Le casette di Margherita Braga
Liliana Rampello
Margherita Braga è una donna singolare. Un’artigiana e un’artista in fusione altrettanto particolare, per le sue inclinazioni, e per il suo stile, estremamente sobrio e riservato. Compiuti gli studi artistici, dopo alcuni anni di lavoro (grafica e dintorni), ha deciso che la sua grande predisposizione al disegno (dapprima solo acquerello e tempera, più avanti l’olio) le bastava come piacere personale, passione privata che avrebbe accompagnato comunque la sua esistenza. E così in effetti è. Ha esposto una sola volta, in una piccola libreria di Parma, la sua città, e ora ha accettato un altro luogo particolare, Artiminori*, perché spazio di un’amica, Alba Lingiardi.
Due cose mi hanno sempre attratto del (e nel) suo lavoro, la copia e la miniatura, ma se si cerca di parlarne con lei in punta di teoria, svicola, non risponde. Margherita può solo “raccontare” quel che fa, non cerca significati, quelli possono rimanere in silenzio nella mente: me lo spiega dicendomi perché le piace così tanto, quando le piace tanto un pittore, copiarlo. E’ il suo modo di stare dalla parte di chi fa, di entrare dentro tutte le sfumature, dentro alla singola pennellata, di imparare ogni variazione possibile dei materiali e delle tecniche, di distinguere con la mano oltreché con lo sguardo, un’opera dall’altra. Copiare è il suo codice d’accesso a quel che vede, all’arte della pittura (non all’arte contemporanea, precisa), è il suo modo di conoscerla con i sensi (lei dice: “è la stessa felicità del tuffarsi”, e un museo diventa così immediatamente, nelle sue parole, un mare).
La copia entra in scena una seconda volta, e con tutti gli onori, anche nella miniatura, ma sono io a permettermi di chiamare così quelle che lei chiama semplicemente Le casette. La prima casa è stata quella delle bambole, per sua figlia Ottavia, di 5 piani (una cassetta di legno sopra l’altro, di quelle vecchie, alte, delle coop), un vero condominio, con tutto, dalla carta da parati a ogni singolo mobile e soprammobile, costruito dalle sue mani, compresi i sanitari, fatti col gesso, precisa, e solo le piccole porcellane, piatti e bicchieri, acquistati. Ottavia guardava, sognava ad occhi aperti, ma non giocava. Lei, Margherita, giocava, perché lì aveva messo tutta la sua passione di ragazzina. Poi sono venuti i “cartoni”, con cui fabbricava castelli, macchine, teatri. E poi ancora, a un certo punto, ha messo insieme miniatura e copia: la casetta esterna, di legno dipinto, è diventata il contenitore circoscritto e rassicurante delle sue emozioni, ma il contenuto, quello che mette dentro alle casette è molto serio, non è più un gioco, è il mondo dell’arte con tutto il suo caos. Come lei pensa sia la vita. Ed ecco comparire, appese ai muri, le copie dei suoi quadri preferiti, in piccolo, a rappresentare se stessa di fronte ai “grandi”, a loro volta rimpiccioliti. L’interno, lavoro tutto cerebrale, è reso possibile dall’esterno, che tiene a bada con una forma precisa l’emozione, la sua paura a “esporsi”.
Questa forma esterna di solito è un bagno oppure la sala di un museo, una galleria d’arte, ma sempre col bagno. Una specie di ossessione, il gabinetto: per lei è il segno dell’impernanenza: “la creatività, come la cacca c’è sempre”, mi dice, la cacca fa capire che si può fare e distruggere sempre tutto, di continuo. La creatività è un flusso, il prodotto, allora, può essere abbandonato, ogni cosa fissa è morta e a lei non interessa più. Nelle casette c’è sempre una luce, per guardare, attraverso piccole aperture, anche dietro la porta chiusa, per “spiare” la propria intimità senza averne paura.
Mentre parlavamo mi sono venute in mente molte altre opere, ma soprattutto mi sono venute in mente le “Poppenhuizen”, due case alte più di due metri, ogni piano in perfetta miniatura, che ho visto al Rijksmuseum di Amsterdam, manufatti stupefacenti, fatti costruire, alla fine del Seicento, a costo quasi del suo intero patrimonio, dalla ricca vedova di un mercante, Petronella Oortman. Una diretta antenata di Margherita, ne sono sicura.
*Artiminori è uno studio laboratorio milanese, in Conca del Naviglio, che ospita iniziative culturali nell’ambito delle arti minori (manufatti tessili, oggetti da collezionismo).