Sulla rappresentanza politica femminile, sull’arte di polemizzare tra donne e sulla rivoluzione scientifica in corso – Sottosopra blu – Giugno 1987

La separazione femminile

Quando alla fine del convegno di Milano sulla pratica della differenza sessuale, nel dicembre scorso, ho sentito dire da alcune che era ora di affrontare la questione della rappresentanza politica della differenza, ho avuto un attimo di vero sconforto.
Mi domandai da dove uscisse quella vecchia parola e dietro alla parola una potente istituzione che cancella o ingabbia in un sol colpo la ricerca di parole di donne svincolate dalle regole e dalle aspettative della società maschile (del padre), la nostra ricerca di linguaggi originali (delle origini).
D’altra parte, nessuna nei due giorni di convegno aveva messo in dubbio il fatto (e come avrebbe potuto?) che le donne sono un sesso e non un gruppo sociale omogeneo – mentre la rappresentanza politica presuppone bisogni e interessi comuni. L’incontro di Milano, tra l’altro, era stato un tentativo di confronto tra donne che parlano da collocazioni differenti, dichiaratamente differenti, con progetti individuali e collettivi diversi e talvolta in contrasto. Un contesto, quindi, che non permetteva d’ipotizzare una rappresentanza neppure delle donne che erano lì presenti. Non lo permetteva in alcun modo; per buona parte della discussione, infatti, alcune hanno chiesto insistentemente ad altre: da dove parli, dove ti collochi, quali sono le mediazioni logiche e politiche che ti permettono di stare in un partito, in un parlamento, e qui tra noi? E le altre: siamo qui, però una parte di me è sulla scena illuminata della grande politica dove si giocano anche i nostri destini. Oppure: sono qui, però una parte di me è con le dimenticate da tutti e da tutte, con le braccianti pugliesi… E che senso ha oggi la vostra politica di separatezza? A mettere fuori luogo ogni discorso di rappresentanza c’era anche il pensiero, sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza sessuale esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con quella di una legittimazione ottenuta da istituzioni neutre o maschili. Chi aveva proposto il tema della rappresentanza ha poi spiegato che era da intendersi come “autorizzazione delle donne alle donne” e come capacità di “rendere presente” la potenza della differenza sessuale. Pensava inoltre che, siccome la democrazia classica non tollera la differenza sessuale come soggetto da rappresentare, il rappresentarla provocherebbe grande trambusto e sconcerto. A parte l’autorizzazione delle donne alle donne – che non ha veramente nulla a che fare con la rappresentanza politica – ho forti dubbi che l’essere donna, che è qualcosa di assolutamente qualitativo, sia rappresentabile nei modi (numerici, quantitativi) della democrazia classica. E, soprattutto, dubito che la presenza di molte donne in parlamento sia un ingombro o provochi un qualche trambusto in quell’istituzione. Primo, perché, se affermi che è fondamentale essere in quell’istituzione per dare visibilità alla differenza, stai dicendo che dai molto valore a quel luogo, istituito da uomini di una classe sociale dopo che questa ebbe guadagnato un surplus di forza economica e di sapere. E mostri che non stai pensando che fra noi comincia ad affermarsi una fonte femminile di autorità sociale. Chi mi dice poi che le donne vogliano stare in tutte le istituzioni esistenti, parlamento, esercito, chiesa? Alcune sì, ma mentre quella che entra nell’esercito o nella chiesa, vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituzione della rappresentanza, e per giunta vi entra con l’idea di una possibile rappresentanza femminile, copre la volontà di quelle che se ne tengono fuori. Quanto all'”ingombro”, non dimentichiamo che dove c’è “funzione”, uomini e donne sono uguali e la differenza sessuale passa per un arcaismo inutile. L’occhio si abitua presto a vedere una donna al posto di un uomo quando lei assolve le funzioni previste da un ordine sociale pensato da uomini. La significazione della differenza sessuale non può andare senza trasgressione, senza sovversione dell’esistente. Non può essere ricalcata pari pari sull’ordine simbolico ricevuto… s’intende, se c’è lotta per la libertà fem-minile e non semplicemente per l’uguaglianza con gli uomini.
Penso, infine, che di per sé una maggiore presenza femminile in parlamento non crea disturbo perché le rappresentanti debbono accettare molte potenti mediazioni: quella con il partito che le fa eleggere, quella di una inevitabile adesione e legittimazione di quel potere maschile che lì si esprime, e tutte le mediazioni che domanda il fare leggi. Mediazioni e censure dei desideri femminili molto più drastiche dei famosi veli di cui 1’immaginario maschile aveva coperto il corpo femminile. In concreto, dunque quello che le elette potranno far valere sarà, al massimo, un diritto di veto sulle leggi per le donne. Oppure agiranno come una piccola lobby, sul modello della democrazia americana. Sia chiaro, non penso e non parlo contro quelle donne che in parlamento vanno, apertamente, per un proprio desiderio, con una competenza e un ambizione da far valere. La mia critica si rivolge all’idea di una possibile rappresentanza femminile e a quelle donne che la adottano nascondendo i propri desideri.
Ricordo che quando facevo politica mista e incontravo nelle riunioni gli operai, ero colpita dai loro corpi che significavano il lavoro e dalla precisione e concretezza con cui nei loro interventi descrivevano ed analizzavano la realtà della fabbrica. Ero convinta che, come toglievano la parola a me e mi facevano sentire vacua con il loro sapere e la materialità dei loro apporti, così avrebbero costituito una formidabile obiezione (un ingombro!) ai mediatori del consenso nei luoghi istituzionali. Non è stato e non è cosi: il sistema della rappresentanza li ha privati dei loro corpi sapienti rendendoli, in quei luoghi, muti o mediatori essi stessi rispetto alla cosa che rappresentavano. Sono convinta che non possiamo fare a meno di mediazioni, penso anzi che le mediazioni diano forza alla presenza femminile, ma solo se sono fedeli, corrispondenti. Così, se vi sono donne che vogliono entrare in Parlamento, come tante sono entrate nelle professioni e nel mercato del lavoro, che mettano in chiaro il desiderio che le muove, i loro progetti politici, che dicano anche su quale universalità intendono scommettere e quanto, come pensano di difendere la loro parzialità femminile. Questo io intendo per una possibile mediazione fedele di sé rispetto all’istituzione e alle donne. In questa maniera esse si legano alle altre donne, a me, non attraverso l’istituto della rappresentanza ma attraverso l’affermazione di un desiderio femminile. In questa maniera, anche, si salta la politica impotente dei due tempi (di riformistica memoria), prima il tempo per acquisire la dignità di persona, poi il tempo (che non arriverà mai…) per iscrivere la propria indecente differenza. Ci siamo lasciate al convegno di Milano con l’intenzione di continuare a discutere. Eravamo consapevoli che la questione della rappresentanza della differenza sessuale, posta al convegno per un’esigenza di compiutezza teorica, poteva diventare in pratica una tentazione per alcune di porsi quali mediatrici tra il movimento delle donne e la politica istituzionale.
Noi stesse, d’altra parte, abbiamo bisogno di ragionare più a fondo su come nella vita sociale voglia di vincere ed estraneità s’intreccino fra loro e su come porci rispetto al gioco che in noi si crea fra queste due parti di noi.
Rimane ancora tutta da fare l’analisi delle sovrapposizioni che si creano fra la lingua che la madre comunica (degli affetti) e l’altra lingua, quella sociale trasmessa dal padre. E riuscire a comunicare con semplicità che cosa intendiamo dire con silenzio del corpo, dal momento che di fatto le donne parlano e apparentemente senza differenza dal linguaggio maschile. E riuscire ad agire nel mondo quel tanto di sapere, cambiamento e voglia di vincere che i gruppi di donne hanno prodotto, senza che il nostro agire appaia come un riflesso femminile dell’agire maschile.
I fatti però sono andati più in fretta di quello che avevamo previsto. La crisi di governo e le elezioni anticipate hanno posto la questione della rappresentanza politica come concetto utile per ottenere, soprattutto da parte delle donne comuniste, più donne candidate nelle liste dei partiti e molte effettivamente elette. Ho letto con attenzione gli interventi delle donne al Comitato centrale comunista sulle elezioni, perché avevo preso sul serio l’indicazione contenuta nella Carta itinerante, dove si dice che le comuniste, a partire dalla loro differenza sessuale come dal loro desiderio di fare politica con gli uomini, si ripromettono di creare ingombro nella politica. Ma gli interventi non facevano che insistere sulla necessità di riequilibrare la presenza di donne e uomini in parlamento, con l’argomento che le donne devono essere degnamente rappresentate e che la presenza femminile è essenziale al buon funzionamento del parlamento e della democrazia. Quale ingombro sarebbe questo mai? Sembra di capire che le comuniste e altre intervenute al dibattito tenutosi recentemente al Centro per la riforma dello stato, oppure sui giornali sempre su questo tema, ritengano che una maggiore presenza femminile in parlamento modificherà di per sé le regole del gioco. Le donne, esse dicono, vi entrerebbero come portatrici di una cultura meno distruttiva (per via della maternità), non vi porterebbero l’idea della politica come strumento di potere e sarebbero dotate di un più vivo senso etico. Così, magicamente, vediamo dei pregiudizi favorevoli rimpiazzare i vecchi pregiudizi sfavorevoli. Si tace sul fatto che le donne che vanno ad occupare posti di potere finora non hanno potuto impedire che le regole del gioco siano quelle volute da uomini. Si tace sul fatto che la forza di significare la differenza femminile nasce da un progetto pensato e costruito tra donne mettendo in gioco le pretese e le ambizioni ma anche l’estraneità femminile, e tenendosi fuori dalle misure morali. Si sorvola sulla contraddizione estrema, per adesso ancora un’impossibilità, di rendere parlante la differenza femminile e fare insieme ricorso agli strumenti simbolici della politica maschile, come elezioni, partiti, parlamenti. Si censura il fatto che i gruppi che hanno iniziato a elaborare il senso della differenza femminile, sono, come noto, gruppi formati da sole donne. Gruppi separati, come si dice. La separazione – non il separatismo, che è ideologico – è anche una categoria del pensiero che ha incarnazione sociale e che crea processi autonomi e asimmetrici, per cui, ad esempio, tu sai che le donne non devono andare ovunque qualcuno le chiami, ne rispondere ogni volta che sono interpellate. Quelle che lo vogliono, lo dicano e lo facciano. In prima persona, per se stesse, senza il rivestimento di dire e fare per quelle altre che tacciono. Per concludere, io sarò una che voterà la donna ambiziosa o la donna che ha un suo progetto da portare avanti o la donna che ha una sua competenza e intelligenza da far valere. Non voterò la rappresentante.
Lia Cigarini
(Milano)

Per sé/per me

La donna non è un soggetto migliore di altri, anzi dell’altro. Viene da una storia di troppa miseria simbolica e materiale per vantare delle ricchezze e delle meraviglie. La donna non può darsi quindi come un soggetto che salverà il mondo. Non potrà modificare la storia in nome di ideali. Se è onesta, non le è permessa questa arroganza. Ne le è permessa generosità. La sua lotta è strettamente legata alla sua vita. Lotterà per la sua vita, e per tutto ciò che significa vivere per lei. Lotterà “per sé”. Certo, il mondo cambierà per questo.
La miseria simbolica è la più terribile delle miserie. È il corpo che la significa, non la tua casa, i tuoi vestiti, il denaro che puoi avere in tasca. La miseria simbolica è la più radicale.
Volere di più non basta per risolvere questa miseria. Si tratta di volere quello che non c’è, si tratta di volere una misura di donna nello stare al mondo.
E prima saperne immaginare l’esistenza. E prima ancora capire i sintomi di questa mancanza.
Non sarò libera da questa miseria se esisterà ancora una donna beffata a causa del suo corpo di donna. Questo è il legame feroce che le donne hanno tra loro. Un atto generoso tra donne è sempre un atto egoista, sta sempre nell’economia del “per sé”. Diffido dell’economia amorosa dei nostri rapporti. Perché devo amare le donne? Le donne spesso non sono affatto amabili. Io sono con le donne in un legame di necessità. L’amore lasciamolo alle meraviglie delle sue possibili epifanie. Non c’è nessuno a cui chiedere per costruire una misura di donna, se non a se stesse e a coloro che ci sono simili nel corpo. Non c’è uomo, il più generoso, che possa aiutarci. Non ci sarà mai vero guadagno nelle concessioni dell’altro, per generose che possano essere. Ottenere qualcosa non basta. È necessario ottenere ed insieme significare. Niente di ciò che sarà ottenuto potrà trasformarsi in reale ricchezza se non sarà stato prodotto/imposto da relazioni tra donne. Noi donne pensiamo spesso che abbiamo sempre concesso troppo, ma non è così. Concede chi sa di avere, concedere è sempre un atto regale. Noi abbiamo dato senza chiedere nulla in cambio, come fa chi non sa bene cosa ha da dare. O come chi rinuncia. Dovremo imparare a concedere, ma per imparare a concedere la strada è lunga. Un corpo di donna non garantisce un pensiero di donna. Ne abbiamo tanti esempi. Ed anche tante donne insieme possono non garantire pensieri di donna. Le donne possono sparire nella più perfetta visibilità. Lo sappiamo bene. Un pensiero di donna può nascere solo dalla coscienza della necessità delle altre donne. Questo pensiero è un prodotto di relazione. Se si riesce a comprendere questo tutto il resto è strategia, anche l’appartenenza ad un partito politico. Il pensiero della differenza non ammette due fedeltà. C’è un Partito che chiede voti di donne. Veramente ci sono le donne di un Partito che chiedono voti di donne. Il Partito lascia fare, ha tutto da guadagnare e niente da perdere. Anche le donne hanno tutto da guadagnare e niente da perdere. Situazione ideale per fare ciascuno i propri interessi. A patto che ciascuno non dimentichi la sua parte. A patto di una distanza tra le parti che va continuamente sentita e rappresentata. Senza questa distanza si rischia di cadere nella riconoscenza che nasce spontanea nelle donne di fronte a spazi concessi. Riconoscenza, antico sentimento femminile, che induce a smarrire i propri confini e può portare al servilismo. È necessario ricordare che ciascuno agisce per i propri interessi e pensare che anche in questo è possibile una lealtà reciproca. Sento dire spesso dalle donne di un Partito che il loro Partito è maschile. Ma è sbagliato dire così. Il Partito non è maschile. Il Partito è semplicemente un luogo dove le donne sono deboli, hanno meno potere degli uomini, meno voce in capitolo. Per riuscire a modificare una situazione è più utile considerarsi perdenti che inesistenti. Sentirsi inesistenti incoraggia la pigrizia, l’arrendevolezza. Fornisce alibi. Se sono perdente potrò essere vincente, tutto dipenderà dalla strategia che saprò trovare. E se non andrà bene, ne troverò un’altra. Ma anche un Partito che si fa più femminile può essere un luogo dove le donne restano deboli, se le donne non pensano con la loro testa e perdono di vista il “per sé”. Se poi in questo Partito le donne cominciano a cantare vittoria là dove non c’è stata contesa, allora c’è poco guadagno per tutte. Non ci si libera dalla propria storia, la si può invece capire. Capire andando alla ricerca delle risposte che oggi ci sono necessarie. Le donne sono state costrette ad essere “per gli altri” perché non avevano altro modo di significare la loro esistenza. Non potevano immaginare l’essere per sé. Oggi cominciamo a poterlo fare, e cominciamo a conoscere il segreto della scandalosa generosità delle nostre madri. Ma 1″‘essere per sé” vale anche per le donne: diffido delle donne che pensano di “essere per le altre”. Sono grata alla donna che agisce nell’economia del “per sé”. La guardo, lei si fa guardare da me, solo così posso riconoscerla ed avere qualcosa “per me”. Cosa ho in comune con le altre donne: se entro in una stanza, prima di comunicare se sono bella o brutta, colta o ignorante, povera o ricca, comunista o democristiana, comunicherò il fatto di essere una donna. Chi mi guarda si regolerà immediatamente di conseguenza secondo usi, costumi e storia. È l’esperienza di questo aggiustamento altrui che ho in comune con le altre donne. E basta. Esperienza drammatica e disperante e disgraziatamente formativa. Se decido di modificare questo teatro, devo riconoscere che questo teatro è precedente a tutti gli altri. Quali sono gli interessi delle donne? Sono tanti, sono diversi, molto spesso non sono affatto esaltanti. Per questo, credo, c’è chi dice: non si deve lavorare sugli interessi delle donne, si deve lavorare sui bisogni delle donne. Forse sembra più nobile, chissà. Io penso che una donna bisognosa abbia assai meno forza di una donna interessata. Anche perché esiste per noi donne un bisogno così radicale di essere, che ogni altro bisogno riporta a questo e ci confonde e ci fa affogare. Il bisogno comune è quello di trovare una misura di donna per stare al mondo. La strategia per uscire da questo bisogno passa attraverso gli interessi che sapremo affermare. Tante donne possono rappresentare interessi diversi, anche contrastanti tra loro. Questo non mi fa paura, questo non mi paralizza. Mi paralizza invece quando una donna mi mette di fronte ad un suo bisogno. Al suo posso opporre il mio. Ma poiché il suo come il mio pesca in una radicalità così profonda, non può esistere reale contesa. Da qui il silenzio che troppo spesso le donne si impongono. Muoversi nella superficie è una strategia di leggerezza. A noi soggetti con una storia tanto pesante è necessario anche questo. Gli interessi ci mescoleranno al mondo. Interesse = essere fra… Per favore, usciamo dalla questua, anche reciproca. Come è possibile pensare di poter parlare a nome di tutte le donne? Le donne sono tante, soprattutto sono diverse tra loro, non sono una categoria, non sono una classe. Non c’è delega possibile. Non c’è rappresentanza possibile. Cosa dunque ci dobbiamo chiedere? Di renderci riconoscibili le une alle altre ovunque noi ci possiamo trovare, ogniqualvolta sarà possibile. Non do deleghe, ma mi aspetto che la donna che si trovi in una situazione di scelta, in una situazione decisiva e significativa, in un luogo dove la differenza sessuale non parla, si regoli secondo la sua propria esperienza, cioè interroghi a fondo la sua vita e decida. Sembra una banalità, una pretesa modesta, invece è una grande pretesa, perché ciò che mi aspetto è una cosa difficilissima per noi donne ed è già un risultato. Prendere dalla propria vita la misura per decidere è un atto di signoria. La donna che non si da autorità per fare questo avrà l’impressione di poter dire cose banali, piccole e ridicole, e tacerà o tacerà parlando, assumendo, per farsi più grande, il disinteresse maschile per certe cose, assumendo l’esperienza e la misura degli uomini, dimenticando se stessa. Così questa donna non si farà riconoscere da me, e nessuno scambio tra noi sarà possibile. Non do deleghe, non posso darle, ma autorizzo, dò autorità, e questo sì che posso farlo, ad altre donne a prendere dalla propria vita la propria misura. Da questo le riconoscerò tra tutti, e solo in questo starà il segreto del per sé/per me. Quando impareremo a non temere il ridicolo agli occhi degli uomini, e a temere il ridicolo agli occhi delle donne, la nostra misura dello stare al mondo sarà finalmente ritrovata. Dò anche credito alle donne nella speranza che queste donne sentano questo mio credito come un loro debito. Il debito non è una miglioria del rapporto tra rappresentanti e rappresentate ma è la costruzione di un vincolo. Credito e debito stanno a significare la necessità reciproca, significano rapporto, un rapporto così violento che non ha contenuti e supera le regole della rappresentanza. Per rispettare questo debito, una donna dovrà mettersi in scena, non rappresentare me, ma rappresentare se stessa. Non rappresentanza quindi, ma rappresentazione. Dò credito e attendo. Ma la mia attesa non è nell’ordine del discorso amoroso. Attendo/pretendo che la differenza diventi stile.
Alessandra Bocchetti
(Roma)

IPAZIA: gruppo di riflessione di donne sulla scienza, nasce a Milano nel gennaio di quest’anno, si riunisce presso la Libreria di via Dogana 2, ne fanno parte due matematiche, due psicologhe, due biologhe, alcune insegnanti e alcune filosofe.
Ipazia presenta due contributi

Diana per Hypatia: dar fiato alla voce femminile
L’inaudito non è un discorso, ma una voce. Questa voce è spesso coperta da un grande parlare-vociare. Si ha fretta che articoli un discorso, e così si presta la voce al discorso. E anche le orecchie si volgono al discorso, e sono ben abituate ad ascoltare i discorsi, meno a porsi in ascolto della voce femminile.
Sentirla e darle fiato è enormemente difficile. Dar fiato è un’espressione polisema: può significare, come in “dar fiato alle trombe”, il dare inizio a qualcosa che solamente aspettava il segnale per esprimersi in tutta la sua pienezza. Può indicare anche, come abbiamo inteso in primo luogo, il prestare il proprio fiato a una voce, a una parola, a una espressione. Darle materialità, darle corpo, farsi strumento e occasione del suo venire alla luce. C’è ancora un altro senso però, in cui si dà fiato, quello per cui si concede fiato, si dà respiro. Si lascia respirare, e il respiro è ciò che denota la vita, e insieme la ritma nel tempo che le è proprio. Dar fiato alla parola è anche rispettarne il tempo, non forzarla all’accelerazione di un ritmo estraneo, che non le appartiene. Questo è un invito al dare tempo. A rallentare. La differenza sessuale giunge a parola, e chiama parola, e le donne parlano. Noi siamo esattamente in questo intervallo tra parola e parola. E in questo stesso spazio pure si parla. Perlopiù si abbozzano risposte, si manifestano reazioni. Sono queste reazioni che voglio interrogare, a partire dalla mia. Tra parola e parola non c’è un tranquillo e fluente procedere: il senso, la libera significazione, non sgorgano dall’annuncio della parola come il fiotto di una sorgente a lungo ostruita. E nemmeno si è scoperchiata una cantina segreta in cui basta rovistare per far saltar fuori le risposte buone, solo un po’ impolverate. C’è un intervallo, logico e temporale, nel quale si situano le reazioni. Di un primo tipo sono innanzitutto quelle strategie integrative che riducono la differenza sessuale all’ordine dell’accidentale, del facoltativo, negandone la chiamata, o fanno mostra di accoglienza in quanto l’assenso non stride con nulla di ciò che davvero funge da criterio. Il contrario del vincolo. Questa natura hanno le reazioni di neutralizzazione (spesso si manifestano in donne fortemente coinvolte nella cultura corrente, o ad essa particolarmente sensibili), che si muovono in una economia di gratuità-superfluità, priva di attrito con la vita. La risposta qui non costa nulla, perché non vale nulla. Sostanzialmente diverse sono quelle reazioni che producono una quantità di autorappresentazioni del femminile. In particolare, questo tipo di risposta sembra emergere come dominante nell’ambito della riflessione femminile attorno ai temi della scienza. Tendenze analoghe paiono segnalarsi anche nel campo della politica, e le due aree hanno forti legami, basti pensare alla riflessione sul nucleare, che ha mediato l’entrata di molte donne nella politica mista. Qui ci interessa pensare le riflessioni prodotte dalle donne sulla scienza e su quei temi che ad essa, in questa stessa riflessione, vengono accostati (nucleare, ecologia, biotecnologie). Sotto il capitolo di “donne e scienza” sono messi solitamente argomenti vari, non del tutto omogenei. La riflessione delle donne li ha tenuti coniugati, non casualmente, nell’individuazione di una area problematica complessa ed articolata. È possibile distinguere almeno quattro filoni: presenza delle donne nell’impresa scientica, critica all’ideologia della scienza, que-stione del genere, problemi di valore nella scienza. Questa suddivisione riproduce, in parte, l’evoluzione cronologica della riflessione, dove un aspetto non soppianta il precedente ma ad esso si affianca e lo integra. In sintesi estrema, al primo filone appartengono gli approcci di tipo sociologico e storico, tesi ad individuare entità e motivi dell’assenza delle donne dalla scienza, quindi gli studi sul pensiero delle donne scienziate, e la loro valorizzazione. Altrettante energie femminili si sono dirette alla denuncia e alla critica dell’ideologia dell’impresa scientifica. Da questa impostazione si è sviluppato quindi l’approccio che va solitamente sotto il nome di “questione del genere”, nel quale denuncia e critica passano in ricerca di nuovi riferimenti, con una accentuazione dell’aspetto di riflessione epistemologica e di quello politico. L’ultimo filone, presa di posizione, con giudizi di valore, su particolari aspetti della scienza e della tecnologia, e sulla loro traiettoria di sviluppo, è, di tutti, quello che ha assunto la posizione preminente nel dibattito degli ultimi tempi. Anche in anni più lontani c’erano stati pronunciamenti di questo tipo (medicina, parto), ma se ne è avuta una moltiplicazione dopo l’incidente di Cernobyl, e a seguito del dibattito in atto sulle biotecnologie.
È da questo versante che provengono le voci di donne più proiettate alla produzione di autorappresentazioni. C’è una grande disponibilità a fornire pronte risposte a una infinità di domande: quel che le donne desiderano, chiedono, amano, vogliono per se stesse e per il mondo, quel che le donne sono. Sono sempre cose nobili, grandi e giuste. E non c’è nemmeno da dubitare della buona fede delle donne che le affermano, delle quali c’è da giurare che mettono tutta la loro passione e dedizione sincera nel difenderle, e ci sono dentro tutte, anima e corpo di donna.
Eppure c’è qualcosa (molto) che non mi convince. Forse allora occorre guardare bene in faccia queste cose grandi e giuste, prescindendo dall’istintivo assenso che inducono, e vedere che cosa vincola, e con cosa e a chi si paga il costo del riferimento alla differenza sessuale. Vengono dunque fornite delle risposte. Innanzitutto, perché? Vien detto che occorre prendere parola, uscire dal silenzio dell’estraneità, assumere responsabilità. Le risposte sarebbero quindi un modo di far uscire allo scoperto lo specifico femminile e di renderlo protagonista. Non si tratta, naturalmente, di un ingenuo determinismo biologico, di una propensione naturale, ma di un portato storico (tra la necessità biologica e quella storica non saprei dire quale sia più dura). Comunque sia, alle donne vengono attribuite una serie di qualificazioni. Le donne sono legate al quotidiano e ai suoi valori, al corpo, alle emozioni, all’amore, alle passioni, privilegiano la vita, la pace, aborrono il rischio, sono capaci di assumere la responsabilità di altri, in quanto madri sono inclini a un approccio armonico con la natura non violento e non astraente, stanno dalla parte del naturale di contro all’artificiale, propendono per una visione ecologica e olistica, per una prospettiva interattiva. Non è nel merito di questi contenuti che c’è da discutere. Non è dall’essere questi, e non altri, che proviene la mia perplessità. Questa si collega invece, in primo luogo, al fatto stesso della necessità di fornire risposte, e in secondo luogo al modo di fornirle. Da dove proviene, infatti, questa urgenza di rispondere, dal pressante domandare di chi? Si possono avanzare diverse ipotesi: 1) è l’interna necessità di significarsi liberamente della differenza sessuale che urge alla parola; 2) è un bisogno di trovare specificazione alla differenza sessuale, che costituisce un particolare tipo di reazione alla chiamata alla parola; 3) si tratta dell’indulgenza verso una domanda aliena, che proviene da uno spazio estraneo alla necessità di autorappresentazione della differenza sessuale. Può essere che sia vera la prima ipotesi, non so dire. In questo caso però, allora, l’assunzione di responsabilità è richiesta e dovuta essenzialmente alle altre donne, ed è la pratica che sostiene la significazione a venire in primo piano. Diventa discriminante il modo di fornire risposte, che deve risultare visibile nella sua trama comunicativa di riferimento. Quella celerità di risposta, e la straordinaria coincidenza dell’autorappresentazione con l’interpretazione sociale corrente del femminile, sono però sconcertanti. Risultano negate, espunte, le differenze tra donne, e le stesse contraddizioni della singola donna vengono forzatamente superate/sanate nell’artificiosità di una interezza ideale. Sono quindi più incline ad accreditare la seconda ipotesi, anzi l’azione convergente della seconda e della terza. Scarso affidamento sulla potenza del riferimento alla differenza, ricerca di supporto, relativa suscettibilità a risentire di richieste esterne. La fretta di dare/avere risposta, contenuto, discorso, si coniuga alla non volontà/capacità di pagare il costo del riferimento al proprio sesso. La fedeltà alla significazione della differenza sessuale pesa, e costa. Ma costa soprattutto il riferimento ad un orizzonte incompiuto, nel quale vige un altro tempo su cui scandire la vita, e che non va misurato che su se stesso. Questo orizzonte e questo tempo non hanno necessità di farsi carico di altre delimitazioni e ritmi. La differenza sessuale non è dell’ordine di ciò di cui si devono dare delle prove. Non c’è quindi necessità di mettere alla prova il pensiero della differenza gettandolo avanti a rispondere a tutto il domandabile. Non ha bisogno di prove qui e subito, da buttare sul tavolo. E poi, appunto, di che tavolo si tratterebbe? Non tutte le domande sono pertinenti; rispondere, non rispondere è il primo esercizio di libertà per il pensiero femminile. Questa libertà costa dissonanza, irresponsabilità, e silenzio nei confronti di altri riferimenti, e di altri vincoli. Essa muove da un distacco, ed è questo atto inaugurale di separazione, che segna la libertà nella sua facoltà di decidere, il pensiero nella sua potenzialità di discernere. C’è un taglio, un diniego, uno svincolarsi, prima di ogni nuovo legame, di un altro vincolarsi. Molte voci di donne, negli ultimi tempi, mi sono suonate così male impostate, come stonate. A me che, dicono, sono stonata, è venuto da pensare a quando non riesco a cantare come vorrei nella mia tonalità naturale, e per arrivare a prendere le note con la mia voce non educata, strillo in falsetto. Il pericolo è parlare in falsetto, pensare in falsetto. Come se, non fidando delle capacità espressive della propria voce di donna, si ricorresse all’artificio della voce femminea in falsetto, basato sulla quale esiste poi un ricco repertorio cui attingere. E, paradossalmente rispetto all’usuale, un problema di educazione alla voce naturale. Occorre darle fiato, perché si intoni, si imposti. È una questione di tempo e di misura: non imporre tempi estranei, trovare una misura adeguata. Per intonare la voce: metterla in risonanza con un’altra simile voce.
Diana Sartori
(Vicenza)

È in corso una rivoluzione scientifica…

I giorni 23 e 24 maggio è stato presentato a Parigi il numero 85 della rivista “Langages” dedicato alla differenza sessuale nella lingua e nel discorso, curato da Luce Irigaray (e prossimo ad apparire in Italia come numero speciale della rivista “Inchiesta”). Ho preso parte al Colloquio parigino con una relazione di cui ripresento qui il pezzo centrale, sulla “liberazione delle forme simboliche”. È in corso una rivoluzione scientifica e, come capita spesso quando la società cambia, vediamo che la differenza femminile riceve una specie di promozione sociale. Io penso che dobbiamo rifiutare questa promozione sociale ma sono insieme consapevole di quanto ciò sia difficile. Il processo di valorizzazione del femminile, infatti, ha un contesto, delle ragioni e delle modalità che sono in buona parte indipendenti dalle donne in carne ed ossa, e per il resto, per la parte in cui noi c’entriamo, esso si confonde ambiguamente con parole ed esigenze espresse da donne. Nella crisi che colpisce il progetto della razionalità scientifica, la differenza femminile è chiamata in causa specialmente in rapporto alla liberazione delle forme simboliche. Mi spiego. I linguaggi scientifici soffrivano di una crescente povertà quanto alle loro forme simboliche, sia espressive sia dimostrative. Il fatto di questa povertà (che non era debolezza ma rigidità) divenne evidente con la fisica dei quanti. Ma alcuni lo avevano segnalato e combattuto da prima. Per esempio, Charles S. Peirce, del quale voglio citare un lungo passo, scelto perché fa intuire bene il senso del ragionamento annunciato sopra. Scrive Peirce nel 1903: “II vaglio critico dell’analisi logica è limitato a ciò che sta entro le nostre possibilità di controllo. Può darsi che in futuro queste nostre possibilità di controllo diverranno più estese. Ma per il momento sono assai limitate. E il contenuto dei giudizi percettivi non può essere controllato ora e non è ragionevole sperare che possa esserlo mai. Con questa parte della mente, che sfugge ad ogni controllo, le massime logiche hanno altrettanto poco a che fare come con la crescita dei capelli e delle unghie. A quanto possiamo intravedere, questa parte della mente dipende da molti fattori: in parte da accidenti del momento, o della persona, o della razza; in parte da quelle condizioni di equilibrio che sono comuni a tutti gli organismi ben congegnati, in parte [ecc.]. Comunque sia, i nostri pensieri logicamente controllati formano soltanto una piccola parte della mente: la mera fioritura di una pianta dalle radici assai ramificate che possiamo chiamare mente istintiva”. L’autore prosegue dicendo che non è questione di avere fiducia o sfiducia nella mente istintiva, ma semplicemente di “costruire sopra di essa, perché è il necessario fondamento della verità della logica”. C’è in questo passo il pensiero chiaro di una parziale quanto necessaria liberazione del linguaggio scientifico dal dominio esercitato dalla logica. D’altra parte, questo stesso testo si apre, o può aprirsi, ad un pensiero della differenza sessuale, la cui possibilità sorge nel momento in cui tramonta il puro dominio logico di un logos senza corpo. Che questi due processi, di liberazione delle forme simboliche e di significazione della differenza sessuale, siano concomitanti, si spiega considerando che esisteva un nesso preciso tra dominio sessista e impoverimento dell’universo simbolico. Il dominio degli uomini sulle donne, infatti, ha funzionato e funziona come una scorciatoia pratica per il soggetto pensante confrontato alla dualità originaria del suo essere uomo/donna a causa del corpo sessuato. Così dunque la significazione della differenza sessuale domanda e insieme produce liberazione delle forme simboliche, e questo, non altro, sarebbe il motivo della promozione sociale di cui gode oggi il femminile. Perché, allora, rifiutarla? Perché, in realtà, non si tratta di due processi, ma di uno soltanto, dove la differenza sessuale viene interpretata secondo la polarità di maschile-femminile, con tutte quelle altre polarità che essa tradizionalmente sottende cultura-natura, attivo-passivo, astratto-concreto. O, più vicino a noi: hard-soft, digitale-analogico, ecc. E perché questa interpretazione della differenza sessuale, questa maniera di valorizzare la differenza femminile, non ha bisogno della libertà femminile. Che una donna parli da sé e per sé, o che in lei parlino desideri e bisogni di altri, questo è indifferente alla liberazione delle forme simboliche nei termini che dicevo sopra. La liberazione delle donne, infatti, è tutta metaforica. Del resto, i due processi si riducono a uno proprio per effetto d’interazione metaforica, con uno scambio di significati dall’uno all’altro ambito, dove però uno, quello secondario, non fa che offrirsi come figura alla significazione dell’altro. Così, per tornare al testo di Peirce, la confusione tra i due processi genera l’equivalenza di maschile/femminile = mente logica/mente istintiva. Porto un altro esempio, un passo tratto dal celebre Come fare cose con le parole di Austin: “È essenziale rendersi conto che “vero” e “falso”, come “libero” e “non libero”, non stanno per alcunché di semplice, ma soltanto per una dimensione generale dell’essere una cosa giusta o corretta da dire, in opposizione ad una cosa sbagliata, in queste circostanze, a questo auditorio, per questi scopi e con queste intenzioni (…). La verità e la falsità di un’asserzione dipende non soltanto dai significati delle parole ma da quale atto stavi eseguendo in quali circostanze”. Dunque, il soggetto concreto e il contesto particolare non sono più visti come ciò che si cancella dietro il soggetto e il discorso della conoscenza dimostrata. Vi entrano invece come determinanti per la definizione stessa di vero/falso. Vediamo così le forme della dimostrazione uscire dall’impianto di una rigida oggettività. E vediamo insieme una pensabilità della differenza sessuale dalla parte del soggetto. Anche qui, però, il doppio processo di apertura può ridursi ad uno e generare lo stereotipo per cui sarebbe maschile pensare secondo il significato assoluto delle parole, femminile secondo il contesto e le circostanze concrete. Oggi si sta verificando proprio questo ed è in questa chiave che il femminile viene socialmente valorizzato. Sia chiaro, ne Peirce ne Austin sono in qualche misura responsabili dell’esito in questione, le cui cause sono più grandi e più vicine a noi (Austin concepì i pensieri che ho citato, negli anni Cinquanta). Per darne l’idea, farò il mio caso personale. Per anni mi sono interessata, storicamente e linguisticamente, di retorica del linguaggio scientifico (così la chiamo io) e pochi anni fa ho pubblicato un breve saggio, Maglia o uncinetto, in cui ragiono sulle forme simboliche di tipo metaforico e di tipo me-tonimico. Anche questa opposizione fu intesa secondo lo stereotipo di maschile/femminile, e io non ho trovato il modo di sconfiggere una simile lettura del mio testo, che tendeva ad imporsi perfino a me. Tanto che lasciai la mia ricerca interrotta. Sapevo, allora come adesso, che il problema è di trascrivere la differenza femminile nel registro della libertà. Adesso vedo anche che il problema è d’impedire la metaforizzazione reciproca fra la liberazione delle forme simboliche e la liberazione delle donne. Non c’è dubbio che fra le due cose esista un rapporto ma non è un rapporto di somiglianza. Le donne, voglio dire, non somigliano a quello che gli uomini non hanno saputo pensare o fare e di cui sentono la mancanza.
Luisa Muraro
(Milano)

Arte di polemizzare tra donne

Polemizzare tra donne è far guerra. Per fare questa guerra occorre avere un profondo senso della dignità propria e dell’altra. È un giuoco elevato e non corrisponde a quei modi che si risolvono nella capacità di ogni linguaggio di procedere indipendentemente dalle interlocutrici. Il primo taglio da fare è impedire il tono polemico perché non rende visibile se non ciò che il già detto continua a dire e, come la scenata in amore o la violenza in politica, consente il mantenimento del modello che si vivacizza e si fa credere reale grazie all’agitarsi di questo tono. La guerra per una donna è nel linguaggio: non consentire che si chiuda nei codici, spaziare, interrompere. È necessario far saltare i toni polemici che promuovono schermaglie linguistiche sostenendo una contesa fittiziamente esistente, una farsa, non un accadere: essi si compattano all’ordine discorsivo. Occorre creare una vibrazione differenziale. L’attenzione si veste di guerra e non di toni di guerra. La guerra si fa talvolta perché c’è una straniera. Dovremmo saper esser tra noi straniere senza distanze, senza indifferenze e vicine senza identificazioni. Spesso tra donne si vive una fusione senza separazione: una sorta di indiviso. Tutto quello che non mantiene uno stato di uguaglianza che è il tratto distintivo e quanto rende stabile e compatto l’indiviso, viene privato di esistenza: così paradossalmente nell’indivisione si ha diritto di esistere e nel distinguersi si viene cancellate. Qui non vi è luogo per il giuoco, ci si serra per paura di perdersi. Ne vi è guerra perché non vi è una parola adeguata, parola che sappia dar separazione nell’indiviso, che inviti a diversificarsi, ma anche congiunga nello spezzare e che non ceda quindi ai codici del distacco. La ricerca di una parola adeguata è per noi un necessario territorio. Necessità è nella relazione tra donne la parola che sorge da questa relazione. Parola necessaria che si riferisce al loro volgersi reciproco, essa dice perciò quanto non compare negli ordini dei saperi costruiti dal dialogo dell’uomo con l’uomo: è una parola che il linguaggio non trasmette. Questa parola necessaria si spinge ai limiti e, in cerca dei possibili per sé, spinge il discorso all’impossibile. L’impossibile non è ne porta sbarrata ne il non ancora detto, ma il luogo in cui si muove quanto sorprende, quanto getta i ponti, quanto mira al salto. Così, in un impossibile del discorso, questa parola tra donne, derivabile solo dal rivolgersi dell’una all’altra e inderivabile da qualunque altra determinazione, afferma, in un mai prima sperimentato valore dell’affermare, la relazione stessa e chiama il mondo a partire da questa, misura mai già appropriata o pensata dal mondo. Questo è il condiviso tra donne, unica tensione necessaria che da dignità ad una guerra tra loro. La guerra è comunicazione del condiviso. Perciò è mossa di guerra ogni taglio, ogni spacco operato nei saperi, ogni cambio di tono, per far risaltare la parola e i modi in cui la relazione si dà.

i luoghi miseri della polemica: la voce altrui
Vi sono molte maniere di avvilire un incontro di guerra tra donne; uno di questi è l’immiserire l’altra in un piano in cui tutto quello che avviene lì è svuotato da un’altra istanza che si determina altrove. Gli altrove sono molti, però racchiudono forse un tratto comune: essi trovano la loro misura in un già acquisito nelle relazioni con gli altri; sono le strategie “alle spalle” e non solo in assenza, luogo di confino dove la donna si lascia confinare; i contenuti femminili marcati dalla presenza dell’uomo e mai messi in discussione; i codici nella loro compattezza. In questo campo niente accade come parola di differenza. Non rimane che una sola guerriera, l’altra è una donna di esercito: è una che combatte senza avere nelle sue mani la ragione del suo lottare. Il suo destino non è legato alla necessità di un condiviso, non appartiene alla parola dell’incontro, è tenuto da altri fili. Una volta questo luogo fuori campo si chiamava Fato, ma nell’inclinarsi della bilancia v’era un imprendibile che pure conferiva dignità ai combattenti. Oggi questo è un codice immodificabile da parte di colei che vi si sottomette. L’aspetto più triste è che non ci si piega avendo il distacco, la disperazione o la docilità che ciò che non può essere mutato suscita. Al contrario si aderisce, si è complici, si crede di poter condividere. Così alcune donne, convinte nella polemica di dire di sé, dicono del proprio essere relegate in uno spazio soffocante, parlano il linguaggio che lo schiavo parla dopo aver abitato troppo a lungo in una dimora non sua. La loro voce è la voce altrui, né ha il segreto suono di ciò che si cela; piattamente il loro tono assenta il campo della vera lotta. Una guerriera viene sprecata in un polemos con un’altra che dice con voce non sua.

arte di guerra e di amicizia
– Occorre saper fare un passo indietro. Questo è il primo invito di guerriere che s’impegnano tra loro in una lotta. Non stare immobili dove lo schema le situa, non fermarsi ai punti prevedibili del loro scontro. Fare un passo indietro è dar spazio al movimento, è allentare la stretta, ritirarsi dall’io, dai propri codici, dalle immediatezze, dall’immagine di sé. Questo dovrebbe essere il primo invito.
– Non è necessario che questa guerra sia segnata da ideali etici, ma occorre che non si dimentichi la sobria delicatezza di alcune regole. Ho visto trascurare piccole e necessarie gentilezze da donne che parlavano di etica. Sono perciò diffidente verso l’etica.
– Punto essenziale è la limpidezza. Limpidezza non è svelamento del piccolo o grande segreto, ma del giuoco di quel luogo così come si svolge. Dar trasparenza all’accadere è l’unica via per arrestare le interpretazioni, per smontare l’ovvio che procede sul non detto.
– Riconosci le tue ferite. Alcune bruciano, ma non sono ferite, sono le trappole di un cupo colpire che non apre a nulla. La ferita invece si porta dietro l’anima: è il corpo, il sangue, la parola che corrono dietro questa ferita, balbettando. Ha spezzato ad un certo punto, sta interrompendo con alcune significazioni dominanti, ti tira fuori da tè, eppure mai come ora, ancora senza sincronia, ancora dolorosamente, cominci a sentire che c’è un ritmo in tè che prima mancavi sempre. Si viene via da qualche costruzione, da qualche legame, ma soprattutto dalla previsione, sei come trasferita, tratta fuori, ma sei presente a tè, nella prossimità di tè: smetti solo il consueto della vicinanza a tè. Ci si guarda attraverso una soglia, ne nuova, ne sconosciuta. Questo può accadere anche come sorpresa, illuminazione nel mezzo della lotta. Occorre fermarsi, darsi tempo di raggiungere la propria ferita. Può essere un tempo molto lungo. Qualche volta solo dopo si guarderà al-l’essenziale di quel che si è detto o si voleva dire. Per capirlo occorre abolire qualunque contabilità. È questa ferita nominata che mi invia al mondo, non devo interiorizzare nulla, non la nascondo, essa diviene luogo di una affermazione innocente.
– Qui si fa il silenzio di questa guerra. Tacciono i codici e le false misure. Non si sa se è lotta o abbraccio. Qui inizia il conversare in un’ora blu al riparo dalle discorsività già date. E che l’una si appoggi all’altra o che ancora ci si guardi di fronte o anche si rida, questa guerra è uno dei più puri riconoscimenti.
Angela Putino
(Napoli)

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