La legge islamica sempre più vicina
di Sara Gandolfi
Alle sette di sera, su İstiklâl Caddesi, i top e le minigonne scompaiono. Da venerdì notte, sulla via dello struscio di Istanbul, e poi su fino a piazza Taksim, cuore passionale della città, vige una legge non scritta che le donne hanno imparato in fretta a rispettare. Dopo una certa ora, meglio girare con braccia e gambe coperte, magari pure con un velo a mascherare collo e capelli.
La notte è del popolo di Erdoğan, che resta sveglio fino a tardi facendo caroselli per le strade, cantando inni patriottici o inneggiando alla pena di morte contro gli autori di questo golpe amatoriale. «All’inizio siamo usciti anche noi, i “turchi bianchi”, così veniamo chiamati qui noi laici – ci racconta Alya, commessa in un negozio “occidentale” -. In fondo, abbiamo pensato io e le mie amiche, è meglio una cattiva democrazia di una dittatura militare. Ma ora le cose stanno prendendo una brutta piega, soprattutto per noi donne. Da sabato vengo al lavoro con meno pelle in vista».
A pochi metri, sfila il fervore religioso dei sostenitori dell’Akp, il partito del presidente. Innalzano le bandiere rosse con la falce di luna e la stella, sono tutti maschi. L’effetto è quello di un branco. Nell’atmosfera un po’ surreale del dopo golpe, per ora sono combriccole festose, domani potrebbero diventare altro. Su Twitter – il mezzo di comunicazione e d’informazione preferito dei giovani – iniziano a girare alcune storie raccapriccianti. Come quello della studentessa che racconta il grido lanciatole contro da un’auto, sabato sera: «Uccideremo anche le donne come voi».
Sulla carta, Istanbul è ricca di associazioni femminili e collettivi femministi. Ma in queste ore nessuno ha voglia di parlare. La risposta standard è quella inviata via mail dal gruppo Women for Women’s Human Rights, una Ong nata nel 1993 per promuovere la parità di diritti in Turchia: «Possiamo fare l’intervista un’altra volta? Sa cosa sta succedendo in Turchia. Stiamo cercando di capire la situazione…».
La «situazione», come le strade, sta diventando pericolosa per le donne.
Lo confermano gli sguardi sconcertati delle passanti «laiche» e le parole di alcune donne coraggiose. Come l’avvocatessa Ceren Akkawa, volontaria part-time presso Mor Çati, la prima e attivissima organizzazione in Turchia a combattere la violenza contro le donne. «Passo dopo passo stanno restringendo i nostri diritti e dopo i fatti di venerdì scorso la situazione non potrà che peggiorare – racconta -. Sulla carta la Turchia ha una legislazione molto avanzata nel campo della parità di genere. Ma nelle strade, nelle stazioni di polizia, nelle aule di tribunale, la prassi è di tutt’altro genere. C’è una distanza abissale tra la teoria e la realtà. La Turchia resta una società patriarcale. Da almeno quattro anni il governo spinge verso un conservatorismo sempre più marcato: la legge islamica si avvicina ogni giorno di più».
Il Sultano Erdoğan non ha mai fatto mistero delle sue opinioni sul ruolo della donna, dal numero dei figli che dovrebbe avere (tre) al tipo di impiego («non è uguale a noi uomini, non può fare lo stesso lavoro»). Uno dei primi decreti è stato il via libera al turban in scuole e uffici pubblici (il velo islamico turco, che copre il capo ma lascia scoperto il volto, era vietato dal 1924 per volere di Atatürk). Le islamiche, o «turche nere», sono uscite poco alla volta: non solo nelle strade, ma anche nelle aule universitarie e in quelle di tribunale. «Adesso è il loro turno, ormai sono maggioranza – dice Akkawa -. Ma tante donne oggi si mettono il velo perché è socialmente più “comodo”. In questi giorni, io stessa mi sono accorta che sto cominciando ad auto-censurarmi nel modo di vestire».
Poi è venuto l’attacco alla legge sull’aborto: «un omicidio», disse Erdoğan nel 2013, quando era ancora primo ministro. Le imponenti proteste di piazza gli impedirono di renderlo illegale, ma subito dopo si sono moltiplicati gli i medici «obbiettori di coscienza»: secondo un’inchiesta di Mor Çati, a Istanbul solo tre ospedali pubblici oggi praticano le interruzioni di gravidanza.
È solo l’inizio, secondo le «turche bianche». Pur essendo il primo Paese firmatario della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), la Turchia è al 77° posto su 100 nell’indice sull’uguaglianza di genere dell’Undp (Programma per lo sviluppo dell’Onu) e le turche hanno un rischio dieci volte maggiore di essere pestate dal proprio compagno rispetto alle cittadine dell’Unione europea (dall’inizio dell’anno sono state uccise 135 donne). L’ultimo raduno di piazza importante, alla vigilia dell’8 marzo, nel distretto asiatico di Kadıköy, è stato disperso dalla polizia con proiettili di gomma e lacrimogeni.
E il peggio deve ancora venire. Tra le proposte avanzate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul divorzio, c’è la depenalizzazione dell’abuso sessuale sulle minorenni se viene seguito da cinque anni di matrimonio «sotto il controllo del governo». Ufficialmente un modo per condonare le “fuitine”, ancora molto diffuse nelle zone rurali. «È disgustoso, stanno incoraggiando i matrimoni forzati delle bambine», commenta Ayşe Arman, editorialista del quotidiano Hürriyet. Le fa eco la presidente della Federazione delle associazioni femminili turche, Canan Güllü: «Vogliono infilare le vittime di violenza nello stesso letto dello stupratore e poi costringerle a vivere con lui per cinque anni. Questa mentalità non è degna della Turchia contemporanea». Di fatto, nella prassi è già così: secondo fonti giudiziarie, sono 3.000 i casi di stupratori che hanno evitato il carcere sposando le proprie vittime.
Di recente, poi, la Corte costituzionale ha abolito l’articolo 103 che punisce gli abusi sessuali sui minori, sostenendo che la punizione per i reati sui bambini fra i 12 e i 15 anni non può essere uguale a quella che coinvolge gli under 12. I legislatori hanno tempo sei mesi per riformulare la legge, dopodiché si creerà un vuoto legislativo. E la pedofilia sarà, di fatto, legale in Turchia.
I giornali pro-Erdoğan in questi giorni continuano a pubblicare in prima pagina foto di bambine sorridenti sulle spalle dei padri e donne scamiciate che sventolano bandiere in piazza. Ma sono eccezioni, in una folla popolata di veli e ombre nere.
(Corriere della Sera, 20 Luglio 2016)