di Massimo Lizzi
Il tribunale civile di Catania può avere fatto bene a decidere di far abitare un bambino con il padre, per risolvere una specifica causa di affidamento allocatario tra due coniugi separati. La sentenza però pretende di essere esemplare contro il pregiudizio che vede le madri «proprietarie» e i padri «disimpegnati».
Così, il giudice impone il suo pregiudizio e rimuove il prevalente contributo materno alla riproduzione. I figli sono concepiti nel corpo della madre; per nove mesi sono parte del corpo materno; da lei sono messi al mondo, nutriti e accuditi; dalle madri i figli imparano a parlare e in esse trovano la prima e principale figura di attaccamento.
È vero che su questa differenza si è edificata una rigida divisione sessuale del lavoro ed è lodevole voler superare squilibri e discriminazioni: ciò richiede di armonizzare tempi di vita e tempi di lavoro, per offrire ai padri più libertà dalla produzione e alle madri più opportunità di autorealizzazione, non leggi e sentenze che ordinano d’autorità parificazioni astratte o rovesciamenti di ruolo, proprio al momento della separazione coniugale.
Aumentare le ordinanze che fanno abitare i figli con il padre, per incoraggiare l’impegno del padre, come sollecita il giudice di Catania, rimuove un dato molto importante: il disimpegno paterno dopo la separazione è spesso il proseguimento accentuato del disimpegno paterno durante la convivenza. Il più probabile effetto sarebbe quello deterrente contro le madri che vogliono separarsi, come già avveniva nel patriarcato: togliere i figli alle madri.
Storicamente, il ruolo riproduttivo assegnato alla donna non le conferiva diritti di proprietà; il padrone dei figli era il padre e sua, se lo voleva, era la custodia dei figli dopo la separazione. In Italia, ancora ai primi del ’900 un terzo dei figli era affidato ai padri separati e fino agli anni ’60 un figlio nato da una relazione extraconiugale apparteneva al marito legittimo della madre: lui poteva sottrarle il figlio e collocarlo in un istituto. La potestà patriarcale è stata abolita solo nel 1975 e tuttora i figli portano il nome del padre.
La potestà patriarcale, ormai insostenibile, può rientrare dalla finestra attraverso il rovesciamento dei ruoli, quando torna utile: il figlio va assegnato al padre, non più perché padrone, ma guarda caso per incentivarne l’impegno. La tendenza a far abitare i figli con le madri avviene quasi sempre di comune accordo tra i coniugi separati; aumentare la ricorrenza statistica dei padri affidatari e collocatari, come chiede la sentenza di Catania, vorrebbe dire privilegiare i padri d’autorità nella ristretta minoranza dei casi in cui, senza accordo, il padre vuole il figlio per sé.
L’incentivo all’impegno paterno è soltanto per modo di dire. Ricordo un mio collega di lavoro che voleva l’affidamento del figlio contro la ex-moglie: per consolarlo, gli facevamo notare che lui passava tutto il giorno in ufficio e poi aveva tutti i suoi impegni extralavorativi; quando avrebbe potuto occuparsi del figlio? Ci rispondeva, sereno, che se ne sarebbe occupata la sua nuova compagna. Nella sentenza di Catania, un secondo argomento citato a favore del padre è la presenza della sua nuova compagna: «Ella costituisce un ulteriore elemento di equilibrio e serenità per il contesto nel quale (il bambino) vivrà abitualmente». Dunque, una nuova mamma?
Alla fine, la decisione formale per l’affidamento è decisa mediante test psicologici sulle abilità genitoriali. La sentenza dichiara entrambi i genitori idonei ad attendere in maniera adeguata al compito dell’affidamento allocatario; ma poiché il giudice è costretto ad una scelta, gli «sembra preferibile il collocamento presso il padre». La perizia dedotta dai test ha valutato la madre più emotiva del padre ed ha considerato l’emotività un elemento di fragilità, un difetto di solidità psicologica. In questo caso, il giudice non ha voluto combattere il pregiudizio e neanche ragionare sul valore delle emozioni nell’educazione dei bambini.
(www.libreriadelledonne.it, 22 dicembre 2016)