di Antonia Chiara Scardicchio
Ne conosco molte che non hanno mai partorito.
È di queste madri che sento il bisogno di scrivere, proprio adesso che il Fertility Day è fragorosamente trascorso.
Scrivere della fertilità femminile che non coincide con la carne, la biologia, il sangue.
Mi riferisco a quelle donne che – indipendentemente dall’aver scelto o aver subìto un ventre vuoto – esplodono molto più di altre, che pure lo hanno avuto pieno: capaci di incredibili elargizioni verso chi, sebbene non gli sia “proprio”, la vita ha innestato con loro.
Di norma a parlar così ci vengono in mente solo le suore. Ma perché?
Perché deve esser solo in quella forma l’idea e la sostanza di una donna che è madre in modalità estesa e non solo circoscritta ai metriquadri di casa sua?
Io ne conosco moltissime.
Di donne strepitose, folgoranti e potentissime che hanno partorito uomini e donne pur non essendo le loro fattrici.
Donne che non solo nella delicatezza e nella cura ma anche nel vigore e nella spinta sono capaci di essere madri di altri che le incontrano, talvolta a lungo, talvolta anche solo per un battito.
Cosa mai vorrò dire?
Dico di quelle donne che tutti abbiamo incontrato almeno una volta soltanto: e rispetto a cui possiamo dire che ci hanno generato. Additandoci mondi fino ad allora invisibili, modalità altrimenti inesplorate: donne che possiamo dire madri perché ci hanno non solo contenuto ma anche lanciato.
Eh sì che – sovente dimenticato – l’utero non ha solo il contenere come sua forma e significato: è suo anche lo spingere. Fare da catapulta, ha scritto Erri De Luca.
Donne catapulta: madri come piste d’atterraggio e di decollo. Si chiama Maternità Simbolica. E non è per tutte: tanto è complessa che alcune, madri di carne, non ce la fanno ad esserlo.
Occorre uscire da sé. Sì, paradossalmente: una donna per essere una madre si deve partorire. Scagliare.
E quando si lancia, si lancia fuori dal suo guscio stesso, è solo allora che può disarginare e spaccare i vincoli delle carte d’identità e considerare ogni altro da sé come figlio/figlia.
Provate a ripensarle. Una ad una quelle della vostra storia.
Ne percepirete – anche delle più caciarone – profondo il senso mistico. Perché sono tutte sacre, anche quelle laiche, anche quelle atee, persino le miscredenti: non lo scrivo con retorica, ma con gratitudine. Perché è da molte di esse che io sono stata salvata.
Come nelle comunità del passato, persistono ancora le maternità putative. Sebbene più rade, nascoste, non celebrate. Non sono madri sostitutive ma integrative: tutori che la vita ancora ci concede per nascere due volte. Talvolta per uscire da uteri dai quali, pur fisicamente espulsi, fatichiamo a venir fuori.
(Gazzetta del Mezzogiorno, 23 ottobre 2016)