di Marisa Milesi
Di recente ho letto la storia di Lina Scalzo raccolta da Franca Fortunato.
La storia, raccontata attraverso un racconto-intervista, ripercorre una vita in cui crescita personale e consapevolezza critica riferite a sé e alla propria esperienza lavorativa vanno di pari passo.
L’esperienza vissuta dalla protagonista è riletta dall’intervistatrice con un riferimento consapevole e meditato al pensiero della differenza e alla pratica politica delle donne da entrambe condivisa. Così come costante è il confronto e il sostegno reciproco tra le due amiche nel loro percorso personale e politico.
Nella presentazione al testo Franca Fortunato ripercorre la propria vicenda intrecciandola e confrontandola con quella di Lina Scalzo, soffermandosi in particolare sull’esperienza del legame di ognuna con la propria madre. Mentre Franca rintraccia in questo legame un vissuto di incomprensione e di rottura a cui solo da adulta, attraverso l’incontro con altre donne autorevoli, ha potuto e saputo riparare, Lina ha trovato continuità e senso con la scelta che sua madre aveva fatto per lei da ragazza.
Nelle due storie c’è un continuum tra la relazione con la propria madre e come entrambe sono riuscite a declinare questo rapporto nel corso della loro vita.
Anche per questo lo scritto mi ha coinvolto. Rintraccio nell’esperienza di Franca alcune similitudini a quello che è stato il mio percorso e questo passaggio mi aiuta a riflettere sulla mia esperienza: anch’io mi sono allontanata da mia madre, senza conflitti ma senza condividere con lei le mie scelte.
Mi ritrovo nell’oggi ad interrogarmi sulla peculiarità della relazione con lei e constato come questa mi rafforzi ora che, attraverso il pensiero della differenza, riesco a collocarla in un continuum genealogico che le restituisce potenza e valore. Questa consapevolezza mi fa da guida. Così ho potuto tornare indietro nel tentativo di comprendere alcune zone d’ombra della nostra relazione.
Mia madre è cresciuta negli anni della seconda guerra. Scolara brillante, è stata orientata a proseguire gli studi e sua madre ha acconsentito ad affidarla a un istituto religioso molto distante da casa. L’incertezza degli eventi legata all’incombere della guerra unita al sentimento di nostalgia per gli affetti lontani hanno fatto sì che rinunciasse, dopo alcuni anni, a completare la formazione scolastica. Mi chiedo quanto la sua rinuncia sia stata determinata dal percepire una lontananza anche simbolica dal suo contesto di appartenenza, per lei allora difficile da sostenere. Ha ripercorso quindi la traiettoria di una vita già percorsa da altre, da sua madre, dalla sue sorelle. È rimasta a continuare il lavoro dei genitori e si è sposata.
Io invece ho potuto andare altrove. Nella relazione con mia madre quando ho deciso di andarmene, non ci sono stati conflitti ma neppure dialogo, così che non ho mai saputo cosa lei condividesse o rifiutasse delle mie scelte. Da adulta ho visto la sua difficoltà a riconoscere valore al mio lavoro di studio e di scrittura.
Dopo gli studi ho scelto un lavoro nel sociale. In questo ambito la possibilità di sostenere altre madri colloca il mio lavoro nell’istituzione in una prospettiva di senso. Prendo in prestito le parole di Letizia Bianchi che collegandosi alla sua esperienza infantile di affidamento, ripercorsa a sua volta da adulta, dice: «Il sapere che mi viene da queste esperienze ha fortemente orientato il modo in cui in seguito me ne sono occupata da un punto di vista professionale e di ricerca… Questo interesse – che mi pare di avere sempre avuto – di recente ho capito meglio dove mi ha portato e da dove mi viene […]».1
Così per me Il desiderio di aiutare le madri e i loro figli e figlie ha sicuramente orientato il mio fare professionale e ha origine nella mia storia. Sono madre a mia volta e a mia volta sono figlia.
Tuttavia mi sono chiesta quanto della storia di mia madre e della sua rinuncia mi appartenga. Nel mio percorso mi sono soffermata a lungo, anche attraverso un lavoro analitico, a voler comprendere perché fatico a volte a riconoscermi possibilità e valore e a liberarmi da vissuti di passività che mi indeboliscono.
Ma poiché nella vita le relazioni femminili mi hanno sempre sostenuto e accompagnato, fino a condurmi verso luoghi dove la pratica politica delle donne ha costruito autorità e libertà femminile, sono riuscita a ritrovare forza, e in più ho re-imparato ad amare mia madre e a bonificare dentro di me la nostra storia.
Mi rende felice e ricca riuscire a sentire la forza di questo legame che con il suo amore a lungo mi ha nutrita, mi ha permesso di crescere e anche di andare lontano. Così vado avanti. Nelle donne che sono state protagoniste del femminismo e che ancora sono testimoni in carne e ossa, pensiero e parola, del valore della differenza femminile, ho trovato autorità e genealogia.
Mi accompagna la consapevolezza che: «nell’ombra del materno c’è di tutto amore, odio, fiducia, sfiducia, elementi differenti che devono essere tenuti assieme. Ora mi chiedo se questo filo di fiducia guadagnato di fatto esistenzialmente possa essere portato a livello politico». Il quesito di Laura Colombo a conclusione del suo scritto La passione di esserci2 apre ad una nuova possibilità: rinsaldarsi al legame materno, per ritrovarne la forza simbolica accettandone le sue parti oscure, può consentire di andare oltre, più avanti nella ricerca di un nuovo modo di essere nel mondo, che porti con sé un guadagno di libertà per sé e per tutte le donne.
(www.libreriadelledonne.it, 1 dicembre 2016)