché io vivo in mezzo alle due culture: emotivamente sono molto iraniana ma la mia educazione è occidentale. Quando sono a New York mi sento parte dell’occidente, quando sono in Italia mi sento orientale, sono completamente divisa in due, nel lavoro, nello stile, anche nel mio modo di vestire. C’è una grande differenza tra le due culture ma le emozioni umane sono il legame che le unisce. Con l’arte cerco di mostrare cosa realmente abbiamo in comune, uso l’iconografia, la musica e le immagini iraniane ma il mio lavoro è la ricerca, cercare umanità. Siamo uguali, abbiamo gli stessi sentimenti: tu soffri come soffro io, tu ti innamori proprio come mi posso innamorare io, tu sei libero, io sono libera … il potere dell’arte è rintracciare le assonanze nelle esperienze umane. C’è differenza nella lingua, nella religione e nello stile di vita, ma contemporaneamente esiste l’universalità dell’umanità. L’arte è l’unico modo per setacciarla. Una buona opera d’arte dovrebbe avere le due qualità: mostrare le divergenze e le cose comuni. Il mio lavoro è molto islamico: è basato sulla mia esperienza di donna iraniana, è particolarmente concentrato sull’Iran. Eppure nello stesso tempo, visto che vivo fuori dal mio paese, cerco i paradossi.
Nel suo film «Donne senza uomini» la relazione tra i due sessi non è positiva: è lo specchio della situazione in Iran o è una condizione globale?
Niente affatto. Il film è basato sul romanzo omonimo della scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur e, a mio parere, la sua storia descrive le donne che non riescono a gestire le relazioni con gli uomini e a fronteggiarli. Il film è stato stilisticamente concepito nell’ambito del realismo magico. La storia si svolge nel 1953, non si tratta dell’Iran attuale, è un’allegoria e non una rappresentazione realistica della cultura iraniana.
Cosa pensa delle primavere arabe? Si intravedono cambiamenti per le donne?
Sono andata a Piazza Tahrir due volte. L’Egitto ha vissuto una sorta di onda verde, come quella iraniana. Questi movimenti hanno mostrato un nuovo concetto di famiglia nella quale le donne sono attive, sono intelligenti e si muovono all’interno della società. C’è una nuova generazione di donne erudite ed intraprendenti: in più, non sono come le occidentali che per partecipare alla politica devono necessariamente emulare gli uomini. Amo quel loro dinamismo mediorientale in cui le donne continuano a essere molto femminili, non competono con gli uomini e la loro partecipazione alla rivoluzione è stata un fatto naturale. Questa nuova generazione mi ha ispirata: la mia e quella precedente non ha avuto accesso all’educazione. Nella mia famiglia sono la sola a lavorare e a guadagnare, le mie sorelle hanno avuto la fortuna di andate tutte a scuola, ma si sono sposate e hanno fatto figli, accettando un ruolo tradizionale. La generazione attuale è composta da donne istruite al 95%, lavora, che hanno dimistichezza con la tecnologia e conoscono il mondo anche attraverso i social media. Non è una condizione così distante dalle possibilità che hanno gli uomini e questo status è nuovo per noi.
Ma la situazione dal punto di vista politico non sembra mutata, in Egitto si è instaurato di nuovo un potere militare. Il problema persiste, le donne stanno cambiando, ma la società probabilmente è ancora indietro. Il governo non ha la capacità di aiutare la trasformazione, anche se ora è difficile ricacciare le donne nella situazione precedente.
Quali sono i suoi progetti nel prossimo futuro?
Sto lavorando a un film sulla vita di Umm Kulthum. La cantante egiziana è morta nel 1975, ma ancora oggi è la voce più popolare nel Medio Oriente, è amata in Egitto, in Israele, in Algeria, in Marocco e in altri Stati. La sua figura è molto complessa. Era una donna mediorientale che per raggiungere il successo doveva essere non convenzionale, a suo modo progressista. Non ebbe mai figli, probabilmente era gay, era comunque circondata da uomini, viveva in una società maschilista, era nazionalista… tutti spunti interessanti.
Nel 2017, al Festival di Salisburgo realizzerò la regia dell’Aida. Mi interessa la sperimentazione, come artista sono propensa a fare sempre cose nuove, mi annoiano le ripetizioni. Quando Riccardo Muti mi ha contattata per l’Aida, la sua proposta mi ha spaventata, ma contemporaneamente stimolata: è qualcosa di completamente nuovo per me ed è un rischio.
Infine, sto terminando di girare alcuni video che vorrei esporre alla mia prossima mostra alla galleria Gladstone di New York. Ho intenzione di realizzare una trilogia, tre cortometraggi che hanno come soggetto i sogni. Lo stile sarà concettuale, come per gli altri video Turbulent o Rapture, saranno in bianco e nero e con una donna come protagonista. Avevo già realizzato per la Viennale un filmato di 3 minuti con Natalie Portman, ora è di 10 minuti e farà parte della trilogia che chiamerò Dreamers. Questo per ora è tutto, poi vedrò in corso d’opera.