Stefano Rossi
«Una scelta che ci è costata sofferenza. Non contro la Chiesa, a fianco della Chiesa». Paolo Miranda, un lavoro al sindacato, e Giuliana De Ruvo, impiegata nelle indagini di mercato, hanno 48 anni e stanno insieme da quando ne hanno diciotto. Chiacchierano cordialmente nel salotto di casa, alle spalle tanti libri. Giuliana, caschetto castano e occhi chiari, indossa un golfino grigio. Paolo, sorriso aperto, porta i jeans e un maglione blu. Andrea, 12 anni, e Matteo, 8, esibiscono capelli lunghi e un ghigno furbetto. Si nasconde qui il germe distruttore della famiglia italiana?
Già, Giuliana e Paolo in trent’anni di vita comune non si sono mai sposati: «Ci siamo conosciuti al liceo – racconta Paolo – io in ultima fila e lei, secchiona, in prima». Si sono innamorati, fidanzati, hanno messo su casa, sono arrivati i figli. Ma il sì e le fedi davanti all’altare, mai. Eppure sono credenti, vanno a messa anche se magari non tutte le domeniche, impartiscono ai loro figli una educazione cattolica innervata di valori trasmessi da loro come genitori e dai sacerdoti della parrocchia come educatori, a cominciare dalla frequentazione dell’oratorio. Vivono la vita con grande attenzione alla fede, si interrogano, riflettono.
Perché, allora, non sposarsi? «Il matrimonio religioso richiede un impegno per la vita – rispondono – mentre noi rinnoviamo il nostro legame giorno per giorno, con la consapevolezza che staremo insieme finché ci saranno amore e rispetto reciproco. L’obiettivo è che questo duri per tutta la vita, tuttavia non potevamo giurarlo davanti alla Chiesa. Perché crediamo nel divorzio, se le ragioni del nostro amore non esistono più». E dunque? «Dunque non potevamo dire “sì” a un sacramento pensando invece “no”. È per il rispetto per la Chiesa e i suoi sacramenti, per una forma di coerenza con il nostro essere cattolici, che abbiamo scelto di non sposarci».
E così vanno le cose da allora. Il matrimonio civile no (Giuliana: «Sembrava un contratto un po’ arido, nessuno di noi due si sentiva una parte debole da tutelare»), e nell’attesa di qualcosa come i Pacs o i Dico, la speranza di non averne mai bisogno, di non venire respinti dai medici per non avere titolo a informarsi sulla salute di lui o di lei, la speranza di non vedersi negata la pensione di reversibilità. Non si sono mai presentati – informalmente, per brevità – come marito e moglie, non parlano del partner come «compagno» o «compagna», la trovano una formula «troppo ideologica» perché loro, appunto, sono laterali alla Chiesa, non contro. Quindi Paolo, agli altri, per significare Giuliana dice solo «Giuliana», Giuliana dice «Paolo», senza ostentazioni né reticenze.
All’inizio non è stato facile (parliamo anche, non dimentichiamolo, di trent’anni fa) ma i contrasti maggiori sono sorti con la nascita dei figli. Soprattutto nella famiglia di lui, dice Giuliana. Paolo smorza un po’: «Quando ho detto in casa che Giuliana era incinta c’è stato non dico un rifiuto, ma una reazione un po’ forte. Alla fine i miei hanno rispettato la nostra scelta e, anzi, da allora i nostri rapporti sono più schietti». Dodici anni fa, quando è nato Andrea, il prete poteva rifiutare il battesimo ai figli delle coppie non sposate ed è quanto fece il parroco di San Giovanni Battista a Trenno, il quartiere dove Giuliana e Paolo hanno casa.
Eppure, è pacifica la consapevolezza che «la famiglia non è dominio esclusivo della Chiesa e che in nessun modo – scandiscono in coppia – ci sentiamo diversi dalla famiglia cattolica sposata». Se non, aggiunge Giuliana, «nella esplicitazione onesta del fatto che il matrimonio non ci vede pienamente d’accordo». E Paolo: «Noi non avremmo impedimenti a sposarci ma sappiamo di persone con un matrimonio alle spalle che vivono con sofferenza il rifiuto della Chiesa. Lo trovo sbagliato». Giuliana ricorda di aver conosciuto una donna divorziata, cattolica osservante e mamma in lacrime: «Il marito l’aveva lasciata, non era una scelta sua. E non si era risposata. Esclusa dai sacramenti, e non potendo fare da madrina alla comunione dei figli, ha pagato due volte».
Oggi Paolo e Giuliana non fanno mistero, benché credenti, di far parte della comunità ecclesiale principalmente perché i figli crescano nel solco dei valori cattolici. Spiega lei: «Ci sentiamo stretti in questa Chiesa, che non dovrebbe mai respingere bensì includere». Ora ci sono i Dico, e la presa di posizione del cardinale Tettamanzi sulle coppie di fatto. I Dico: «Una scelta dovuta, un’alternativa noi l’avremmo, altri no. È importante tutelare anche i gay e le convivenze non matrimoniali». Paolo avrebbe gradito «meno timidezza da parte del governo, non vedo impedimenti a una assoluta parificazione di diritti fra conviventi e coppie sposate. Però capisco il contesto politico». Giuliana invita il cardinale ad andare avanti: «Non si lasci intimorire dalle posizioni più radicali. La Chiesa assolve la sua funzione nella società se abbraccia una collettività ampia».
Resta un’ultima domanda: Matteo e Andrea, educati nel cattolicesimo per volontà dei genitori, come vivono questa situazione? «Sanno che non siamo sposati, talvolta ne parliamo, ma non pare davvero che sia fonte di preoccupazione per loro». E il motivo è semplice, chiaro, inattaccabile: «Noi non siamo, e nessuno si permetta di dirlo, una famiglia di serie B».