Tiziana Garlato – Femminismo Libertario
PREMESSA
Il presente documento, che ci accingiamo a rendere pubblico e divulgare per quanto ci sarà possibile – e con la volontà di organizzare diversi momenti di incontro per la sua discussione con altre donne – nasce da un moto di ribellione: il gruppo cui chi scrive appartiene – Femminismo Libertario – aveva aderito alla manifestazione dello scorso 14 gennaio organizzata da “Usciamo dal Silenzio”, ma da una posizione critica – espressa e ribadita in assemblea e nel Forum – rispetto all’impostazione “difensivista” sulla legge 194.
Dal 1975 al 1982 ho preso parte attiva in prima persona a tutte le fasi che precedono e seguono quella legge, avendo militato nel Movimento di Liberazione della Donna e coadiuvato il C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto) nel percorso politico che andò dalle autodenunce per procurato aborto alla raccolta di firme per la sua depenalizzazione, fino alla reazione consumatasi in ambito parlamentare con il varo della 194 e ai due referendum contrapposti del 1981. Sulla scorta di quella esperienza, insieme a Vanna Perego, nuovamente compagna di strada e allora attivista nel C.I.S.A. , che qui ringrazio per il prezioso contributo, ho cercato di ripercorrere con le compagne di Femminismo Libertario le tappe di quella stagione per poter meglio affrontare l’attualità.
Che quella fosse una pessima legge, e che il suo “funzionamento” (oggi da più parti sbandierato) sia dipeso da una sostanziale “non applicazione letterale”, son cose, queste, di cui siamo tutt’ora convinte .
Ci è parsa quindi inquietante l’ondata di richieste di una sua “piena applicazione” (si badi bene: sia dal fronte “abortista” che da quello antiabortista), e urgente l’esigenza di ricompattare quella consapevolezza che le donne certamente avevano avuto quando affermavano che nessuna legge avrebbero accettato sul proprio corpo.
L’impressione è quella che, in particolare le nuove generazioni di donne, questa legge non l’abbiano letta: siamo convinte che sia necessario leggerla (o ri-leggerla), e conoscerne la storia; e questo è l’invito che ci sentiamo di rivolgere a tutte le donne che incontreremo.
L’intento di questa analisi è pertanto quello di fornire uno strumento comune, una base minima per tracciare un percorso diretto a valutare insieme l’opportunità e la praticabilità di azioni politiche in ordine alle leggi di cui si tratta.
Lo sforzo sarà quello di limitare il più possibile lo spazio delle “opinioni”, per privilegiare invece quello riservato a una successione coerente di eventi storici e citazioni testuali documentati o documentabili, evitando al massimo possibili interpretabilità.
L’eccezione che mi consentirò sarà relativa alla sottolineatura di quanto gli elementi di tale successione possano far emergere per deduzione logica.
Infine: il senso conferito a questo lavoro – anche per il suo carattere grossolanamente riassuntivo – esula decisamente dall’accademismo ed è innanzitutto quello di mostrare quanto le Leggi siano indicatori che consentono di guardare, cercandone la coerenza e il senso, agli accadimenti storici in chiave politica: in particolare le tre leggi prese in esame sono indicatori di una vicenda che si dipana nell’arco di 30 anni, e in qualche modo sono il riscontro della risposta reazionaria alla “rivoluzione femminista”. Si tratta di un percorso che – alla luce del risvolto e del precipitato istituzionale frutto dell’impianto giuridico analizzato – può mettere in evidenza l’ovvietà consequenziale dell’attuale recrudescenza del dogmatismo cattolico, nella sua pretesa di essere dirimente nelle questioni legate alle libertà individuali e nell’intento di informare lo spirito del Legislatore.
Al lavoro collettivo il compito di trarre e di elaborare eventuali spunti di azione.
Il Movimento Femminista degli anni ’70, la forza di rottura degli anticoncezionali.
E’ cosa nota quanto di rivoluzionario abbia prodotto il percorso di autodeterminazione delle donne, a partire dall’affermazione di una gestione libera e non subordinata della propria sessualità: non di sola contraccezione si parlava, ma di una messa in discussione a 360° del rapporto con il maschio e in particolare delle pratiche sessuali che relegavano le donne nel ruolo passivo/riproduttivo.
Si andava affermando anche una pratica denominata “self-help” (auto-aiuto), che attaccava l’atavico strapotere della classe medica sui corpi femminili, e specialmente quello del “ginecologo”: le donne del Movimento davano vita a Consultori autogestiti, avvalendosi della collaborazione di ginecologhe compagne di lotta, iniziando ad esempio ad utilizzare tra di loro lo speculum.
Questo percorso – di necessità qui solo sommariamente tracciato -proprio perché centrato sulla sessualità metteva in crisi e ridisegnava in maniera irreversibile i rapporti con l’altro sesso.
Se è vero che la legge sui consultori, varata nel 1975, esprimeva in ogni caso una logica familistica basata su una sessualità eterodiretta, tuttavia indubitabilmente fotografava il mutamento profondo che il femminismo aveva impresso, se non altro perché la contraccezione, che liberava la sessualità femminile dalla mera sfera riproduttiva, diveniva strumento di massa promosso da una legge dello Stato, veicolando (al di là degli effetti pratici) un immaginario collettivo in radicale mutamento.
Complice la propulsione data dall’affermazione del divorzio, la centralità data dal Movimento alla sessualità determinava in generale l’erompere nel pubblico di questioni private: la stampa dava sempre più frequentemente conto delle denunce che le donne iniziavano ad avere il coraggio di sporgere nei casi di stupro. Si assisteva alla mobilitazione di donne avvocato che si battevano contro l’inveterata impostazione data ai processi da corti giudicanti e colleghi maschi difensori degli stupratori, consistente nel teorema per il quale la donna stuprata ha in ogni caso “provocato” o non ha opposto adeguata resistenza.
Nascevano in tutta Italia i “centri antiviolenza” autogestiti, cui le donne potevano rivolgersi per avere assistenza legale o semplice ascolto e solidarietà.
Dai dati raccolti in questi centri emergeva un tasso elevatissimo di violenza domestica.
Il M.L.D. (Movimento di Liberazione della Donna) stendeva, insieme all’avv. Tina Lagostena Bassi, una proposta di legge di iniziativa popolare, per la quale raccoglieva 300.000 firme che consentivano la sua presentazione in Parlamento. La proposta sarebbe stata discussa assieme ad altre di iniziativa parlamentare, e si sarebbe arrivati al varo di una legge in materia di violenza sessuale: il reato di stupro cessò di essere “reato contro la morale” per divenire “reato contro la persona”, con mutate conseguenze di ordine penale e procedurale.
E’ in questo clima, in cui la sessualità, la “maternità libera e cosciente”, la gestione del proprio corpo erano istanze che si affermavano anche oltre l’ambito del Movimento, che venne varata nel 1975 la Legge 405 che istituiva i Consultori Familiari http://temi.provincia.milano.it/serv_soc/famiglie/normativa/1975_legge405.pdf ; questa Legge, pur con tutti i limiti più sopra evidenziati, tuttavia registrava il mutamento avvenuto nei costumi sulla spinta dell’azione femminista: all’art.1 si parla di “maternità e paternità responsabili”; si individua tra gli scopi dei consultori “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica e psichica degli utenti”, e ancora “la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso”. Infine, per una comparazione con la 194, è utile sottolineare il contenuto dell’art.3, che riporto integralmente: “Il personale di consulenza e assistenza addetto ai consultori deve essere in possesso di titoli specifici in una delle seguenti discipline: medicina, psicologia, pedagogia ed assistenza sociale, nonché dell’abilitazione, ove prescritta, all’esercizio professionale”. Vedremo in seguito quanto più “laico” ed avanzato sia questo articolo paragonato a quanto previsto dalla 194 circa il personale addetto.
Aborto clandestino, referendum, Legge 194, referendum del 1981.
Va detto, a proposito dell’accennata pratica del “self-help” adottata in veri e propri consultori autogestiti dalle donne del Movimento, che naturalmente in quel contesto si poneva anche il problema delle gravidanze indesiderate.
Come si sa il fenomeno massiccio quanto sommerso degli aborti clandestini registrava interventi praticati in cliniche private a prezzi elevatissimi per chi poteva permetterselo e, per tutte le altre, interventi praticati con decotti di prezzemolo e ferri da calza dalle cosiddette “mammane”, a prezzi più abbordabili ma con serissimi rischi per la vita delle donne e in ogni caso per la loro salute.
Nei consultori del Movimento si ricorreva all’aiuto delle compagne ginecologhe: ovviamente, data la situazione di clandestinità, anche qui i rischi non erano indifferenti. Tuttavia le ginecologhe attive nel Movimento iniziarono a diffondere un metodo abortivo più sicuro, sia perché non richiedeva l’anestesia (ed era anche, perciò, molto meno doloroso) sia perché non comportava il “raschiamento”, ovvero l’asportazione dell’ovulo fecondato raschiando l’endometrio con un arnese chiamato “cucchiaio” (il metodo usato nelle cliniche private dai “cucchiai d’oro”).
La nuova metodologia era denominata “Karman”, dal nome dell’ideatore dell’apparecchiatura che consentiva di “aspirare” l’ovulo senza ledere per abrasione i tessuti dell’utero.
La vastità del fenomeno degli aborti clandestini indusse il M.L.D., nel 1972, ad abbozzare una proposta di Legge per una regolamentazione. Tuttavia da un lato la più parte del Movimento era contraria a legiferare, propendendo per la totale depenalizzazione, dall’altro si era aperto con le donne dell’U.D.I. (Unione Donne Italiane), perlopiù legate al PCI, un dibattito di retroguardia: l’UDI sosteneva ad esempio che le donne cattoliche non sarebbero state ancora pronte per un’apertura sull’aborto.
Il MLD fu convinto dalle posizioni maggioritarie del Movimento, abbandonò l’idea del progetto di legge e si risolse poi a supportare l’azione del Partito Radicale per un referendum totalmente abrogativo della legge che perseguiva l’aborto come reato.
Tale azione aveva preso l’avvio con la nascita, su iniziativa di Adele Faccio, del C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto): i consultori del CISA divennero il maggiore riferimento per i milioni di donne che decidevano di interrompere la gravidanza, sia perché i costi erano “politici” (ma anche pari a 0 se la donna non disponeva di denaro) sia perché le condizioni di sicurezza erano le più elevate possibile: metodo Karman, ginecologi più o meno politicizzati, donne che “assistevano” instaurando anche rapporti di solidarietà e aiuto psicologico. L’attività dei consultori CISA si estendeva all’organizzazione di viaggi in Inghilterra per gravidanze oltre il 3° mese e per le minorenni, oltrechè ad una capillare informazione sui metodi contraccettivi.
Si era creata in tutta Italia una “rete” di luoghi fisici in cui praticare gli aborti: al di là della clinica del dr. Giorgio Conciani di Firenze (messa a disposizione con intento dichiaratamente politico), si trattava di abitazioni private che molte donne – del CISA ma anche del MLD e del Movimento in generale – mettevano a disposizione periodicamente. La sottoscritta all’epoca dava la propria casa due volte alla settimana, avendone adibito una stanza allo scopo: qui si trovava un lettino ginecologico e nel box veniva rimessato l’apparecchio Karman .
Va da sé che eravamo in tante e in tanti a rischiare la galera, oltre alle donne che abortivano.
E, appunto, l’occasione politica era quella di una azione nonviolenta che, obbligando lo Stato ad applicare una sua propria legge, ne smascherasse l’ingiustizia e l’ipocrisia portando in emersione la piaga degli aborti clandestini.
Si iniziò con le autodenunce per aborto e procurato aborto. Nulla: nessuno arrestava nessuno. Dopo un’escalation di autodenunce anche da parte del CISA come intera associazione, del Partito Radicale in quanto tale, del dr. Conciani in quanto medico, l’autorità costituita non potè più ignorare la cosa.
Era il gennaio1975: finirono in galera Adele Faccio, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia e Giorgio Conciani.
L’eco di cronaca fu vastissimo, la solidarietà popolare altrettanto e prese il via nello stesso anno la raccolta di firme per l’abrogazione totale della Legge (inserita nel Codice Rocco, di epoca fascista) che vietava l’aborto.
Questa iniziativa, che naturalmente non esauriva i temi dell’ampio percorso di elaborazione femminista sulla sessualità, tuttavia andava nella direzione auspicata di una totale depenalizzazione e non furono poche le donne del Movimento che presero parte attiva nella raccolta di firme. Le quali firme superarono le 500.000 prescritte per l’indizione del referendum abrogativo.
Sennonché nel 1976 si sarebbero tenute le elezioni politiche e la data utile per indire il referendum sarebbe slittata di parecchio (se non erro di 2 anni).
E’ cosa nota che l’asse DC/PCI non aveva alcuna intenzione di indire il referendum per il palese nocumento e intralcio che questo avrebbe comportato all’avanzato stato dei lavori sul Compromesso Storico. (Del resto solo pochi anni prima la stessa ritrosia aveva caratterizzato l’atteggiamento del PCI sul divorzio).
La prima deduzione logica dai fatti esposti si innesta esattamente a questo punto: perché è a questo stadio che la cronaca dei fatti, unita alla lettura dei testi di legge, autorizza a dedurre l’inizio di una fase di “reazione” alla “rivoluzione” femminista.
Mentre con la legge 405 sui consultori si era verificato il recepimento in sede istituzionale delle istanze di un’opinione pubblica ormai orientata dalle lotte femministe, dopo la raccolta di firme per la depenalizzazione dell’aborto, se si volle evitare il referendum attraverso un disegno di legge parlamentare fu perché si temeva (anche questa volta a fronte di un’opinione pubblica orientata) la vittoria dei “sì”; tanto più che le piazze si andavano riempiendo di donne che mettevano in guardia: “nessuna legge sui nostri corpi”.
E, in ogni caso, la Legge che sortì dalla mediazione parlamentare, la 194, ebbe l’unico pregio (certo non indifferente) di stabilire le regole per le quali l’aborto non sarebbe più stato reato. Ma appunto queste regole esprimono il carattere reazionario e restauratore dell’intervento statale da quel momento in avanti (il culmine sarà palesato dal testo della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita). Si allega a questo proposito l’intervento di Emma Bonino alla Camera nel 1976, intervento di voto contrario al testo della 194.
Entriamo nella 194 http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l194_78.html. Una prima osservazione sul titolo; il quale, prima di riferirsi all’i.v.g., esordisce così: “Norme per la tutela sociale della maternità…”. Non dovrebbe apparire forzato osservare che, forse, un primissimo vizio di fondo si annida proprio in questo espediente agito da una stessa Legge che accorpa, come in una medaglia con il suo rovescio, maternità e aborto, quand’anche fosse accettabile che la maternità possa essere oggetto di “tutela” (si spera di stampo non fascista). Ci torneremo; veniamo ora all’ art.1: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. […] …evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
Questo incipit ha lo stesso sapore che avrebbe lo Statuto dei Lavoratori se si premurasse di sottolineare il “valore sociale” del diritto alla serrata da parte dei padroni. Ma soprattutto è l’inizio della “sterzata”: passiamo cioè da una legge dello Stato che promuove “i mezzi […] liberamente scelti dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile” a una legge dello stesso Stato che promuove “il valore sociale della maternità”. Può piacere o meno, ma non ci si può sottrarre alla constatazione per cui lo spirito laico, non “confessionale” della 405 viene rimpiazzato da una formulazione tipica dello “Stato Etico”. Non sarebbe azzardato immaginare che le forze conservatrici (di tutto l’arco costituzionale), avendo dovuto “obtorto collo” tollerare il fatto compiuto di costumi sessuali mutati, non si sia piegata a tollerare il possibile venir meno della rappresentazione patriarcale della “donna = madre”, sancendone per legge “il valore” in assoluto.
In effetti tutto il testo di legge è improntato alla valorizzazione etica, nemmeno troppo occultata, della donna che decide di proseguire la gravidanza, a tutto scapito dell’immagine di quella che, dopo avere superato tutti i “paletti” previsti, decide di non volere un figlio, tanto che lo Stato le chiede di motivare la sua decisione escludendo che una donna possa in modo autodeterminato dire semplicemente “non voglio un figlio”.
Per l’approfondimento di tali “paletti” si rimanda alla lettura integrale dell’art.2, il cui spirito è comunque ben riassunto al comma d), che prescrive ai consultori di contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” (si noti che l’uso del condizionale prefigura già la Donna – qualunque donna – bisognosa di tutela e incoraggiamento unidirezionale, nella sua supposta e presunta incapacità costitutiva di decisione. In ogni caso non è dato conoscere come si contribuirebbe “a far superare le cause che potrebbero…”: soldi? psicofarmaci? Sensi di colpa?).
La stessa cosa viene ribadita all’art.5: “Il consultorio e la struttura socio sanitaria […] hanno il compito in ogni caso […] di esaminare […] le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, […], di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto […]”.
Anche al medico, più sotto nello stesso articolo, è prescritto il compito di informare la donna “sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può far ricorso”. Già fin qui è evidente lo stampo dissuasivo del testo: teniamo presente sin d’ora (servirà poi) lo scenario che si proporrebbe qualora anche il poco che abbiamo esaminato dovesse essere attivato per la richiesta di una “piena applicazione”.
Ma se questo non bastasse, lo stesso art.5 prescrive altri tentativi atti a scongiurare la decisione finale che non dovesse essere quella della prosecuzione della gravidanza: il medico infatti “valuta con la donna […] le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza”. A questo punto la donna esce dalla scena decisionale già angusta, perché il “carattere di urgenza” non può essere ravvisato dalla donna stessa, e nemmeno insieme alla donna stessa come per tutto il resto; no: arbitro per l’urgenza è solo il medico. Il quale – verrebbe fatto di pensare: con le spalle al muro! -, se non ravvisa l’urgenza, “di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’art.4” (problemi economici, psicologici, fisici ecc.), “[…] la invita a soprassedere per 7 giorni”. Trascorso il biblico termine di 7 giorni l’intervento potrà finalmente essere richiesto e, obiezione di coscienza permettendo, aver luogo.
Torneremo alla fine sulla parte dell’art.2 che fa riferimento al volontariato nei consultori “per i fini previsti dalla legge”.
Ma attenzione fin d’ora: “i fini previsti dalla legge” sono ben dettagliati dall’intero articolo, che non fa minimamente riferimento all’i.v.g., della quale si inizia a parlare solo all’art.4, in un totale di 6 righe che definiscono l’ambito temporale in cui è consentita e i motivi per cui è richiesta ed in base ai quali è ritenuta lecita.
Dell’art. 5 si è detto.
Se ne riparla all’art.6 in termini di aborto terapeutico, regolamentato dalle procedure previste all’art.7.
L’art.8 stabilisce quali siano le strutture abilitate agli interventi, procedure e termini dell’abilitazione, ma soprattutto occulta proditoriamente la possibilità reale di obiezione di coscienza di un’intera struttura ospedaliera. L’obiezione di coscienza è l’oggetto dell’art.9, e se è vero che, tra l’altro, si legge: “gli enti e le case di cura autorizzati sono tenuti in ogni caso a garantire l’effettuazione degli interventi richiesti…”, occorre tornare all’art.8 e leggere: “Gli interventi possono altresì essere praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui a […], sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta”. Come accaduto e accade, se l’ente ospedaliero non ne fa richiesta in quanto l’organo di gestione è formato da obiettori, in quell’ente non si praticano interventi punto e basta.
Dal punto di vista della fruibilità del servizio restano da salvare gli artt. 14 e 15, che prevedono la promozione della formazione del personale da parte delle Regioni, con un apprezzabile riferimento alle “tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza”.
Tutto il resto del testo attiene a questioni burocratiche, all’entità delle pene per i trasgressori e ai casi relativi alle minorenni (per cui varrebbe la pena di aprire un capitolo a parte…) e le interdette per infermità mentale.
Insomma: una legge che si pretenderebbe essere (con evidente falso storico) una “conquista delle donne” in tema di aborto, di fatto si palesa, a chiunque si voglia prendere la briga di leggerla, come lo specchio di un atteggiamento culturale che veicola come “positivo assoluto” il ruolo di madre e come “assoluto negativo” il momento decisionale di una donna che non vuole una gravidanza: allo scopo la legge prescrive norme comportamentali del personale medico e paramedico, rafforzando questo “esercito della salvezza” con la possibile immissione del volontariato a tutela della maternità e del concepito (si passa d’un balzo dall’autodeterminazione alla “tutela”) e, per altro verso, contrasta in ogni modo la decisione di interruzione della gravidanza, che pure dovrebbe essere oggetto della legge medesima.
Torniamo alla questione, di particolare attualità (sollevata grazie allo zelo dell’ex Ministro Storace, apripista del Movimento per la Vita), dell’utilizzo del volontariato nei consultori pubblici.
Con riferimento agli allegati che riportano l’intervento del Collettivo Donne Diritto di Milano, si nota che anche giuriste politicamente orientate non certo in senso antiaborista, dopo aver in qualche modo misconosciuto l’intento dissuasivo dell’art.2, addirittura “valorizzano” la formulazione riferita al volontariato, per piegarla ad una interpretazione perlomeno curiosa, quando sostengono che: “l’art.2 prevede la possibilità di collaborazione volontaria di idonee formazione sociali di base e del volontariato, con riferimento all’aiuto alla maternità difficile dopo la nascita, escludendo così i volontari dalla delicata fase decisionale” (il grassetto è mio).
Rileggiamo però il passo della legge in questione: “i consultori possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Ora: i “fini previsti dalla legge” li abbiamo visti; il volontariato deve essere “idoneo” (si suppone idoneo ai fini) e l’avverbio “anche” non limita affatto, anzi amplia l’intervento del volontariato. Anche volendo propendere per una interpretazione addomesticata del passo, è però lecito supporre che, in presenza di una decisa volontà politica al riguardo, attivata al momento opportuno, il testo di legge, richiesto di “piena applicazione”, supporti, anziché scoraggiare, la legittimità della richiesta del Movimento per la Vita.
Ci si trova poi di fronte alla bizzarria per cui di fatto si ventila la pretesa applicazione di spezzoni di una stessa legge ritenuti “buoni” per sperare che altri, ritenuti “cattivi”, seguitino a non venire applicati; e sarebbe una ben strana concezione della legalità quella che prevedesse, da parte di entrambi i contendenti, la possibilità di una cernita “ad usum delphini” degli articoli da applicare.
Sorprende che questo si intravveda nell’impostazione delle “difensiviste”.
Comunque la si voglia mettere, la legge prevede, eccome, la presenza del volontariato nei consultori, che infatti è invocata dal Movimento per la Vita. Non solo: si può evincere dall’allegato prodotto quanta parte della legge venga chiamata a supportare le richieste e le proposte di Carlo Casini.
E qui veniamo al nodo centrale dell’intera questione: se, per ottenere effetti diametralmente opposti, due parti contendenti chiedono la “piena applicazione” di una medesima legge, qualcosa non quadra; qualcuno non ha debitamente valutato le conseguenze della “piena applicazione”.
E, in effetti, se si guarda all’intera vicenda alla luce dei testi esaminati, dovrebbe risultare chiaro che, non potendosi esporre al rischio di una sconfitta con la proposta dell’abrogazione della 194 e il ripristino del reato d’aborto, il fronte antiaborista cerca – e trova – il miglior alleato proprio nel testo della 194 “applicato alla lettera”, salvo tornare al braccio di ferro tra i contendenti circa gli articoli su cui far leva (e va da sé che non sono i medesimi).
Per conseguenza è una svista quella di chi afferma che la 194 sarebbe “attaccata”, magari attraverso il trucco della modifica della 405: l’obiettivo antiaborista è, viceversa, perseguibile “attaccando” la 405 attraverso il supporto di gran parte della 194 così com’è e proprio per così com’è.
Nella 405 infatti non si parla di volontariato e l’accento è posto sui requisiti di professionalità del personale addetto ai consultori, mentre la 194 parla di “idonee formazioni sociali di base e del volontariato” senza nemmeno menzionare requisiti di professionalità.
Che l’impianto della 194 sia assolutamente funzionale agli intenti del fronte antiaborista, che difatti ne chiede (e non certo per finta) la letterale applicazione, è messo bene in luce dall’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto del 17.1, anch’esso allegato.
Solo per inciso occorre ricordare che nel 1981 fu indetto un doppio referendum parzialmente abrogativo della 194: uno del Movimento per la Vita in senso restrittivo (avrebbe in sostanza lasciato solo l’aborto terapeutico) e uno del Partito Radicale, che avrebbe scarnificato la legge, epurandola innanzitutto dall’art.1 (di stampo etico), ma in generale da tutta la struttura dissuasiva degli articoli 2 e 5, oltrechè dalle restrizioni dell’art.4 e dal “trucco” nascosto all’art.8 sull’obiezione di coscienza.
Vinse il “doppio no”: entrambe le proposte vennero respinte e la 194 rimase intatta, proprio così come era stata partorita dal connubio DC/PCI. Curioso: la Sinistra istituzionale, la stessa che a suo tempo aveva fatto di tutto per scongiurare il successo divorzista, e già avvezza al corteggiamento dell’elettorato cattolico, era riuscita nell’intento di egemonizzare ogni “questione femminile”. Malaccorte in questo senso, le donne in piazza, le stesse che avevano aborrito quella legge, gridavano ora “giù le mani dalla 194”! Il PCI aveva riportato sotto la sua ala la maggior parte del Movimento, che non aveva colto l’occasione per rendere la legge più avanzata e meno “eticista”. L’argomento a favore del “no” al quesito referendario radicale era quello per cui l’i.v.g. avrebbe poi potuto essere praticata anche nelle strutture private.
Mi limito ad osservare due cose: nelle strutture private si continua a poter partorire (cosiccome a poter usufruire di ogni altra prestazione), senza che questo comporti il venir meno da parte dello Stato dell’obbligo di fornire il servizio sanitario; inoltre limitare al servizio pubblico proprio l’i.v.g. significa di fatto consegnare al controllo statale il corpo delle donne (così come in precedenza denunciato dal Movimento femminista): lo Stato monopolista mi dirà – mi dice – come, se, quando e per quali motivi posso abortire.
Forse quel doppio no fu un errore, ma qui siamo davvero nell’ambito delle opinioni che mi riproponevo di evitare.
Quel che ci fa tornare ai fatti storici è che in ogni caso da lì ebbe origine, anche e soprattutto tra le donne, il filone “difensivista” e – mi permetto di dire – “totemista” sulla 194, che fece piazza pulita delle originarie istanze femministe, le quali – chissà – potrebbero, magari con profitto, “uscire dal silenzio”.
Il culmine della reazione: la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita.
E’ cosa recente e nota. In questa sede non c’è spazio per l’argomento, pur rilevantissimo, della ricerca scientifica.
Il cenno indispensabile è quello riferito al trait d’union tra l’art.1 della 194 (la tutela della vita umana “fin dal suo inizio”) e la new entry tra le figure giuridiche, inaugurata dalla legge 40: l’embrione.
Essendo l’intento quello di evidenziare la sequenza, scandita dalle leggi, che da una rivoluzione di stampo laico e libertario porta alla reazione di stampo restauratore, ci si limita qui a constatare innanzitutto l’assurdo giuridico generato dalla legge 40: l’embrione gode di diritti primari e prevalenti rispetto alla possibile futura madre quando si trova ancora all’esterno dell’utero di questa; perde in un sol colpo tali diritti una volta inoculato, potendo essere abortito, per ritrovarsi di nuovo titolare di diritti una volta fattosi neonato e uscito dal “contenitore”.
Conclusioni
Per come sono andati i fatti storici scanditi dalla sequenza delle leggi 405, 194 e 40 sembrerebbe di assistere alla messa in scena (drammatica quando non tragica) di una contesa a colpi di leggi tra Stato/Chiesa e Donna (i primi non contemplano “le” seconde), contesa che in ogni caso ha per oggetto, in un crescendo di contorsioni giuridiche, il corpo femminile e la sessualità, quasi simbolici detentori del potere di vita e di morte.
Che la sessualità sia stata in qualche modo liberata dal vincolo procreativo all’interno del matrimonio, e che questa liberazione abbia trovato un riscontro giuridico nella legge 405, tutto questo sembra aver prodotto un rigurgito reazionario, il cui riscontro giuridico è evidente nelle leggi successive, che penalizzano scelte di libertà sia nel caso in cui una donna non desideri la maternità sia nel caso esattamente contrario.
Si potrebbe terminare domandando se sia proprio frutto di arbitraria opinione concludere sinteticamente che:
a) quella che in realtà andrebbe “difesa” è la legge 405, semmai mirando ad ampliare esplicitamente le funzioni dei consultori: l’uso del profilattico, ad esempio, non è necessariamente funzionale alla contraccezione ma anche a garantire rapporti protetti, esistendo con auspicabile pari dignità diverse forme di sessualità (omosessualità, lesbismo, transessualità), e posto quindi che la “salute sessuale” è diritto di chiunque.
b) la legge 194 non è un totem, proprio perché è di stampo reazionario. La sua formulazione non è l’unica possibile per fronteggiare la clandestinità dell’aborto e l’intervento che interrompe la gravidanza può (dovrebbe?…) essere compreso nel novero di ogni altro intervento garantito dalla sanità, pubblica e privata, senza che lo Stato abbia il monopolio degli aborti dettando persino i principi morali cui attenersi e con ciò stesso divenendo, come si è visto, “Stato Etico”.
c) la legge 40 può essere smantellata: il referendum non è stato “perso”, ma stravinto da un quorum per legge insufficiente. Se la legge referendaria non avesse previsto il quorum (ovvero se anche lo avesse ridimensionato), come in altri Paesi, non ci sarebbe stata alcuna campagna astensionista: i “no” si sarebbero, in un dibattito limpido, confrontati con i “sì”. E la campagna astensionista dice che il numero presumibile di quei “sì” faceva paura.
Per tutto questo, certo, occorrerebbe la capacità politica di individuare il momento propizio, per il quale possiamo ancora prenderci un po’ di tempo (speriamo…), prima che alla prossima folata di vento favorevole altri non provveda ad assestare nuovi colpi proprio con l’aiuto offerto dal contenuto formale e sostanziale della 194.
Così come sarebbe fondamentale che le donne ripercorressero con serenità di giudizio la propria storia, che è portatrice di un patrimonio di cui riappropriarsi.
Solo allora si potrebbe iniziare ad andare oltre facili slogans difensivisti quanto improduttivi, e cercare assieme strategie e possibili alleanze per tornare ad imporre le istanze irrinunciabili di una libertà autentica a livello anche istituzionale – perché è lì che, piaccia o meno, concretamente vengono messe in gioco l’esistenza e la dignità dei singoli e delle singole, è lì che, in assenza di interazioni, possono prodursi conseguenze pesanti per tutti e per tutte.
Pensarsi organizzate nella costruzione dei presupposti di un’azione politica volta a cambiare la qualità del tessuto istituzionale non significa affatto differenziarsi strategicamente da chi – penso agli interventi di Lea Meandri e molte altre – ravvisa la necessità di tornare a rendere centrale il dibattito sulla sessualità: significa semmai aggiungere alla ricchezza delle ri-elaborazioni un piano ulteriore di riflessione circa la possibilità e la natura del rapporto con le istituzioni.
Questo lavoro ha pertanto anche la pretesa – certo immodesta – di riaprire, sul binario della possibilità di un tale rapporto, un dibattito troppo presto esauritosi nel pantano di logiche approssimative e, peggio, nell’oblio delle origini di un pensiero forte.