Marina Mastroluca
Vorrei che qualcuno me lo spiegasse, vorrei che il cardinal Ruini mi dicesse che c’è nel mio modo di vivere che mina la convivenza sociale, mette a repentaglio la costituzione, intacca il matrimonio altrui e la famiglia, scritta tutta maiuscola. Vorrei sapere che c’è di sbagliato nell’avere una famiglia senza aver mai messo un timbro sulla mia scelta – è un pezzo di carta a fare la differenza? Tutto qui,
davvero?
Convivo da sedici anni con la stessa persona, abbiamo due figli, ci sono matrimoni celebrati con solennità che durano meno. All’inizio, per poter comprare a rate un’automobile abbiamo dovuto sottoscrivere un atto notorio, che dichiarava la nostra convivenza more uxorio e quindi la nostra comune solvibilità: il foglio sarà finito in qualche schedario del concessionario Fiat che ci vendette l’auto, testimone di un “matrimonio” utilitaristico che non aveva valore per nessun altro, noi compresi.
Non ci siamo sposati senza avere in motivo particolare, se non la voglia di rinnovare ogni giorno l’impegno a stare insieme, in un certo senso – potrei dire – ci siamo sposati ogni giorno senza scriverlo da nessuna parte.
Agli atti c’è solo la proprietà condivisa di una casa, un conto corrente comune per metterci al riparo da ogni eventualità. Siamo giovani ancora, e per il momento ci sono state risparmiate sofferenze che avrebbero messo a nudo l’assenza di tutele reciproche. Guardando al futuro resta in sospeso l’ipotesi di nozze burocratiche, per metterci sotto l’ombrello di quella legalità che ora ci viene negata. Però che pena ridurre il matrimonio a una formalità d’obbligo, non troppo diversa in fondo da quel foglio che anni fa ci permise di comprarci una Punto. È così che nasce una famiglia?
La nostra in realtà è nata dieci anni fa, insieme a Lorenzo. Per iscriverlo all’anagrafe allora, non essendo sposati, dovemmo andare tutti e due, lasciando il piccolo in ospedale: io avevo partorito il giorno prima, all’ufficio comunale questa eventualità era prevista, potei evitare la fila. Andò meglio cinque anni dopo con l’arrivo di Laura, allora era possibile fare un pre-riconoscimento e poi registrare il neonato in ospedale. Ma sui documenti di entrambi i bambini il mio nome non compare, secoli di burocrazia non sono riusciti a prevedere uno spazio con le generalità della madre sul foglio che autorizza i miei figli ad andare all’estero, come su qualsiasi altro documento. Non c’è nulla che leghi il mio nome al loro, persino in questura mi hanno sconsigliato – non vietato, sia chiaro – di iscriverli sul mio passaporto, perché “non si sa mai”. Non c’è stato da stupirsi, uscendo dall’area Schengen, quando una guardia di frontiera mi ha fermato con Lorenzo in braccio.
Sciocchezze si dirà. Ma mi piacerebbe che quelli che si sbracciano a favore della famiglia mi dicessero perché la mia non merita nessuna attenzione, perché siamo come clandestini a bordo. Perché i miei figli possono ereditare solo dai nonni, in linea diretta, e non da rami collaterali. 0 perché, ogni volta che si torna a parlare di coppie di fatto – e figli di fatto – ci si senta in obbligo di rispolverare un armamentario di offese contro chi ha fatto questa scelta, quasi una bolla d’infamia. La mia è una “libertà anarchica”, illegittima e incostituzionale, e sia. Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché, sarò dura d’orecchi ma non trovo nulla di pericolosamente anarchico nell’alzarmi alle sette per portare i miei figli a scuola, o nel fare i salti mortali per far quadrare i tempi del lavoro con i loro. Non mi sembra così incostituzionale – cielo quanto vorrei che lo fosso – caricare una lavatrice dietro l’altra e trovarsi a mezzanotte a stendere miriadi di calzini minuscoli, dopo aver letto la favola della buona notte e cacciato tutti i lupi cattivi. Vorrei che mi si spiegasse cosa c’è di eversivo nello stirare il grembiule per il primo giorno di scuola e rendersi conto che “oddio sei già così grande”.
Cerco di insegnare ai miei figli a essere buoni, anche se non tutti lo sono, come non si getta una carta per terra anche se gli altri lo fanno. Cerco di spiegare che forse qualche volta si diventa cattivi perché ci si sente tristi e soli. E che se si sbaglia, bisogna chiedere scusa anche se costa fatica. E che il mondo non è il paese dei balocchi che vedono nelle pubblicità. Qualcuno mi dica che sbaglio.